Mancava solo il recente scandalo prontamente ribattezzato “LuxLeaks” e che ha visto coinvolto il neo presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker a gettare un’altra ombra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, sull’immagine dell’Unione Europea e degli organismi deputati a dirigerla. Un’altra conferma di come le politiche economiche e sociali che si riverberano sui cinquecento milioni di abitanti dei Paesi membri dell’UE, siano gestite da una casta di politici svincolati da qualsiasi mandato popolare ma persino da quello dei singoli governi nazionali che hanno contribuito a eleggerli a quella carica. Coloro che dovrebbero mettere i popoli europei a riparo dal dilagante potere di banche e multinazionali sono invece gli stessi che si prodigano in favori e concessioni a queste ultime e trovando spesso il modo di farlo “legalmente” poiché, a ben vedere, l’intero processo di costruzione dell’Unione è stata un’istituzionalizzazione di leggi e norme tese appunto a sottrarre sovranità e democrazia nazionale per cederle agli interessi di poteri oligarchici non controllabili.
Questa situazione ha fatto sì che, alle scorse elezioni europee di maggio, (al netto dell’alta astensione, che in alcuni paesi dell’Europa orientale ha superato l’80%), entrassero nel Parlamento Europeo molte forza politiche, vecchie e nuove, di varia ideologia, accomunate dalla comune avversione verso l’attuale Unione Europea. Il nuovo Parlamento Europeo è il più “euroscettico” di sempre. Un’opposizione che tuttavia rischia di cogliere ben pochi risultati concreti a causa della stessa conformazione delle istituzioni comunitarie. L’assemblea parlamentare dai 751 eurodeputati dispone di ben tre sedi tra Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo ma, nonostante (o forse proprio per questo) sia l’unico organismo direttamente eletto dai cittadini, ha prerogative poco delineate e incisive, tra cui funzioni di “controllo” e partecipazione agli atti legislativi, oltre che di presentazione e approvazione del bilancio. Il trattato di Lisbona prevede di rinforzare il ruolo del Parlamento, tuttavia senza che ciò lasci intravedere la possibilità di scalfire l’effettivo potere esercitato dall’esecutivo dei 28 commissari (frutto delle complesse trattative tra gli Stati membri), dal Consiglio Europeo e in ultima analisi dalla Banca Centrale Europea.
La nuova Commissione Juncker appena insediatasi gode, come le precedenti, dell’appoggio di una maggioranza parlamentare molto ampia, formata dal Partito Popolare Europeo (PPE), dal Partito Socialista Europeo (PSE) e dai Liberal-Democratici (ALDE), che insieme detengono il 65% dei seggi. Si tratta del consolidato esperimento di quella “grande coalizione”, tra conservatori e socialdemocratici, che è ormai regola in molti Paesi europei, come Germania, Italia e Grecia. All’opposizione si collocano cinque gruppi. I Verdi-Alleanza Libera Europa, dove sono raccolti partiti ecologisti e regionalisti, si attestano su posizioni marcatamente europeiste. I partiti euroscettici e “populisti” rappresentano invece il 25-30% dell’assemblea e sono dispersi nei quattro restanti gruppi che si trovano all’opposizione del governo europeo: sono, in ordine di grandezza, il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR, 71 deputati), la Sinistra Unitaria Europea (GUE-NGL, 52), i Non Iscritti (51) e l’Europa per la Libertà e la Democrazia Diretta (EFDD, 48). Il primo gruppo, l’ECR, è egemonizzato dai Conservatori britannici, al governo con David Cameron, e da quelli polacchi di Diritto e Giustizia. A seguito delle elezioni dello scorso maggio il gruppo si è molto ampliato poiché molti partiti d’ispirazione nazional-conservatrice che nella precedente legislatura facevano parte del EFD di Nigel Farage sono stati cooptati da Cameron nell’evidente tentativo di indebolire il suo oppositore in patria. Dunque tra i partiti più anti-europei che ne fanno parte ci sono il Partito del Popolo Danese, arrivato primo in Danimarca, i Veri Finlandesi, Alternativa per la Germania e i Greci Indipendenti. Il gruppo si è dunque radicalizzato su posizioni più critiche verso l’UE, nonostante Cameron debba dividersi tra i necessari rapporti con il governo europeo (in cui figura un commissario britannico alle Finanze) e la promessa di un referendum sull’uscita dall’UE da tenersi nel 2017. Veniamo alla Sinistra Unitaria Europea, che presentava Alexis Tsipras come candidato alla Commissione Europea, e che ha aumentato i propri seggi: il gruppo si presenta come una confederazione tra il Partito della Sinistra Europea vero e proprio, la Sinistra Verde Nordica e altri partiti non iscritti. A dire la verità nel gruppo c’è una divisione che seppur non troppo netta non deve essere neanche sottovalutata, tra i partiti eurocomunisti come Syriza dello stesso Tsipras (primo in Grecia), il Front de Gauche francese e la Linke tedesca e chi, dall’altro lato, si attiene maggiormente a una linea marxista-leninista e dunque strutturalmente molto più critica verso l’Unione, come i partiti comunisti del Portogallo, della Repubblica Ceca e di Cipro. L’Europa per la Libertà e la Democrazia Diretta è il gruppo costruito intorno al Partito per l’Indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, primo nel Regno Unito, e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. A loro si sono aggiunti altri partiti come i Democratici Svedesi e i lituani di Ordine e Giustizia. E’ doveroso ricordare come l’EFDD sia stato l’unico tra i sette gruppi parlamentari ad essere stato totalmente escluso dalla ripartizione delle presidenze delle commissioni, prima volta nella storia del Parlamento Europeo, nonostante una prassi consolidata preveda che a ogni gruppo spetti un certo numero di presidenze in base al principio di proporzionalità. Nell’ottobre scorso inoltre il gruppo è stato sciolto per mancanza del numero legale (servono partiti da almeno 7 Paesi europei) a causa della defezione di un’eurodeputata lettone che, si è scoperto, è stata invitata a lasciare il gruppo (pare dallo stesso Martin Schulz, che sarebbe così venuto meno al suo ruolo di terzietà in quanto presidente del Parlamento) per poter appunto presiedere una commissione. Il gruppo si è ricostituito pochi giorni dopo grazie all’adesione di un parlamentare polacco. I Non Iscritti, invece, sono il gruppo misto del Parlamento Europeo e in quanto tali – per regolamento – sono tagliati fuori sia dal gioco delle cariche che dai finanziamenti, oltre ad avere altre restrizioni. Fanno parte di questo gruppo il Front National di Marine Le Pen, primo partito in Francia, la Lega Nord, il

Partito della Libertà Austriaco e altri partiti fortemente anti-europeisti che non sono riusciti a creare un loro gruppo imperniato proprio sul progetto della Le Pen. Oltre a loro vi sono i cosiddetti “impresentabili”, per la radicalità dei loro programmi, come il Jobbik ungherese, Alba Dorata e il Partito Nazional-democratico tedesco. Ma non c’è solo l’ “estrema destra”: sugli scranni dei Non Iscritti trovano posto anche i due eurodeputati del Partito Comunista Greco, uscito dalla Sinistra Europea in polemica con Tsipras. Infine, ci sono partiti che pur aderendo al blocco governativo in sede europea, in patria portano avanti politiche piuttosto critiche e divergenti dalla linea ufficiale, come il Fidesz (conservatori) del premier ungherese Viktor Orban (membro del PPE), lo Smer (socialdemocratici) del premier slovacco Robert Fico (membro del PSE) e alcuni partiti regionalisti e indipendentisti.
Ma il Parlamento Europeo, come si è detto, non ha alcun reale potere di indirizzo delle politiche che sono decise dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo, tantomeno della politica monetaria della BCE. Gli eventi ci dimostrano come la super-casta di Bruxelles, coadiuvata dai governi nazionali di cui è espressione, non sia responsabile di fronte a nessuno e debba per giunta sottostare a un invadente protettorato come quello degli Stati Uniti d’America.
Parlare di Unione Europea è infatti inutile se non si ha chiaro l’autentico dominio che la superpotenza d’oltreoceano esercita su tutti gli ambiti europei, in particolare sulla sfera diplomatica e militare. Si è parlato molto, negli ultimi anni, dell’inefficienza dell’Unione Europea in campo internazionale dovuta alla mancanza di una sua politica di difesa comune e una sola voce diplomatica. Un dibattito che è stato ovviamente “depurato” dalla vera causa del problema: l’appartenenza di quasi tutti gli Stati europei alla NATO, la presenza di centinaia di basi militari americane in molti paesi – oltre cento solo in Italia – la totale sudditanza di quasi tutti i governi europei alle direttive imposte dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato. Non sarebbe esagerato dire che l’Unione, come entità politica e diplomatica, si regga quasi esclusivamente su questo vincolo di fedeltà atlantica, mai veramente messo in discussione neanche quando gli interessi degli Usa si scontravano chiaramente con quelli dell’Europa. Le sanzioni contro la Russia, per esempio, costano all’Europa cifre colossali e mettono in serio pericolo aziende e posti di lavoro, ma, parola di John Kerry, sono stata adottate dall’UE dopo le reiterate ed esplicite pressioni di Obama. C’è poi la politica adottata nei confronti del conflitto in Ucraina, dove l’UE , insieme agli USA, ha esplicitamente appoggiato il golpe di Maidan e le stragi nel Donbass e a Odessa perpetrate dal governo di Kiev e dai collaterali battaglioni d’ispirazione neo-nazista. C’è ancora il servile appiattimento sulle questioni medio-orientali, dove l’Europa è chiaramente succube delle politiche statunitensi tese a ridisegnare la regione secondo il progetto del Grande Medio Oriente e che nell’agosto-settembre del 2013 per poco non portava a una nuova guerra “umanitaria” contro la Siria e che nel 2011 aveva già distrutto la Libia, resa ora una terra di nessuno instabile e ingovernabile con gravi conseguenze per l’Europa mediterranea e l’Italia in particolare; ci sono le sanzioni contro l’Iran e l’incondizionato appoggio a Israele che si è macchiato pochi mesi di un’altra guerra scatenata contro la Striscia di Gaza.
Sul versante economico Washington sta manovrando in gran segreto, insieme ai notabili di Bruxelles, per imporre all’Europa un trattato di libero commercio, il TTIP, che significherebbe l’abbattimento di tutte le frontiere commerciali, dunque la piena libertà d’azione delle grandi multinazionali americane e la prevedibile fine delle imprese europee, nonché l’apertura al mercato di settori strategici e di rilevanza sociale come la sanità e l’istruzione. Gli Stati Uniti, insomma, vogliono creare un’area trans-atlantica a loro uso e consumo che in qualche modo li tuteli dall’avanzata del mondo multipolare e dalla sempre maggior forza dei Paesi emergenti. E la gran parte dei politici europei, lungi dal denunciare questo progetto, si spendono addirittura in difesa del progetto atlantico.
Con la crisi ucraina, inoltre, è già stato chiarito il rafforzamento della NATO in funzione anti-russa, che equivale a dire anti-eurasiatica, perché ciò che gli USA vedono come fumo negli occhi è la possibile integrazione tra un’Europa di nazionisovrane e il gigante russo; un’eventualità che è stata più volte prospettata (e auspicata) dallo stesso presidente Putin ma che concretamente non si pone neanche in essere finchè l’Unione sarà prigioniera del suo atlantismo imposto e auto-imposto.
Il nodo della vicenda, dunque, è che l’Unione Europea non ha sovranità, essendo formata da nazioni che sono esse stesse prive di sovranità. NATO e Unione Europea sono diventati due organismi che vivono in simbiosi, tuttavia la prima può esistere anche senza la seconda (il Patto Atlantico venne prima della Comunità Europea), la seconda, senza la NATO, cosa sarebbe? Potrebbe essere una confederazione tra Stati sovrani, come immaginata dal generale-presidente De Gaulle, ma in questo caso sarebbe quindi la negazione dell’attuale Europa.
E’ la longa manus di Washington a tenere al “guinzaglio” il Vecchio Continente, è l’imperialismo statunitense su cui, volendo, si possono anche innestare gli interessi neo-coloniali di alcune (ex) potenze europee, purchè non siano in contrasto con quelli della superpotenza USA: si pensi a come la Francia sia stata in prima linea nella guerra contro la Libia e a come il Regno Unito sia ancora impegnato in prove di forza anacronistiche come la questione della Malvinas/Falkland. Anche la Germania, che detta le regole dell’Eurozona, deve sottostare a un’occupazione statunitense la cui invadenza è stata resa nota all’opinione pubblica con le rivelazioni del Nsagate. Il governo Merkel protestò, è vero, ma adesso sembra tutto caduto nel dimenticatoio, il che la dice lunga sull’entità della protesta della cancelliera, soprattutto se la paragoniamo alla dura reazione della presidente brasiliana Dilma Rousseff, che, di fronte alle stesse rivelazioni, annullò la propria visita ufficiale a Washington e ha progettato un cavo sottomarino in fibra ottica sotto l’Atlantico per difendere le proprie telecomunicazioni dallo spionaggio statunitense.
Creando dunque un’unione di 28 paesi europei privi di sovranità, non ci si poteva certo aspettare che da tante “colonie” potesse nascere un’organizzazione “forte” o “indipendente” come l’UE ha la presunzione di voler essere. Di un’Europa unita si potrà parlare quando sarà tagliato il funesto cordone ombelicale che ancora la lega agli Stati Uniti e ne pregiudica qualsiasi speranza di avere un ruolo indipendente di pace e cooperazione sullo scenario internazionale che diventa sempre più multipolare.
Giulio Zotta