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Sinone studia il comportamento dei Troiani e desta la loro pietà: li vede sprovveduti, ingenui

di Francesco Lamendola - 15/09/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

Nel personaggio di Sinone, il greco che si finge perseguitato dai suoi compagni e induce i Troiani a introdurre in città il cavallo di legno, Virgilio ha creato una delle più riuscite e drammatiche figure di traditore: un traditore maligno, poiché la sua arma principale è proprio la pietà che sa destare ad arte nell’animo di coloro che si appresta a tradire, votandoli allo sterminio.

I fatti, raccontati all’inizio del secondo libro dell’«Eneide» sono noti.

I Troiani, trovando il lido abbandonato dai Greci, che sembrano essersene andati per sempre, lasciando dietro a sé il grande cavallo di legno, sono ancora turbati dall’audacia di Laocoonte, il sacerdote di Poseidone, che, trovatosi da solo contro la credulità dei suoi concittadini, li aveva messi in guardia dal portare il cavallo entro le mura ed aveva scagliato una lancia contro il suo fianco, pronunciando le famose parole: «Timeo Danaos et dona ferentes» (che potremmo tradurre non solo con l’ovvio: «Tremo i Greci anche quando portano doni», ma forse addirittura con «Temo i Greci soprattutto se portano doni»).

In quel momento appare Sinone: un uomo con le mani legate dietro la schiena, che alcuni pastori spingono verso il re Priamo: impaurito, inerme, fatto oggetto di insulti e di scherno da parte di tutti. Egli sta recitando, da attore consumato, una temeraria e infame commedia: leva alte grida dicendosi vittima della sporte avversa, versa lacrime di disperazione e riesce a intenerire il cuore ei nemici. Questi lo esortano a parlare ed egli racconta una storia ben congegnata per suscitare in loro sentimenti di pietà e di solidarietà umana, nonché di fiducia. E Sinone, al cospetto di Priamo che lo invita a deporre ogni timore, dice anzitutto di essere un greco e di odiare la menzogna, si vanta anzi della propria dirittura morale, come dell’unica ricchezza che gli è rimasta; afferma di esser caduto vittima di false accuse di tradimento e di essere stato condannato a morte dai suoi stessi compagni. Si proclama parente di Palamede, vecchio re di Eubea, che aveva accompagnato in guerra; ma alla morte di questi, avvenuta per le male arti di Ulisse che non gli aveva perdonato d’aver smascherato la sua finta pazzia, nulla aveva più potuto difenderlo dall’odio dell’infido Laerziade, tanto più che non aveva saputo trattenersi dal giurare vendetta sulle ceneri dell’amico estinto. A questo punto del racconto, Sinone s’interrompe e finge di non voler proseguire: i Troiani han già deciso di ucciderlo, a che scopo dovrebbe parlare ancora?  Ma i suoi ascoltatori, ingenui, lo pregano di continuare; ed egli, rinfrancatosi, prosegue.

Già più volte, dice, i Greci avevano pensato di partire, abbandonando l’infausta impresa bellica; ma sempre il mare agitato aveva frustrato i loro piani. Allora i sacerdoti avevano consultato l’oracolo di Apollo, ottenendo questo responso: così come la partenza verso Troia era stata resa possibile dal sacrificio della vergine Ifigenia, figlia di Agamennone, così ora la partenza richiedeva il sangue di un altro giovane innocente. I Greci erano rimasti turbati, chiedendosi su chi di loro sarebbero cadute le sorti; a quel punto Calcante, già messosi d’accordo con Ulisse, dopo essersi fatto pregare per ben dieci giorni, come se gli ripugnasse condannare a morte uno dei suoi, aveva infine indicato lui, Sinone. Questi, però, in attesa del sacrificio, aveva spezzato le funi ed era fuggito fra i canneti e le paludi della riva, in cerca di un’impossibile salvezza, e vi era rimasto acquattato finché aveva visto le navi greche alzare le vele e uscire in mare aperto.

Qui finisce il racconto: e Sinone, ultimo tocco magistrale della sua infame recitazione, chiede pietà al re troiano, ricordando la sorte tremenda che attende i suoi familiari, sui quali certamente si sfogherà l’odio vendicativo di Ulisse e degli altri greci.

Priamo abbocca in pieno: non solo gli promette salva la vita, ma l’adozione a cittadino troiano; non solo gli offre una nuova patria, ma mostra in lui completa fiducia, chiedendogli il significato del cavallo di legno. Sinone allora, chiamando i celesti a testimoni della verità delle sue parole, dice di non esser più tenuto ad alcuna forma di lealtà verso coloro che volevano ingiustamente sopprimerlo e rivela che il furto sacrilego del Palladio, da parte di Ulisse e Diomede, aveva attirato sui Greci l’ira divina. Per placarla, Calcante aveva consigliato di partire da Troia e tornare ad Argo, per rinnovare gli auspici e ritornare dopo aver placato il giusto sdegno di Atena: il cavallo è un simulacro di espiazione, e fu costruito così grande perché i Troiani non potessero condurlo in città. Se ciò avvenisse i loro nipoti porteranno un giorno, a loro volta, la guerra fin nel cuore della Grecia; se, invece, dovessero profanarlo, gravi sciagure si abbatteranno su di loro.

Questo dice Sinone, con false lacrime ed empi giuramenti, riuscendo a intenerire i suoi ascoltatori e a convincerli della sua perfetta sincerità. Subito dopo, per giunta, accade un terribile portento: una coppia di draghi, usciti dal mare, si avventano su Laocoonte e sopra i suoi due teneri figlioletti, avvinghiandoli tutti e tre nelle loro spire e straziandoli orrendamente, fino alla morte. Ciò scioglie ogni residuo dubbio: è evidente che i Celesti, per mezzo di quel terribile castigo soprannaturale, hanno voluto punire il gesto sacrilego del Troiano; e, se i Greci non vogliono che il cavallo entri nella rocca, ebbene, essi ve lo porteranno ad ogni costo: aprono un varco affinché la sua mole gigantesca possa passare, costruiscono ed applicano delle ruote di legno alla sua base, e lo introducono in città, lieti e festanti. Con ciò, senza saperlo, hanno decretato la fine di Troia e la morte  o la schiavitù per se stessi: Ulisse e gli altri guerrieri acquattati nel ventre del cavallo, di lì a poche ore, mentre i Troiani si godono la prima notte di quiete dopo nove anni di guerra, usciranno col favore delle tenebre, apriranno le porte cittadine ai loro compagni frattanto ritornati in silenzio, e daranno inizio al massacro e all’incendio.

Dante, il grande ammiratore di Virgilio, davanti alla perfidia di Sinone prova uno sdegno così profondo, che lo induce a collocare il Greco nel più profondo del suo Inferno: tormentato da una febbre ardente, Sinone ha il corpo che fuma come accade, d’inverno, alle mani bagnate; e si vede rinfacciare le sue menzogne da un altro dannato, il falsario Adamo da Brescia, e con lui viene alle mani, scambiandosi l’un l’altro insulti feroci. È l’estrema abiezione di un’anima spregevole, davanti alla quale il divino poeta non prova neppure l’ombra di un sentimento umano, non che di compassione o di pietà: terribile simbolo ammonitore di quanto vi è di più basso e disgustoso nella condizione umana.

Certo, la perfidia di Sinone è diabolica, così come la sua temerità, basata sul rischio notevole, ma perfettamente calcolato, di riuscire a persuadere i Troiani della sua buona fede e passare, ai loro occhi, come una vittima innocente della malvagità di Ulisse; e tuttavia essa non è la causa vera e propria della caduta della città, perché questa si inquadra in una grandiosa partecipazione di forze soprannaturali, guidate dal dio del mare, Nettuno (Poseidone per i Greci), votate alla distruzione della rocca di Priamo e dei suoi sventurati abitanti; e, al di sopra degli stessi Dèi, guidate dal Fato. La storia, dunque, per Virgilio non è frutto del caso, di meri accidenti individuali; ma è il risultato di un disegno che eccede le forze umane e la cui vastità e complessità si sottrae inesorabilmente al nostro sguardo.

Ha giustamente osservato in proposito il latinista Adriano Bacchielli, autore di una bella traduzione del poema virgiliano («Eneide», Torino, Paravia, 1963, pp. 59-60):

 

«Domina questa seconda parte del libro [del secondo libro: dopo, cioè, il generoso, ma inascoltato intervento di Laocoonte] la figura del greco Sinone, che si innalza al di sopra di ogni altro (dello stesso Priamo, di Laocoonte, di Cassandra, ecc.) e su tutti trionfa con la stessa facilità con cui la perfidia e l’astuzia vincono il valore e la bontà.

La narrazione del simulatore è un capolavoro di menzogne miste  a mezze verità che si  innestano ad avvalorare  le bugie; e veramente diabolica  è l’arte con cui egli sa dosare e spendere le sue parole, suscitare la pietà, la curiosità, l’interesse, ed arrestare la narrazione  al momento opportuno allo scopo di acuirle o ravvivarle; né meno abile si mostra  nell’ostentata indifferenza verso la mole immensa del cavallo di cui parla come di una cosa di non immediata importanza; né meno perfetta la simulata titubanza nello svelare un segreto sul quale si fonda non la salvezza, ma la rovina dei Troiani.

Ma l‘arte di Sinone non è la sola a cospirare ai danni di tutto un popolo innocente,  a vincere quella gente che non era stata piegata né dal divino Achille, né da mille navi nemiche, né da tanti eserciti greci: insidia i Troiani il loro cieco bisogno di credere  ad ogni costo nella fine di tutte le loro sventure, di modo che la saggezza di pochi (Capi, Laocoonte, Cassandra) nulla può contro una folla nella quale, come sempre,  le ragioni si elidono e i sentimenti si assommano.

Cospirano infine contro Troia, invisibili e occulte, le stesse potenze soprannaturali, gli Dèi e il Fato, che dispongono la successione di fatti ed avvenimenti, (ora naturali, ora straordinari) nell’ordine necessario perché tutto si compia secondo il piano prestabilito.

Così l’apparizione di Sinone non doveva avvenire un attimo dopo, Né  la morte di Laocoonte in un altro momento, affinché fosse interpretata come il castigo di un sacrilegio, mentre in realtà era il contribuito che Nettuno, desideroso di vendicarsi  di un’antica offesa subita ai tempi  della costruzione delle mura, dava all’opera insidiosa di Sinone e del Fato.»

 

Perché il punto è questo, e Virgilio, con la sua straordinaria sensibilità, l’aveva compreso: per quanto malvagie (o sublimi) possano essere le azioni degli uomini, esse non produrrebbero i risultati che in effetti producono, se una forza superiore non le ispirasse, non le dirigesse, non le ponesse al servizio di un disegno cosmico, dalla vastità così smisurata che le deboli menti umane non giungeranno mai a coglierne l’intera trama.

La differenza fra Virgilio e l’uomo moderno, ossia fra il pagano e il cristiano (e l’uomo moderno è “cristiano” in senso antropologico, anche se rifiuta il cristianesimo) è che il primo non sa darsi pace davanti alla evidente arbitrarietà e crudeltà di quelle forze soprannaturali: infatti, davanti al rancore implacabile di Giunone nei confronti di Enea, fin dai versi iniziali del suo poema, gli sfugge dal profondo del cuore una domanda affannosa, che è simile a un grido d’angoscia: «Tantaene animis caelestibus irae?» («Di tanta ira son capaci i Celesti?»). E così, Virgilio è costretto a risalire più indietro, nella catena delle responsabilità circa il male presente nel mondo: al di sopra degli Dèi, benevoli o maligni nei confronti degli esseri umani, vi è il Fato: freddo, immodificabile, spietato, al quale gli stessi Dèi son forzati a inchinarsi, talora soffrendo. Ma la domanda sul senso del male, rimane: rimane il mistero della malvagità di un Sinone; rimane il mistero del dolore di una donna buona e generosa, come Didone, spinta al suicidio per l’abbandono di Enea, di cui è profondamente innamorata; ma rimane anche il mistero che sospinge l’eroe troiano fuori dal porto di Cartagine, lungi dalla donna amata, incontro a un futuro incerto, irto di avversità e di pericoli. Che senso ha tutto questo soffrire, talvolta provocato dalla pura e semplice malvagità umana, talaltra da ragioni imperscrutabili, visto che, come direbbe Leopardi, colui che ha la peggio, patisce, ma anche colui che ha la meglio non gode, anzi deve affrontare sempre più dure tribolazioni?

Neppure l’uomo moderno possiede la risposta a questo interrogativo capitale; e tuttavia si trova in condizioni meno disperate dell’uomo antico. L’uomo moderno, permeato dalla mentalità cristiana (anche se, ripetiamo, decide di rifiutarne il credo), sa che il destino di bene e di male dell’uomo – che, peraltro, non si può giudicare sul breve periodo: talora una presunta disgrazia si rivela provvidenziale, e viceversa – è legato, da un lato, al tesoro magnifico, ma anche pericoloso, della propria libertà: se non fosse dotato di libero arbitrio, egli non sbaglierebbe, e così non provocherebbe il male; dall’altro riposa in una Verità trascendente, imperscrutabile, ma non minacciosa e sempre in agguato, come lo era nel mondo antico (che colpa mai avevano i Troiani dell’offesa arrecata, al momento della fondazione, al dio Nettuno?), bensì in se stessa sommamente benevola e amorevole, perché è l’Amore.

In questo senso la presenza del Male, del Male con la “m” maiuscola, non è affatto negata, ma diviene in certo qual modo più comprensibile: essa discende da una intelligenza, libera anch’essa, ma superiore all’umana, che ha deciso, essa pure, di fare un uso colpevole della propria libertà. Non è tutto buono e tutto bello, il mondo, nemmeno per l’uomo contemporaneo: in esso, però, il Bene e il Male assumono una fisionomia specifica, e non è possibile alcuna confusione fra essi: perché l’albero, disse il Maestro, si riconosce dai frutti. Questo, l’uomo antico non lo sapeva: presumendo di poter spiegare ogni cosa con la sola ragione, come Socrate, arrivava a immaginare che gli uomini, nel momento in cui si fossero liberati, con il ragionamento, delle loro credenze sbagliate, sarebbero per ciò stesso diventati buoni, e quindi anche felici.

Quale illusione! Da simili altezze velleitarie, il pensiero antico è caduto lentamente, per un moto di reazione, nell’eccesso opposto: nell’angoscia esistenziale, nella disperazione, nell’ansia soteriologica, a qualsiasi costo, con qualunque prezzo. Ed ecco tumultuoso il proliferare, nella tarda antichità, di filosofie e religioni basate su una salvezza che viene dall’esterno, perché l’uomo, nel dramma cosmico che si svolge fra Bene e Male, è nulla e conta nulla: idea aberrante, che abbassa il concetto che l’uomo ha di sé al di sotto del minimo necessario per conservare ancora un sufficiente amore per la vita. Da un estremo all’altro: dal sogno di potersi redimere per mezzo delle sue sole forze, allo smarrimento davanti a una realtà incomprensibile, ostile, sempre pronta a colpirlo a tradimento e, quindi, al desiderio di prostrarsi e annullarsi davanti agli Dèi capaci di salvarlo. Ma il Dio che Virgilio ancora non conosceva, pur avendone preparato, in un certo senso, la comprensione alle generazioni future, non chiede all’uomo di annullarsi, né di disprezzarsi: gli chiede di fidarsi di lui, di venirgli incontro, come fa il Padre che sta in piedi sulla soglia di casa, pronto ad abbracciare il figlio che torna da lui.

L’uomo vecchio che è in noi, però, stenta a morire: resiste disperatamente, si aggrappa con tutte le sue forze, si aggrappa proprio a quelle passioni disordinate che sono la causa del suo turbamento e della sua angoscia: c’è un piccolo, malvagio Sinone in ognuno di noi, disposto a mentire, a ingannare, a tradire senza vergogna; un Sinone che si crede furbo perché ha la meglio sulla fiducia altrui, che si frega le mani di soddisfazione perché riesce a mettere nel sacco, con le sue male arti, i buoni e i coraggiosi, che non oserebbe mai affrontare a viso aperto, conscio della sua viltà e della sua bassezza.

È questo uomo vecchio che bisogna sradicare dall’anima, affinché l’uomo nuovo possa venire alla luce: l’uomo dal cuore di carne, in luogo dell’uomo dal cuore di pietra; l’uomo che desidera amare ed essere amato, in luogo dell’uomo che si nutre di odio e di orgoglio e che vuol sottomettere l’altro ai suoi disegni.

È facile sdegnarsi, leggendo i versi di Virgilio, davanti alla figura del malvagio Sinone; è facile riversare su di lui tutto il nostro disprezzo di uomini probi, onesti, leali, che rifuggono dalla menzogna e dalla dissimulazione. Meno facile è imparare a guardarsi dentro e saper riconoscere, nascosto negli stagni più profondi, nelle paludi mefitiche mai toccate dalla luce del sole, quel piccolo, avido e crudele Sinone, che si acquatta nell’anima nostra.