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Ma non sono più i Califfi di una volta

di Franco Cardini - 03/12/2014

Fonte: Franco Cardini

 

“L’intenzione del califfato è quella di occupare il mondo intero a cominciare da Roma".

E sai la novità. Queste parole, parte di un’accorata denunzia da parte di monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del patriarcato caldeo di Baghdad (cioè della Chiesa cattolica irakena; esiste altresì la Chiesa assira, di confessione nestoriana), richiamano fedelmente le dichiarazioni del califfo al-Baghdadi, capo dell’IS. E richiama una vecchia minaccia e una vecchia ambizione di quando in quando espressa dai principi musulmani che per la verità, tra VII e XV secolo, quando si riferivano a Rum, Ruma o Rumiya, intendevano riferirsi tanto a Roma quanto all’impero romano in genere (che per loro era quel che per noi è l’impero romano d’Oriente) e in particolare alla sua capitale, la “Nuova Roma” (Nea Ryme), cioè Costantinopoli. Sulla confusione tra Roma e Costantinopoli nei testi geografici arabi medievali ha insistito un eccellente giovane, Marco Di Branco, autore di Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica (Pisa 2009) e coordinatore insieme con Kordula Wolf del volume a più voci “Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo (VII-XI secolo) (Roma 2014). E andrebbe qui anche ricordato il libro di A De Simone e di G. Mandalà, L’immagine araba di Roma. I geografi del medioevo (secoli IX-XV) (Bologna 2002). Che l’emiro aghlabita di Tunisi Ibrahim II, completata la conquista della Sicilia, avesse verso il 902 l’intenzione d’impadronirsi di Roma e poi di Costantinopoli è attestato dagli Acta translationis sancti Severini del cronista napoletano Giovanni Diacono, vissuto tra IX e X secolo e quindi contemporaneo al personaggio e ai fatti che narra. E’ del resto ben noto che già da prima, nell’846-847, i saraceni provenienti dall’Africa settentrionale avevano tentato un attacco a Roma, saccheggiato le due basiliche di San Pietro e di San Paolo entrambe situate fuori della cinta muraria e devastato il contado, nel quadro non già di un raid occasionale bensì di un organico piano che, insieme con la conquista della Sicilia in corso da parte degli aghlabiti, prevedeva una sistematica penetrazione nell’area tirrenica e nella penisola italica. Questi eventi sono già stati evocati nella straordinaria e ancor oggi insuperata Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Amari, alla quale molti studiosi dei decenni successivi hanno recato integrazioni e correzioni le quali a loro volta avrebbero bisogno di una nuova definitiva sistemazione: e che necessiterebbero altresì di venir liberati dagli errori che sovente le hanno inquinate a causa dell’”arabica impostura”, il falso Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli arabi redatto dall’abate Giuseppe Vella (1749-1815), splendidamente descritta dal romanzo Il consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. Per tutte queste cose, oltre ai fondamentali studi sull’emirato aghlabita di Muhammad Talbi e sull’emirato di Bari di Giosuè Musca, è oggi necessario il ricorso all’importante saggio di Kordula Wolf, Auf dem Pfade Allahs. Ğihâd und muslimische Migrationen auf dem sűditalienischen Festland (9.-11. Jahrhundert), in Transkulturelle Verpfechtungen im mittelalterlichen Jahrtausende. Europa, Ostasien, Afrika, hrsg. V. M. Bergholte, M.M. Tischer, Darmstadt 2012, pp. 120-66.

Secoli più tardi i sultani ottomani, che nel Cinquecento rivendicarono a loro volta la dignità califfale, ripresero nella versione propriamente turco-tartara della leggenda “del Rosso Pomo” la pretesa-profezia della conquista del Caput Mundi: e assunsero l’usanza di salutare con l’augurio “Arrivederci al Rosso Pomo!” le loro truppe in partenza per una campagna militare importante diretta contro la Cristianità occidentale. Millanterie? In gran parte, senza dubbio: non più, del resto, delle promesse dei sovrani europei che, quando scendevano in guerra contro gli ottomani, regolarmente assicuravano che quella era la volta buona non solo per conquistare Istanbul (cioè per riconquistare Costantinopoli), bensì anche ma addirittura per andar oltre fino a liberare di nuovo Gerusalemme, dopo quel fatidico 15 luglio 1099…

Tra gli assalti all’Italia meridionale e non solo organizzati dagli aghlabiti dell’Ifriqiya durante il IX secolo e la costituzione fra 921 e 972 sulla costa provenzale, non lontano da Saint-Tropez, della celebre base navale saracena di Fraxinetum a sua volta di recente studiata da uno specialista della guerra medievale con Aldo A. Settia nel saggio “in locis qui sunt Fraxeneto vicina”. Il mito dei saraceni fra Provenza e Italia occidentale, pubblicato alle pp. 167-173 del già citato volume edito dal Di Branco e dalla Wolf, si colloca un enigmatico episodio che una volta di più c’invita a essere molto cauti quando si parla di rapporti tra Cristianità e Islam, di conoscenza e/o di non-conoscenza reciproca e di “scontro di civiltà”. Si tratta della lettera inviata tra 905 e 906 da una nobilissima signora toscana, la marchesa Berta di Toscana (figlia di Lotario II sovrano della Lotaringia) all’abbaside al-Muktafi, che fu tra 902 e 908 califfo di Baghdad, contenente una proposta di alleanza. Una mossa molto audace.

C’era per la verità un precedente illustre, al quale Berta in qualche modo doveva ispirarsi: l’ambasceria di Carlomagno, nell’802, al califfo Harùn ar-Rashid, che aveva risposto inviando in dono al sovrano franco l’elefante Abu Abbas. Carlomagno credeva evidentemente nel conflitto di civiltà molto meno del professor Hungtington ed era miglior esperto di geopolitica di quanto non lo siano i vari strateghi della domenica che ogni tanto fanno capolino durante i talk shows televisivi: e forse non era del tutto all’oscuro del fatto che tra gli emirati musulmani iberici con alcuni dei quali aveva rapporti di amicizia e con altri di ostilità - e che tutti comunque discendevano da emiri umayyadi a suo tempo fuggiti dalla Siria in seguito al colpo di stato abbaside - e la nuova dinastia califfale insediata nella metropoli mesopotamica - non correva tutto sommato buon sangue, per cui si poteva ben combattere i moros iberici e aver buoni rapporti con i saraceni vicino-orientali, ottimo strumento oltretutto per premere su quella Bisanzio sulla mano della cui Basilissa Irene il sovrano franco aveva pur fatto un pensierino. Dalla vicenda diplomatica snodatasi tra Baghdad e Aquisgrana dovette comunque aver forse origine la pretesa di Carlo di un qualche protettorato sui cristiani latini che visitavano i Luoghi Santi, preludio alla peraltro fortunata leggenda di un suo viaggio in Oriente, poi legittimata anche da un testo epico.

In quanto marchesa di Toscana, Berta sapeva bene che i litorali del paese sul quale regnava erano tutt’altro che al sicuro dalle incursioni degli infedeli e che a sua volta la città portuale che stava crescendo e affermandosi su tutto il medio Tirreno, Pisa, era ogni giorno di più coinvolta nelle attività – largamente complementari – del commercio e della guerra di corsa. Nell’828 Bonifacio II, al quale re Lotario I aveva affidato la difesa della Corsica, aveva condotto un raid sulle coste tunisine, con risultati sulle quali le fonti ci forniscono contrastanti notizie. Suo figlio Adalberto, cui almeno dall’846 spetta la qualifica di marchese di Tuscia, venne a sua volta confermato nell’ufficio di difensore della Corsica ed ebbe a che fare appunto con le navi degli aghlabiti. Tra l’898 e l’899 si colloca l’episodio della cattura di una nave tunisina da parte dei pisani: su di essa viaggiava un personaggio della corte aghlabita, l’eunuco Ali al-Hadim. Sarebbe stato a quanto pare lui, sei-sette anni più tardi, a recare al califfo al-Muktafi la lettera con la proposta di Berta accompagnata dalla promessa di ricchissimi doni tra i quali figuravano in prima linea le armi che l’Occidente latino già da allora era maestro nel produrre: quelle “spade franche”, ad esempio, ambitissime in terra d’Islam. Una possibile alleanza tra la Toscana e il califfo sarebbe servita in qualche modo a mettere la terra cristiana tirrenica al sicuro dalle incursioni dell’emiro di Tunisi. I doni sarebbero stati inviati – pare si assicurasse – in un secondo tempo, in quanto v’era il pericolo che l’emiro tunisino Ziyadat Allah III li intercettasse. Senza dubbio un legame diplomatico tosco-abbaside avrebbe potuto anche valorizzare la marca italica nei confronti dell’impero bizantino. Insomma, il progetto era ambizioso.

La lettera di Berta, tradotta dal latino in greco e quindi in arabo, finì quindi in effetti per potere esser letta al califfo. Ma l’autopresentazione della nobile signora era in realtà millantatoria: essa si presentava addirittura come padrona di Roma e superiore in potere ai bizantini. Pare addirittura che la dama, ch’era pur sposa del marchese Adalberto II, avanzasse nei confronti del califfo l’ipotesi di un’alleanza matrimoniale. Sembra comunque che il califfo non ci cascasse e che la sua risposta fosse piuttosto freddina: essa, comunque, non giunse mai a Lucca dalla marchesa in quanto il suo latore morì per strada. Del resto, di lì a poco, quel che restava dell’impero carolingio venne coinvolto in una crisi dalla quale si sarebbe risollevato solo nella seconda metà del secolo.

L’incredibile storia di Berta, delle sue iperboliche ambizioni diplomatiche e della sua lettera ha affascinato studiosi come Giorgio Levi della Vida e Carlo Guido Mor; quindi, nel 2001, una brava allieva dell’indimenticabile Marco Tangheroni, la dottoressa Catia Renzi Rizzo, ne ha tratto un bel saggio a tutt’oggi indispensabile, Riflessioni su una lettera di Berta di Toscana al califfo Muktafi: l’apporto congiunto dei dati archeologici e delle fonti scritte, edito in ”Archivio Storico Italiano”. Ora l’intera questione è stata ripresentata da Furio Cappelli nell’articolo Caro califfo ti scrivo…, pubblicato alle pp. 32-43 del numero di ottobre 2014 di “Medioevo”. Certo, quelli sì che erano califfi. Oggi non ci sono più i califfi di una volta.