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Kabul come Saigon? L’Afghanistan dopo ISAF

di Leonardo Palma - 18/12/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Dopo 13 anni di guerra, la missione ISAF è giunta al termine. Verrà sostituita da Resolute Support che completerà il ritiro dei contingenti NATO nel 2016. Mission accomplished? O quando l'ultimo elicottero americano lascerà l'ambasciata di Kabul i talebani saranno alle porte della capitale come lo furono i vietcong a Saigon nel 1975?

Il Presidente Barack Obama aveva promesso nelle sue campagne elettorali che avrebbe messo fine alla guerra in Iraq prima e a quella in Afghanistan poi. Due dei conflitti più lunghi in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti, che hanno portato in guerra quasi due generazioni di giovani americani e lasciato sul terreno più di 6000 soldati. Il ritiro dall’Iraq, completato nel Natale 2011, è stato seguito dalla recrudescenza degli attentati delle milizie islamiche e dalla rinascita delle cellule qaediste confluite poi nello Stato Islamico di al-Baghdadi. A tre anni dal rientro delle truppe, le milizie jihadiste sono tornate a meno di 70 km da Baghdad e hanno proclamato un Califfato esteso sull’Iraq del nord, il Kurdistan e la Siria. L’esercito iracheno si è sciolto come neve al sole al primo contatto con il nemico e il governo fantoccio centrale è in balia delle decisioni altrui. Sembra quasi che 4000 morti americani (senza contare quelli degli alleati, tra cui gli italiani) sacrificati ai tentativi di stabilizzare una regione del mondo così complessa e delicata siano stati totalmente inutili. Le stesse incertezze gravano oggi sul futuro dell’Afghanistan. La missione ISAF (International Security Assistance Force), voluta dall’ONU con la risoluzione 1386, metterà la parola fine a 13 anni di guerra questo dicembre. Una coalizione che nei momenti più duri del conflitto (2009-2011) ha coinvolto quasi 80.000 uomini e che oggi ne mantiene ancora 13.336. Con l’elezione del Presidente Ashraf Ghani, successore di Hamid Karzai, si è sbloccata infatti la situazione di stallo che si era venuta a creare circa la fine di ISAF e l’inizio di Resolute Support, la missione che dovrebbe garantire per altri due anni circa 9800 soldati americani più altri 1000 ripartiti tra Italia, Germania e Gran Bretagna al fine di continuare il supporto finanziario, logistico, addestrativo e in alcuni casi di antiterrorismo per le forze militari afghane. La reciproca diffidenza tra Washington e Kabul aveva rischiato di indurre la Casa Bianca ad optare per “l’opzione zero”, ovvero il completo ritiro delle forze entro il 2014, facendo venire meno la missione Resolute Support. Dopo la firma del BSA (Bi-lateral Security Agreement) in ottobre, un cauto ottimismo ha iniziato a serpeggiare nell’amministrazione americana e sopratutto a Kabul, in quanto il governo afghano potrà continuare a beneficiare del supporto economico alleato (4,1 miliardi di dollari annui, la metà a carico degli Usa).

In termini più concreti, la necessità che la NATO mantenga dei contingenti nel paese per almeno altri due anni è quella di non lasciare sole le forze afghane a fronte di una evidente recrudescenza delle azioni talebane, che crescono in maniera proporzionale al ritiro delle truppe alleate. Il rapporto UNAMA dell’Onu su ISAF, stilato nel 2013, ha infatti documentato 2.959 morti e 5.656 feriti tra la popolazione con un aumento rispettivamente del 7% e del 17% rispetto al 2012. Sempre quest’anno l’Institute for Economics and Peace (IEP), nell’annuale Global Terrorism Index, ha evidenziato un aumento del 10% di attentati e del 13% di vittime. A ciò bisogna aggiungere le oltre 30.000 diserzioni nell’esercito afghano a fronte di un organico di appena 185.000 effettivi. Questi dati evidenziano più di ogni altra valutazione l’esigenza di sostenere le forze di Kabul al fine evitarne un collasso, che andrebbe a vanificare quanto fatto da ISAF da ottobre 2001 ad oggi. L’insieme di questi fattori contribuisce ad alimentare la fragilità strutturale del nuovo Afghanistan, già piagato da problemi come l’analfabetismo, l’uso di sostanze stupefacenti, la corruzione, le infiltrazioni talebane e la carenza di armi e mezzi pesanti da parte delle Afghan National Security Forces (ANSF) che mette in discussione la loro prontezza ad affrontare una nuova insorgenza talebana (il caso Iraq docet). Una analisi del National Intelligence Estimate (NIE), inoltrata nel dicembre 2013 alla Casa Bianca e pubblicata recentemente sul Washington Post, presenta un quadro a tinte fosche prevedendo che, con il ritiro alleato, nei prossimi tre anni saranno vanificati tutti i progressi ottenuti dal 2010 (anno della insorgenza talebana e dell’invio di 30.000 militari americani di rinforzo). Secondo il NIE, i talebani e i vari signori della guerra locali, dalle loro roccaforti nei Territori tribali al confine con il Pakistan, diventeranno sempre più influenti arrivando a controllare zone sempre più ampie. Sebbene l’amministrazione americana abbia precisato che le conclusioni del NIE sono soltanto uno dei tanti strumenti di analisi predittiva di cui dispongono, il generale Joseph Dunford, comandante Isaf, dichiarò nel giugno 2013 alla Bbc che i progressi fatti in Afghanistan potrebbero essere messi in pericolo dalla fine delle operazioni di combattimento alleate. Nonostante le forze di sicurezza afghane abbiano infatti raggiunto un buon grado di operatività ed efficienza, secondo il generale ciò non sarebbe ancora sufficiente per garantire il mantenimento dei progressi ottenuti nell’ultimo decennio. Molto più espliciti nell’analizzare i rischi del ritiro sono i britannici che, con la loro nota pragmaticità, hanno previsto un rapido ritorno del controllo talebano sulla provincia di Helmand, dove Londra schiera ancora 5000 militari. L’ex comandante dello Special Air Service, il colonnello Williams, in un’intervista al Times di gennaio 2014 ha dichiarato che sarebbe “molto sorpreso se il futuro governatore della provincia di Helmand non fosse qualcuno legato ai talebani”. E ha aggiunto che se ciò dovesse avvenire la società inglese inizierà giustamente a domandarsi a cosa siano serviti i 450 ragazzi morti in azione per liberare e stabilizzare quel territorio.

Alle autorevoli opinioni di Dunford e Williams, si associano anche quelle di David Richards, già Capo di Stato Maggiore della Difesa ed ex comandante Isaf, secondo il quale una volta completato il ritiro verranno meno tutte le possibilità di negoziare con le formazioni talebane aprendo la strada ad un loro ritorno. Bisogna notare inoltre come la paura per un possibile collasso dell’Afghanistan preoccupa non solo gli alleati ma anche i paesi confinanti come India e Pakistan (i cui rapporti con i talebani sono sempre stati molto ambigui e sfuggenti, tanto da costringere gli Stati Uniti a chiedersi quanto realmente Islamabad sia loro supporter). Ad essi si uniscono anche le varie ex repubbliche sovietiche che orbitano intorno all’aspro territorio pashtun, e che ad ottobre 2013 si sono riunite a Bishkek, capitale del Kirghizistan, per discutere del futuro del loro vicino, valutando il rischio di una esplosione dei traffici di oppio da parte dei signori della guerra e del dilagare delle azioni terroristiche e delle spinte dell’integralismo islamico nei paesi dell’Asia centrale (mentre sto scrivendo questo articolo è uscita la notizia di un attacco talebano ad una scuola militare pakistana che avrebbe causato almeno 130 morti, in gran parte bambini. A dimostrazione che il ritorno talebano è più che una ipotesi di lavoro). Il rischio dell’implosione dello Stato afghano è percepito anche all’interno delle strutture pubbliche del paese stesso dove accanto all’endemica corruzione si è associato il fenomeno della “fuga dei diplomatici” che si sono rifiutati di rientrare a Kabul, preferendo aspettare il risultato delle elezioni presidenziali o chiedere un accreditamento presso il paese ospitante. Come ha dichiarato il capo dell’ufficio “Konrad Adenauer Fondation” della capitale, Tinko Wibezah, “negli ultimi mesi alcuni dei nostri contatti più qualificati hanno lasciato l’Afghanistan. I rifugiati sono sopratutto persone con un elevato livello di istruzione che, dodici mesi or sono, erano molto più ottimisti circa il futuro”.

Date queste premesse, il ritiro americano assomiglia più a una ritirata e sembra avere lo stesso sapore degli Accordi di Pace di Parigi firmati nel 1973 per mettere fine alla guerra del Vietnam. Il Presidente Obama ritiene che l’attuazione del calendario proposto prima a Karzai e poi a Ghani sia un passaggio quantomeno sufficiente per garantire la stabilità dell’Afghanistan e il rientro in sicurezza dei soldati americani. Molti non la pensano allo stesso modo. Queste scadenze così rapide, dicembre 2014 e successivamente biennio 2015-2016, danno una prospettiva temporale agli insurgens e mettono in grave pericolo i soldati che rimarranno. Perché i talebani sono arrabbiati e agguerriti e hanno intenzione di dimostrare davanti al mondo di aver vinto, esattamente come vinsero i loro padri contro l’Unione Sovietica, e intensificheranno gli attacchi. In quel momento il ritiro da una “missione compiuta” assumerà le forme della fuga impietosa dal Vietnam di trent’anni fa. Come caddero in rapida successione Hué, Da Nang e Saigon così rischiano di collassare Herat, Helmand e Kabul. E come trent’anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati si renderanno conto allora che la guerra non l’hanno vinta e che migliaia di soldati sono morti per un pugno di mosche. Come ha sottolineato amaramente il Presidente Obama: “Abbiamo imparato che è più facile iniziare una guerra che finirla”.