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Risposta a Paolo Ercolani sul superamento della dicotomia destra-sinistra

di Diego Fusaro - 07/10/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


L’abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra deve oggi costituire la base per l’adesione all’anticapitalismo e all’ideale del perseguimento universalistico di un’umanità fine a se stessa. Pertanto, la vecchia dicotomia deve essere sostituita da una nuova opposizione, quella tra l’anticapitalismo in cerca dell’universale reale dell’umanità emancipata e l’accettazione del regno animale dello spirito vuoi come migliore dei mondi possibili, vuoi come destino irredimibile.

  

Pochi giorni fa, sulle pagine de “Il Manifesto” ( http://ilmanifesto.info/storia/destra-e-sinistra-attualita-di-una-distinzione-al-di-la-dei-nuovi-mostri-come-renzi-e-fusaro/) Paolo Ercolani mi ha mosso una critica. Intendiamoci, le critiche sono sempre benvenute, specie se costruttive. Ma per criticare occorre conoscere il criticato, cioè le sue oggettivazioni: in questo caso, i libri in cui il criticato esprime le tesi che il criticante aspira a criticare. Evidentemente Ercolani non ha letto un rigo di tali scritti e critica per sentito dire, seguendo il “si dice” di heideggeriana memoria ed evitando accuratamente il confronto serrato con le tesi effettive del criticato. Ma tant’è. E per di più dà a me del “pensatore dell’indistinto” (sic!), ponendomi – la più grave delle accuse! – insieme a Matteo Renzi. Lasciamo da parte il “si dice”, caro a Ercolani – uno strano caso di losurdiano liberale (verrebbe da dire, un fine stratega che ha capito che il vento è più favorevole a chi aderisce al dogma liberale! Bella scoperta!), e affrontiamo le cose stesse. Dato che le argomentazioni di Ercolani non esistono, è per me impossibile affrontarle. Al nulla non si risponde col nulla. Il suo articolo è una patetica accozzaglia di attacchi ad personam, in cui si dice di passata che io sostengo l’estinzione della dicotomia destra-sinistra, senza mai nemmeno per un istante citare le ragioni per le quali propongo tale estinzione. A Ercolani piace vincere facile, creando una “testa di turco” e poi scrivendo a caratteri cubitali “questo è Fusaro”. Per il fine Ercolani, ad esempio, il fatto che io mi dichiari “allievo indipendente di Hegel e Marx” è un controsenso, dato che essi sono morti e non potrei essere “dipendente” da loro. Ma che bella scoperta! Sfugge forse, al fine Ercolani, che di Marx e dell’hegelo-marxismo non solo sono state date molteplici interpretazioni, ma che la loro espressività filosofico-politica è stata anche incorporata in movimenti politici che si sono determinati storicamente. E che dunque dirsi indipendenti vuole dire, in questo caso, prendere Marx ed Hegel e non chi li ha incorporati in politiche congiunturali.

Ma tant’è… a proposto di “indistinzione” o, avrebbe detto Hegel, di “vuota profondità”. Andiamo avanti, veniamo alle cose stesse. E le cose stesse sono, in questo caso, la dicotomia destra-sinistra. La sostengo? Vero. È populismo e mera “indistinzione”? Non credo. In “Minima mercatalia”, ho sostenuto che l’invasione totalitaria del reale e del simbolico da parte delle prestazioni “sensibilmente sovrasensibili” della forma merce sia ugualmente condivisa, in quanto vissuta come inevitabile, nel quadrante destro della politica, come nel sinistro. In quanto totalizzante, il capitale si riproduce a) a destra in economia (egemonia del liberismo più indecente, smantellamento del welfare state e nuove enclosures a danno dei beni comuni attuate in nome della privatizzazione); b) alcentro nella politica (nella forma di interscambiabili raggruppamenti di centro-destra e di centro-sinistra); c) a sinistra nella cultura (contestazione antiborghese, individualismo libertario, edonismo senza misura, smantellamento dei valori, difesa a oltranza del nichilismo). Tesi sbagliata? Può essere. Ma Ercolani dovrebbe dimostrarlo, anziché starnazzare scompostamente. Resto in attesa.

Dalla natura totalitaria dell’odierno capitalismo speculativo, in cui le forze politiche un tempo opposte condividono lo stesso orizzonte contraddistinto dalla civiltà dello spettacolo come fato ineluttabile, emerge con limpido profilo la natura inservibile delle due categorie di destra e sinistra. Si tratta di una dicotomia valida unicamente nella “fase dialettica” del capitalismo (cfr. ancora “Minima mercatalia”). Non ancora sussistente nella fase astratta, in quella speculativa non esiste più, se non come protesi ideologica di santificazione apologetica dell’esistente: l’opposizione tra una destra e una sinistra che, dietro l’apparente contrapposizione, veicolano la stessa visione del mondo contribuisce a rendere indecifrabile l’essenza del nostro tempo. In questo risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente tramite la finta pluralità delle prospettive. Prova ne è, oltretutto, che la cifra degli ultimi “trent’anni ingloriosi” – così potremmo qualificare, variando la formula di Hobsbawm, il tragico trentennio compreso tra il 1980 e il nostro presente – sta nel fatto che il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti – secondo la politica dell’alternanza senza alternativa – con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterrand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.).

Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico, secondo il tipico dispositivo della tolleranza repressiva per cui al cittadino globale è dato scegliere liberamente l’adesione alla necessità sistemica. Che senso ha scegliere, infatti, in una condizione architettata in modo tale che la scelta sia comunque impossibile? La scelta è,de facto, inesistente quando si dà identità tra le due opzioni entro cui essa è chiamata a esercitarsi. Destra e sinistra – la cui attualità è oggi pari a quella della dicotomia tra guelfi e ghibellini – esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Le mie tesi sono sbagliate? Può essere. Ma gli starnazzamenti di Ercolani non le sfiorano nemmeno lontanamente. Attendo con pazienza che dagli starnazzamenti il fine filosofo passi alla dimensione socratica del “logon didonai”.

È per questa ragione che, per portare a compimento il riorientamento gestaltico a cui prima si faceva cenno, occorre congedarsi senza remore dall’ormai logora e inservibile dicotomia tra destra e sinistra, che pure ha svolto un ruolo imprescindibile nell’avventura moderna, e cercare di prospettare nuovi schemi politici, in grado di decifrare l’essenza dell’oggi e far tornare a splendere il pathos antiadattivo. La libertà, infatti, non si esercita scegliendo tra una destra e una sinistra perfettamente interscambiabili e ugualmente alleate dello status quo, ma rigettando senza mediazioni possibili la scelta manipolata e prospettando alternative reali. Quando Bobbio, nel suo fortunato scritto del 1994, difendeva la validità della dicotomia, individuando nel valore dell’uguaglianza il discrimine tra le due aree politiche, delineava uno scenario effettivamente esistito – e, anzi, centrale per decifrare la differenza tra la destra e la sinistra nella stagione moderna –, ma ormai superato. Lo scenario delineato da Bobbio presupponeva una realtà che si è oggi integralmente eclissata, ossia la sovranità monetaria dello Stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione del reddito.

La sinistra ha sempre organizzato il pensiero e l’azione intorno all’ideale della correzione operativa, tramite la decisione politica sovrana, della diseguaglianza economica continuamente riprodotta, in forma fisiologica, dalla logica illogica mercatistica. Ma nell’attuale fase speculativa, in cui la decisione politica sovrana è neutralizzata dal sensibilmente sovrasensibile del mercato e dalla sua dittatura anonima, la sola via da percorrere per rendere operativa la correzione della disuguaglianza – vi torneremo più diffusamente in seguito – consiste nella riacquisizione della sovranità nazionale e della conseguente possibilità, per la politica, di imporre la propria egemonia sull’economia transnazionale: ed è esattamente questo ciò contro cui lotta strenuamente la sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica. Nella misura in cui la sinistra – alla stregua della destra – non solo non segue questa via, ma la demonizza senza tregua, optando senza riserve per l’internazionalismo dei mercati, per l’Europa dell’eurocrazia e per il progresso senza emancipazione, essa abdica al proprio ideale – la correzione della disuguaglianza – rendendo per ciò stesso inservibile, se non per fini storici, la dicotomia che aveva ermeneuticamente illuminato larga parte dell’avventura della politica moderna.

È in questa luce, peraltro, che si comprende per quale ragione la sinistra, specialmente quella italiana, da almeno vent’anni, abbia smesso di proporre il comunismo, l’anticapitalismo e i diritti sociali come orientamenti ideali di riferimento, per assumere come parole d’ordine esclusive l’antifascismo, l’onestà, i diritti civili, la questione morale, e, più in generale, quella che con Hegel potremmo definire la “pappa del cuore” per anime belle. In Italia, questa involuzione indecente trova la sua espressione più emblematica nella tragicomica vicenda metamorfica del PCI-PDS-DS-PD: in essa è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato. È questa la parabola della sinistra italiana e del “serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD” (Costanzo Preve), culminante in altrettanti profili à la Matteo Renzi, nel cui lessico postmoderno – in cui non vi è traccia di diritti dei lavoratori e degli esclusi – si esprime direttamente il discorso del capitalista. Quest’ultimo ha completamente saturato anche l’immaginario di una sinistra filoatlantista ed euroserva, che dalla lotta contro il capitale è disinvoltamente transitata alla lotta per il capitale.

L’abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra deve oggi costituire la base per l’adesione all’anticapitalismo e all’ideale del perseguimento universalistico di un’umanità fine a se stessa. Pertanto, la vecchia dicotomia deve essere sostituita da una nuova opposizione, quella tra l’anticapitalismo in cerca dell’universale reale dell’umanità emancipata e l’accettazione del regno animale dello spirito vuoi come migliore dei mondi possibili, vuoi come destino irredimibile. Secondo il suggerimento di Henri Bergson, nove errori su dieci risiedono nel ritenere che sia ancora vero ciò che ha cessato di esserlo. Il decimo, e più grave, consiste, però, nel considerare come non più vero ciò che invece lo è ancora a pieno titolo. Credere alla validità, nel nostro presente, delle dicotomie destra-sinistra, atei-credenti, stranieri-autoctoni, fascisti-antifascisti è l’equivalente dei nove errori a cui allude Bergson: pensare che l’anticapitalismo sia una categoria ormai superata e inservibile costituisce il decimo errore, il più grave. Può Ercolani capire questo? Sì, se abbandona lo starnazzamento e passa al “logon didonai”; sì, se abbandona la difesa liturgica del mito della sinistra; sì, se comprende che oggi il territorio è cambiato e continuare a muoversi con le vecchie mappe, come fa lui, serve solo a perdersi e non a orientarsi.