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L'Unione Europea è preda dell'eurocrazia. Intervista a Massimo Fini

di carlo passera - 24/08/2006

L’UNIONE EUROPEA È DA RIFARE. COSÌ...
È nata male, basata sull’economia; oggi è preda dell’eurocrazia Il futuro dovrebbe essere una faccenda tra Bruxelles e macroregioni

 

«Un’Unione più solida non sarebbe “calata dall’alto”. È vero, non esiste un popolo europeo, abbiamo tutti tradizioni diverse. Però c’è una base condivisa nella cultura d’origine greca, che dunque rappresenta le nostre radici comuni ed è invece estranea ad americani e inglesi»

 

Massimo Fini, sul banco degli imputati c’è ancora una volta l’Unione europea. Ci costa tanto ma appare poco utile: è timida nel caso libanese, non riesce a operare un’efficace politica comune contro l’immigrazione clandestina...
«Ti interrompo. Quello che dici è vero e lo analizzeremo, ma occorre fare una premessa generale a tutto il discorso: tutti si scagliano contro Bruxelles anche perché è la cosa più facile e comoda da fare. Prendersela contro gli Stati Uniti, o Israele, o la stessa Russia, è “pericoloso”, mentre l’Europa ancora non esiste, è abbastanza “indecifrabile”, quindi spararle contro non comporta alcun rischio».
È un vaso di coccio.
«Vedo gente in genere vilissima scagliarsi contro l’Ue per tirarsi fuori dai guai».
Ma non credi che l’Unione europea si meriti gran parte di queste critiche?
«L’Europa non ci piace per le regioni che diremo, ma è una istituzione in fieri, non esistente e consolidata. Oltretutto è stata osteggiata in modo forsennato dagli Stati Uniti, perché già negli anni Ottanta Francia e Germania volevano costituire un esercito continentale, che ora ci servirebbe moltissimo ma non abbiamo. A me e a voi questa Unione europea non piace soprattutto per la sua burocratizzazione grottesca; ma dal punto di vista politico e militare va invece tutta costruita».
Il processo appare molto, molto lento.
«Certo, ma dobbiamo considerare, oltre all’ostacolo statunitense, le ovvie resistenze da parte dei vari Stati nazionali. Spesso i primi nemici sono anzi le classi dirigenti degli Stati nazionali, perché è chiaro che queste ultime, se ci fosse un’Europa sul modello degli Stati Uniti, perderebbero la loro funzione, la loro leadership. Ci sarebbe una selezione, tante poltrone verrebbero cancellate. Per intenderci: cosa potrebbe mai fare uno come Gianfranco Fini in Europa? Poco o niente».
Tu dici: l’Ue attuale non ci piace, ma ci sono delle attenuanti. Di certo questa non è l’Europa sognata dai suoi ideatori, nel secondo dopoguerra. Quando si corruppe il processo di unificazione continentale?
«Secondo me fu sbagliata proprio la partenza, anche se ne capisco le ragioni. A mio avviso non si doveva partire dall’unificazione economica, per poi procedere con quella politica e militare, ma fare esattamente il contrario. Purtroppo l’economico prevale sempre su tutto, così i fondatori dell’Europa scelsero questa via, che era anche la più facile, perché se avessero invece iniziato dell’esercito comune, sarebbero presto incorsi nel boicottaggio operato dagli Stati Uniti, desiderosi di sostenere la Nato che loro gestivano e gestiscono a piacimento».
Scegliendo l’economia come propria base strutturale l’Europa in fondo ha seguito il solco tracciato dal modello economico globale, al quale in qualche modo ha dunque aderito.
«Certo. Ma è un’adesione alla globalizzazione che non so quanto la favorisca».
Oggi la prospettiva di un’Europa unita politicamente è piuttosto lontana.
«È vero, ma c’è anche qualche segnale positivo. Pensiamo alla questione libanese: già è significativo che debba intervenire una forza non americana né inglese, questo vuol dire qualcosa. Ossia: ci considerano in modo diverso dagli anglosassoni, stiamo recuperando una funzione vantaggiosa innanzi tutto per noi stessi».
Tocchi la questione libanese: ma allora bisogna aggiungere che Francia e Spagna appaiono molto pigri di fronte alla prospettiva di impegnarsi direttamente, con proprie truppe, per dirimere l’affaire...
«Non c’è dubbio. Ma tale titubanza ha delle ragioni solide, il problema era chiaro un secondo dopo l’emanazione della risoluzione Onu. Ovvero: se si tratta di andare a operare come forza di interposizione tra due eserciti in battaglia, è un conto; ma altra faccenda è se si tratta di andare a combattere un parte a favore dell’altra, ossia a guerreggiare al posto di Israele. È evidente che quest’ultima prospettiva non può stare bene né alla Francia, né alla Spagna, ma nemmeno a noi. Eppure è proprio questo il tentativo americano e israeliano».
Da qui, tu dici, il tentennamento di Parigi e Madrid.
«Esatto, che sono dunque giustificate, anche se a volte forse bisognerebbe anche rischiare».
Comunque a tuo giudizio l’atteggiamento attuale non è sovrapponibile al tradizionale balbettio di un’Europa che in passato s’è spesso dimostrata indecisa a tutto...
«Infatti. In questo caso, poi, sono proprio le circostanze oggettive a conferire all’Europa quell’importanza geopolitica della quale noi stessi non abbiamo a volte piena coscienza. Da qui passa la strada perché si raggiunga, come auspico da sempre, una forte neutralità; ma per conquistarla ci servirà un esercito europeo».
Tu parli sempre di un’Europa unita, neutrale, armata, nucleare e se possibile - ma tocchiamo altre questioni, ulteriormente complesse - anche autarchica.
«Sì, ed è una prospettiva possibile. Molto dipende dalle scelte della Gran Bretagna, che è un Paese di peso e inoltre è potenza nucleare. Continuerà a legarsi a doppio filo con gli Stati Uniti? È il dilemma di fondo».
Senza Gran Bretagna l’Europa va in panne?
«Senza Gran Bretagna saremmo costretti ad allearci con la Russia, con tutto ciò che questo comporta, penso non tanto alla poca democrazia che c’è a Mosca, ma soprattutto al genocidio ceceno. In nome della realpolitik dovremmo passar sopra alle questioni etiche. In alternativa - e sarebbe la cosa migliore - occorrerebbe armare di nuovo, finalmente, la Germania».
Questa seconda mi pare una prospettiva inevitabile nel lungo periodo. La storia evolve.
«Infatti. Il nazismo è vicenda di sessant’anni fa».
Tu dici: si proceda con l’Europa unita politicamente e militarmente...
«Sì, la vorrei come una sorta di fortezza. Non per aggredire qualcuno, ma per affrontare le inquietanti sfide dei prossimi anni, dove i nostri avversari non sono solo i fondamentalisti islamici, ma dal punto di vista economico anche gli americani, che ci sono avversari anche per la loro politica avventurista. Nemmeno gli inglesi ormai la approvano più».
Dunque: Europa armata per avere più peso politico.
«Proprio così, essere armati è indispensabili, per tutti. Anche per l’Iran».
Ho un’obiezione di fondo. Questa visione di un’Europa unita politicamente e militarmente contrasta forse con un dato di fatto: oggi non esiste un vero e proprio popolo europeo. Si creerebbe cioè un’istituzione “calata dall’alto”, senza anima. Oppure un popolo europeo, magari in nuce, già può essere identificato?
«È vero che, rispetto agli Stati Uniti d’America, in Europa ogni popolo ha tradizioni diverse. Però una base comune c’è: esiste una cultura d’origine greca che ci unisce e rappresenta le radici del nostro continente, mentre è estranea agli americani e devo dire anche agli inglesi».
Non trovi che questa identità europea si sia ulteriormente rinforzata in questi anni di “contrasto tra culture”? Che abbia evidenziato una propria specificità sempre più forte (anche perché è a rischio e quindi tendiamo a valorizzarla di più) proprio nel momento in cui si trova di fronte a quella islamica, ma anche a quella americana, che è certamente diversa?
«Sono d’accordo. Il contrasto ci distingue, quindi in qualche misura ci identifica. Non a caso in questi anni sono sorti i tentativi, a mio avviso un poco velleitari, di recuperare le radici cristiane del nostro mondo. È difficile recuperare valori quando tutto si basa sull’economia, ma il solo fatto di averci provato qualcosa ci dice: si è alla ricerca di un’identità europea da contrapporre alle altre. Inoltre, noi per ragioni storiche, geopolitiche e persino commerciali, abbiamo rapporti col mondo islamico che non sono quelli degli Usa e perciò possiamo essere un utile pedina nello scacchiere internazionale».
Perlomeno per tutelare i propri interessi, forse l’Europa non dovrebbe ricalcare la politica Usa nei confronti del mondo arabo.
«Se lo facessimo ci daremmo la zappa sui piedi».
Nel lungo periodo tu vedi un vero popolo europeo, ovvero una comunità ancora più forte di quella attuale?
«Dipende. Se non ci facciamo buggerare, sì. Ma non dobbiamo ad esempio fare entrare nell’Ue la Turchia o chissà chi altri; dobbiamo basare l’Europa sui Paesi davvero importanti».
Dovremmo ostracizzare anche l’Est europeo - in buona parte ormai già associato - e in prospettiva anche la Russia? Ma non pensavi anche a una possibile alleanza con Mosca?
«La Russia può esserci alleata ma non la vedo affatto membro dell’Unione. Personalmente avrei detto no anche ai Paesi dell’Est che già sono entrati; piuttosto spalancherei le porte alla Serbia, che fa parte integrante della nostra cultura ed è pure cristiana. Basterebbero i film di Kusturica per accreditarla. È gravissimo che noi europei, per far da reggicoda agli americani, siamo andati a bombardare Belgrado».
Quali possono essere i prossimi passaggi nel camino di una migliore costruzione europea? E quale la forza propulsiva?
«La forza propulsiva è proprio l’accelerazione micidiale che gli americani hanno dato alla loro politica di espansione - io dico di aggressione. Questo ha spaventato anche gli europei, può essere il collante. Va bene le radici, ma c’è un interesse chiaro, immediato, comune: lo scrivevo trent’anni fa, ora mi pare di tutta evidenza. Ripeto: gli stessi inglesi sono dubbiosi; sono leali alleati degli americani in Iraq, ma tra mille perplessità, sia a livello di popolazione, che di classe dirigente, che di militari. Abbiamo già accennato in passato alla dure critiche degli altri gradi militari inglesi nei confronti della condotta delle truppe Usa».
Ma tale costruzione si deve basare sul tradizionale asse franco-tedesco?
«Posto che per il momento Londra è ancora legata a Washington, penso a Parigi e Berlino, più Madrid e anche Roma. Questo è il nocciolo duro, del quale noi possiamo far parte. Zapatero a sua volta ha dimostrato che il suo è un Paese importante, pur essendo Spagna e Italia un gradino sotto alla Germania».
L’Italia può farsi forte del proprio ruolo geopolitico. È il naturale ponte col mondo arabo, il rapporto col quale è poi il tema di fondo dei prossimi anni.
«Siamo ancora una volta una Penisola di confine; questa volta non più verso l’Est Europa, ma verso il mondo arabo, col quale c’è uno storico intreccio che ci può agevolare».
Penso allora all’altro tema che si lega a questo: l’immigrazione. È un fenomeno che l’Europa sarebbe naturalmente indicata a gestire, poiché troppo vasto per poter essere risolto dai singoli Stati. Eppure Bruxelles latita.
«Sono d’accordo, c’è troppa latitanza, servirebbe non solo una politica comune rispetto all’immigrazione, ma anche una polizia comune».
Cosa dovrebbe invece fare?
«Questo è il problema in assoluto più complesso, perché è la pervasività del mondo occidentale a costringere i popoli del Terzo Mondo all’immigrazione. È un’altra buona ragione per staccarci dagli Usa e essere un po’ più autarchici».
Ma nell’immediato come occorre operare?
«Siamo uniti? Bene, distribuiamo gli immigrati tra tutti i Paesi europei. Sono entrati gli Stati baltici? Se ne prendano anche loro una quota».
Per farlo servirebbe un potere politico centrale europeo forte. Ma servirebbe anche, e qui chiudiamo, che questo fosse democraticamente eletto, mentre oggi l’Ue ha alla propria base un evidente deficit democratico.
«Si arriverà forse a un forte potere centrale europeo e alla fine degli Stati nazionali, che hanno perso la loro ragione d’essere e la loro funzione, a favore invece delle macroregioni, che sono il nuovo punto di riferimento periferico. È stata la grande idea leghista, in forte anticipo sui tempi. È chiaro che un’Europa potente non può esistere se ci sono gli Stati nazionali, mentre è compatibile con macroregioni coese in grado di dare sfogo alle esigenze identitarie. Queste, anzi, andranno sempre più a crearsi proprio con l’Europa unita, e peraltro già lo Stato nazionale non è in grado di soddisfarle».
Ma le stesse istituzioni europee dovranno essere più democratiche delle attuali, non trovi?
«Certamente, mi pare una prospettiva logica, anche se io ho molti dubbi sul sistema democratico in sé. Che accada tutto ciò è difficile, ma gli eventi ci stanno aiutando. Gli Usa hanno commesso un errore fondamentale dopo l’11 settembre: invece di frenare il processo, hanno accelerato, non rendendosi conto che in questo modo hanno scatenato una serie di reazioni non solo nel mondo islamico, ma anche in Europa, in Russia (che sembrava sepolta politicamente invece ora sta tornando) e persino in Cina. La storia insegna che lo strapotere porta alla sconfitta. Io questo l’ho imparato giocando a poker: anche se hai carte migliori dell’avversario, devi spennarlo ma senza esagerare, perché altrimenti quello non pagherà. Bisogna fermare i rilanci e incassare, o non si guadagna niente».