Mais je ne suis pas Charlie
di Franco Cardini - 20/01/2015
Fonte: Franco Cardini
Credo che almeno una volta nella vita di ciascuno di noi sia accaduto di sentirsi coinvolgere e
quasi trascinare dal caleidoscopio misterioso e inquietante delle coincidenze e delle sincronicità: e di
essersi chiesto se tutto ciò non rappresenti un messaggio, un presagio. A me è accaduto proprio nella
prima settimana di quest’anno: un breve periodo che avevo da tempo deciso di consacrare a un
viaggio che mi avrebbe portato ancora una volta, dopo alcuni anni, in un paese che conosco
abbastanza e che amo: la Giordania. Avrei voluto rivisitare con calma soprattutto le sue memorie
crociate, oggetto di studi che ho negli ultimi tempi un po’ lasciato da parte, mai però abbandonati: i
castelli crociati di Kerak (il “Kerak di Moab”, la Petra Deserti), di Shauwbak (il “Kerak di Montréal”) e
soprattutto quello di al-Wouhaira sito non lontano dalla splendida “città morta” di Petra e lungamente
studiato con entusiasmo da un’équipe di archeologi medievisti dell’Università di Firenze guidata
dall’amico e collega Guido Vannini. Quel loro generoso lavoro mi è particolarmente caro in quanto,
una trentina di anni or sono, anch’io partecipai insieme con Vannini ad avviarlo.
Ma volevo fare anche altre cose. Sulla montagna del Monte Nebo, alta a dominare da est
l’area nella quale il Giordano sfocia nel Morto, là dove secondo la tradizione Mosè avrebbe avuto da
Dio la grazia di gettare lo sguardo sulla Terra Promessa prima di chiudere gli occhi e di esservi
sepolto, una splendida figura di religioso e di archeologo, il francescano padre Michele Piccirillo, ha
lavorato per lunghi decenni raccogliendo un autentico tesoro: decine e decine di metri quadrati di
splendidi mosaici paleocristiani. Michele non era per me soltanto un amico fraterno: era anche un
maestro, nonostante fosse di quattro anni più giovane di me. Una malattia incurabile, da lui affrontata
con coraggio e in francescana letizia, ce lo ha strappato nel 2008 appena sessantaquattrenne. Ora
dorme sull’alto della “sua” montagna del Nebo, in un semplice giardinetto aperto al sole, al vento e alle
stelle: e ho avuto la mesta gioia di visitarlo per la prima volta dopo averlo accompagnato, sette anni fa,
durante gli ultimi giorni della sua vita.
Mi ha molto colpito, pochi giorni fa, anche una “coincidenza”, una fortuna: quella di poter
visitare di nuovo il luogo, sulla riva del Giordano, nel quale tradizionalmente Gesù ricevette l’acqua del
battesimo da Giovanni Battista; e quindi salire sull’altura del “Macheronte”, in vista del Mar Morto,
dove si ergeva presso una celebre fonte d’acqua termale il palazzo-fortezza di Erode IV Antipa e
dove, sempre secondo la tradizione, il Battista sarebbe stato decapitato.
Ma ecco, a quel punto, il colpo di scena: sull’interno della Giordania il tempo è cambiato, un
rigore invernale precoce e più duro del solito a quella latitudine ha provocato il cader della neve su un
paese che, al riguardo, non è granché attrezzato. Proprio mentre stavo pensando a un rientro
anticipato per evitare il possibile blocco degli aeroporti e dei voli, venerdì 7 sera, sono stato raggiunto
dalle spaventose notizie riguardanti il massacro dei redattori del settimanale “Charlie Hebdo” e
l’uccisione di alcuni poliziotti (tra cui un musulmano) perpetrato a Parigi dai fratelli Said e Chérif
Chaouki, i legami dei quali con un qualche gruppo connesso ad al-Qaeda sono ancora da chiarire; e
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uno dei quotidiani ai quali collaboro abitualmente mi ha raggiunto chiedendomi di rientrare
immediatamente a Parigi e di seguire lo svolgersi di una vicenda che si annunziava tragica. Nelle
giornate tra l’8 e l’11 (e nella serata di domenica 11 sto appunto buttando giù queste note) ho seguito
di continuo e da vicino, con attenzione, lo sviluppo degli avvenimenti: l’assurdo assassinio presso il
parco di Montrouge, nel XIV arrondissement, di un’agente di polizia – una ragazza d’origine africana -
da parte di un terzo terrorista, non è chiaro se collegato agli altri due (ma che ha rivendicato piuttosto il
suo legame con l’IS del califfo al-Baghdadi), l’8; e quindi, in una sequenza mozzafiato, la tentata
resistenza e la morte dei fratelli Chaouki, l’attacco del terzo terrorista la mattina di venerdì 9 a un
supermercato kasher della Porte de Vincennes, nel XX arrondissement, l’uccisione da parte sua di
quattro ostaggi – quattro cittadini di fede ebraica, che stavano facendo le loro compere per prepararsi
allo shabbat – e infine la sua morte sotto i colpi della polizia che è riuscita a liberare gli altri ostaggi.
Ho ricavato, da questa dura e vorticosa esperienza, un senso di angoscia e di smarrimento.
Da una parte, la tragedia che ha toccato tutti i parigini e i francesi – cristiani, ebrei, musulmani e
agnostici – ha provocato un’ondata di commozione e di sentimento di solidarietà davvero esemplare e
toccante, che si è manifestato soprattutto nella grande “manifestazione repubblicana” di stasera.
Dall’altra, ho vissuto con disagio il crescente vento di angoscia e di follìa che scompigliava con le sue
folate la popolazione della Ville Lumière. Dovunque paura (“Siamo in guerra…”), isterismo (“L’Islam è
tutto uguale, è sempre lo stesso…”), polemiche e contraddizioni (solidarietà nazionale raccomandata
dal presidente della repubblica sì, ma con la partecipazione del Front National giammai; brava la
nostra polizia, ma la morte di alcuni ostaggi alla Porte de Vincennes segna un fallimento delle forze
dell’ordine; onore alle vittime di “Charlie Hebdo” nel nome della libertà di stampa sì, ma appello al
tempo stesso al “silenzio-stampa” per facilitare il lavoro dei servizi e per non concedere ai terroristi
quel che essi vogliono, cioè un’eccezionale visibilità). Lo stesso svolgersi della manifestazione odierna
è stato segnato da contraddizioni che i solerti speakers delle varie televisioni presenti hanno cercato di
nascondere o hanno implicitamente sottolineato: non sono mancati esponenti di organizzazioni
cristiane e musulmane che non hanno sfilato con gli altri in quanto offesi o comunque disorientati dal
fatto che molti manifestanti ostentavano alcune tra le copertine più apertamente satiriche per non dir
blasfeme del noto settimanale; e la cerimonia in memoria delle vittime di religione ebraica tenutasi alla
Sinagogue de la Victoire in presenza del presidente Hollande e del premier israeliano Nethanyahu ha
lasciato in alcuni l’impressione di un prevalere delle interpretazioni secondo le quali nei tragici fatti di
questi ultimi giorni il segno dell’antisemitismo sarebbe stato particolarmente intenso: il che ha
rappresentato una forzatura, dal momento che l’indiscutibile antisionismo delle formazioni jihadiste
estremistiche non ha comunque connotati razzisti ma trova la sua radice nell’irrisolta questione
israelo-palestinese.
Insomma, Madame la France è sempre deliziosamente se stessa. La patria della libertà a
tutto campo, senza se e senza ma – quella orgogliosamente definita dall’équipe di “Charlie Hebdo” -
ma al tempo stesso anche delle leggi che proibiscono l’uso del velo femminile senza curarsi del fatto
che una proibizione è altrettanto liberticida di un obbligo e che condannano come un crimine il
“revisionismo” e il “negazionismo” senza nemmeno curarsi di definirli con precisione. Il paese il
presidente del quale, l’ineffabile Monsieur Hollande, dichiara che il fondamentalismo musulmano è il
primo pericolo pubblico “dimenticando” che meno di quattro anni fa, nel 2011, egli e il suo prediletto
consigliere culturale Bernard Henri-Lévy promuovevano la caduta (riuscita) del libico Gheddafi e
quella (fallita) del siriano Assad appoggiando quelle stesse milizie jihadiste che oggi considera
nemiche.
Si va frattanto facendo strada l’idea che questi tre giorni siano stati, nel loro complesso, un
“Undici Settembre” francese: il che ovviamente comporta la domanda relativa all’uso politico che, da
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parte di qualche dirigente, potrebbe venir proposto di tale analogia. Quali misure saranno richieste dai
partiti e dai mass media, quali saranno adottate dal governo, per rispondere al duplice attentato del
“Charlie Hebdo” e della Porte de Vincennes? Ricordiamo tutti con preoccupazione a quali errori
condusse la war against Terror ingaggiata da George W. Bush jr. e dal suo team di governo prima con
l’avventura afghana e poi con quella irakena. La Francia di Hollande si è distinta, in questi mesi, in
scelte politiche e militari non felici tanto nel Vicino Oriente quanto nel continente africano: da qui la
vera o falsa consapevolezza, comunque condivisa da molti media, che la Francia sia l’obiettivo di un
pesante e non casuale attacco terroristico. Quel che da Parigi appare evidente è che l’appello “alla
vigilanza, all’unità e alla mobilitazione” rivolto dal presidente Hollande durante il messaggio televisivo
alla nazione la sera del 9 in vista della manifestazione nazionale unitaria prevista per domenica 11
(con o senza il Front National?), costituisce forse non soltanto, ma senza dubbio anche un tentativo
estremo – e forse in extremis – per recuperare almeno in parte una popolarità che mai come in questi
mesi era scesa a livelli tanto bassi. Anche una tragedia come quella di questi tre sanguinosi giorni può
servire da pretesto per una strumentalizzazione demagogica. Purtroppo.
Del resto, lo stesso accade forse anche “dall’altra parte”: ammesso che sia facile individuare
con precisione le parti effettivamente in causa, nella complessa partita politica internazionale che si
gioca attualmente nel mondo. All’interno dell’Islam politico, che riguarda solo una parte – e forse
minoritaria – del circa un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo ma che gestisce un potere politico
immenso, si sta svolgendo una lotta senza esclusione di colpi (in arabo si chiama fitna, ed è solo
inadeguato tradurre questa parola con l’espressione “guerra civile”) che oppone sunniti a sciiti, fautori
di una pratica musulmana moderata e favorevole al dialogo con l’Occidente a partigiani della tabula
rasa jihadista, sostenitori di differenti se non addirittura opposte soluzioni autoritarie (dagli emiri del
Golfo alla dirigenza iraniana) e perfino estremisti che condividono una comune origine ideologica
salafita ma che – come al-Qaeda e l’IS del califfo al-Baghdadi – sono in lotta tra loro. Dal punto di
vista dei gruppi terroristici, la violenza e la ferocia sono uno strumento propagandistico: essi fanno a
gara nel servirsene non solo in modo da provocare una dura risposta occidentale e poter quindi
dimostrare alla pubblica opinione che fa rispettivamente loro capo che ciascuno di loro è l’autentico
paladino del puro Islam, per questo candidato al martirio ed esposto ai coli degli infedeli. Se davvero i
fratelli Chaouki, gli assassini dei redattori del “Charlie Hebdo”, erano vicini ad al-Qaeda, la loro azione
sanguinosa era implicitamente diretta anche contro il concorrente di al-Qaeda, il califfo, per
dimostrarne la minore capacità di colpire gli infedeli, e contro i musulmani moderati, per rendere
sempre più difficile il loro dialogo con l’Occidente. Semmai, è interessante seguire gli sviluppi di
queste nuove tecniche di reclutamento di “soldati politico-religiosi” che appaiono sempre più degli
emarginati, degli sbandati, dei Lumpenterroristen che giungono alla militanza (siano musulmani di
nascita o convertiti) senza preparazione religiosa o quasi, attraverso “l’università del crimine” del
carcere – che per tanti detenuti musulmani è anche una “madrasa del crimine” – oppure attreverso la
propaganda on line della quale soprattutto quelli dell’IS sono maestri. Si diventa musulmani, e jihadisti,
e perfino terroristi assassini, anche “chattando”: barbarie certo, sicuramente, ma raggiunta attraverso
un atroce gioco postmoderno, altro che una ricaduta nell’atavismo!
C’è comunque del metodo, nella follìa. Gli estremisti si somigliano sempre e si sostengono a
vicenda. Usama bin Laden sarebbe stato impensabile senza la propaganda di neo-cons e theo-cons:
e viceversa. L’estremismo jihadista confida nel fondamentalismo occidentalista: chi annovera tra i suoi
primi nemici “i sionisti e i crociati” spera ardentemente che i “crociati”, cioè appunto gli occidentali,
ricomincino presto a fare il loro mestiere: la collezione di errori e di sciocchezze che ha segnato gli
interventi in Afghanistan e in Iraq. Sarebbe bello poterli smentire entrambi. Purtroppo, invece, non è
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improbabile che la loro stupidità trionfi di nuovo. Quella di Bush e di Bin Laden ci ha regalato tre lustri
di guerre e di attentati. Vedremo quel che riuscirà a fare quella di Hollande e di al-Baghdadi.
Davanti alla tragedia parigina di questi quattro terribili giorni, mi sono sentito preda di
sentimenti e di sensazioni contrastanti.
Prima di tutto il dolore, la pietà, la solidarietà. Parigi è da molti anni la mia seconda città, per
qualche verso ormai quasi la prima. Questa gente orgogliosa, scontrosa, a tratti perfino scortese, a
modo suo “simpatica” come sanno esserlo i fiorentini, è la mia gente, ci lavoro e ci vivo in mezzo: le
voglio bene, mi fa arrabbiare eppure ci sono affezionato. Vederla impaurita, disorientata, attraversata
da sferzate di alterigia quasi patetica eppure al tempo stesso incredula (“perché a noi?”; “perché tanto
odio?”), mi fa male e m’intenerisce.
Poi la meraviglia, la delusione, il disappunto. Insomma, perdinci, questa non è solo la capitale
di un grande paese, la Francia: questa è per tanti versi una delle capitali politiche e culturali del
mondo. Abitarci, lavorarci, insomma viverci, è un immenso privilegio: e i privilegi comportano
responsabilità maggiori, altrimenti diventano intollerabili ingiustizie. Ci sono stati come ho già detto in
tre giorni, dal 7 al 9 gennaio scorsi, tre episodi criminali e terroristici differenti che sono costati la vita
prima, il 7, a dodici persone tra redattori del settimanale “Charlie Hebdo” e poliziotti: quindi, l’8, a
un’agente della polizia municipale abbattuta nel Parco di Montrouge (XIV arrondissement, quello
“universitario”); infine, il 9, a quattro innocenti clienti di un supermercato kasher presi ostaggio
dall’assassino della poliziotta alla Porte de Vincennes, nel XX. Il terzo episodio è quello che mi ha
toccato più da vicino: nel XX arrondissement ho vissuto circa un anno, anni fa, quando insegnavo
appunto all’università di “Paris VIII” allora a Vincennes (oggi spostata a Saint-Denis). Conosco quelle
strade allegre, affollate di una moltitudine allegra e modesta di gente varia, cattolici, ortodossi greci e
slavi, armeni, musulmani soprattutto sirolibanesi e maghrebini, ebrei di varia origine. Genti che si
conosce, si saluta tutte le mattina, visita a turno i negozi gli uni degli altri, più che “tollerarsi” si vuole
bene e condivide l’esistenza. Che proprio lì sia infuriata una rabbia che, sia chiaro, non è stata
“razzista” (l’odio antiebraico che fa parte dell’ideologia di al-Qaeda dipende dagli sviluppi della
situazione israelo-palestinese, non ha nulla di “razzistico” o di “antisemita”), ma che tuttavia ha mietuto
la vita di quattro persone intente alla pacifica spesa quotidiana è particolarmente tragico. Ora, e ormai,
più nulla sarà come prima. La comunità musulmana parigina ha reagito compatta, manifestando senza
possibilità di equivoci il suo dolore e la solidarietà alle vittime. Pas à mon nom, versione francese del
celebre Pas in my name dei pacifisti americani: questo si leggeva in molti cartelli inalberati da parte
dalla folla dei cittadini di fede islamica riuniti attorno alla moschea per onorare le vittime del terrorismo
e pregare per loro. Anche i tre attentatori sono morti: e la loro “ideologia” del martirio, sostenuta dagli
aderenti alla galassia dei gruppi che si riconoscono in al-Qaeda, è stata così a modo suo onorata. Non
ci si può aspettare che vi sia stato un ricordo anche per loro. Eppure le vicende delle loro vite, filtrate
attraverso i media, parlano a loro volta il linguaggio della sofferenza, della fatica di vivere: la
mancanza d’istruzione prima dell’“università del crimine”, il carcere, che ormai è spesso anche
madrasa d’islamismo fondamentalista; la disoccupazione o la sottoccupazione; il confronto frustrante
tra le propria emarginazione e l’opulenza di una città che alberga pure tante tragedie umane ma dove
in apparenza opulenza e consumismo trionfano; in almeno un caso, turbe psichiche che a loro volta
costituiscono una malattia che la miseria impedisce di curare; infine, la falsa redenzione di un credo
fanatico di morte che con l’Islam non ha nulla a che fare per quanto si nutra di pochi versetti del
Corano mandati a memoria. “Fanatici”, si è detto: ma come, ma perché, si diventa “fanatici”, e al
punto di trasformarsi anche in assassini? “Fanatismo”: davvero possiamo accontentarci di questa
spiegazione che non spiega un bel niente? E davvero tanta gente, tra le decine di migliaia di parigini e
di francesi che in questi giorni hanno affollato le vie e le piazze manifestando la loro opposizione al
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terrorismo e il loro orgoglio di liberi cittadini che non si piegano dinanzi alla minaccia armata, non ha
pensato nemmeno per un attimo che Parigi ha vissuto in tre giorni forse meno di un millesimo
dell’ansia, della paura, del dolore che a Gaza, a Baghdad, a Kabul e in migliaia di città e di paesi
sparsi tra Asia e Africa musulmani, ebrei e cristiani soffrono ogni giorno? “Siamo in guerra”, hanno
ripetuto in tanti. Anche papa Francesco lo ha affermato, qualche mese fa: la terza guerra mondiale è
già cominciata; Umberto Eco lo ha ripetuto su “Repubblica”. Ma in guerra fra chi, in guerra contro chi?
Non si erano forse accorti, i francesi, di essere in guerra già dal 2011, quando il presidente Hollande
ha appoggiato con decisione le milizie jihadiste in Libia contro Gheddafi e in Siria contro Assad (e ciò,
specie nel secondo caso, in diretto contrasto con le indicazioni delle stesse Chiesa cristiane locali)?
Anche a Tripoli, a Damasco, ad Aleppo, ci sono stati dei morti: molti più di quelli parigini di qualche
giorno fa. Oggi alcune indiscrezioni rivelano che le costose armi automatiche usate dai fratelli Chaouki
per lo sterminio dei redattori di “Charlie Hebdo” possono essere finite nelle loro mani in quanto parte
delle dotazioni a suo tempo passate dal governo francese ai jihadisti antigheddafiani e antiassadisti. Ai
jihadisti tra i quali militano anche alcuni ragazzi europei, magari convertiti all’Islam, che nello jihadismo
hanno trovato, in forma distorta, un surrogato a quella cultura politica e religiosa che da noi ormai non
s’imparte più. Ma davvero abbiamo la memoria tanto corta? Davvero ignoriamo che fino dagli Anni
Settanta sono stati gli statunitensi che in Afghanistan, in funzione antisovietica, si sono serviti dei
“guerrieri-missionari” fondamentalisti provenienti dall’Arabia Saudita e dallo Yemen preferendoli ai
severi e rigorosi combattenti del comandante Massud, portatori di un Islam fiero e intransigente ma
anche tollerante? Davvero ignoriamo che la malapianta del fondamentalismo l’abbiamo innaffiata e
coltivata per anni noi occidentali, prima che verso la metà degli Anni Novanta i rapporti si
guastassero? Sul serio non sappiamo nulla del fatto che ancor oggi lo jihadismo – quello di al-Qaeda
e quello, rivale e concorrente, dello Islamic State del califfo al-Baghdadi – è sostenuto e aiutato, e
neppure in modo troppo nascosto, da alcuni emirati della penisola arabica che pur sono tra i nostri più
sicuri “alleati” nonché – e soprattutto – partners finanziari e commerciali. E’ vero che, com’è stato
detto, pecunia non olet: eppure almeno il petrolio dovrebbe farlo.
Ma di tutto ciò, per ora, qui a Parigi nessuno fa ancora parola. Per la verità qualche critica
comincia a far capolino, tra un blog e l’altro, fra un tweet e l’altro. Ma la Vulgata trionfa: bella,
semplice, pulita. E maniacale, repellente nel suo manicheismo che si spera sia almeno in malafede,
perché altrimenti sarebbe troppo idiota. La Vulgata dell’Occidente patria della libertà e della tolleranza,
e dell’Altro, il Nemico, come orribile, mostruoso, disumano e quindi inumano e antiumano, fanatico e
quindi privo di qualunque ragione, incomprensibile e quindi ingiustificabile perché indegno di quella
forma di comprensione che non è sinonimo di giustificazione (come si può giustificare un assassinio?)
bensì esercizio della critica, della capacità di penetrare i meccanismi intimi di qualcosa che pur si
disapprova con orrore. Noi occidentali ci siamo sbrigativamente assolti da ogni errore e da qualunque
crimine: al massimo, siamo disposti a rovesciarli sul nazismo (che però è un passo indietro verso il
“buio medioevo”) o sullo stalinismo (che però è un tuffo nella “sanguinosa utopìa”). Al massimo, con
uno sforzo, ammettiamo le violenze dei conquistadores. Sul resto, notte e nebbia: su secoli di rapina,
di schiavismo, di sistematica razzìa di materie prime e di forza-lavoro, su cumuli d’infamie che
abbiamo tuttavia coperto con la coltre benevola dei Diritti dell’Uomo e di una libertà-fratellanzauguaglianza
che al massimo cominciava da noi e finiva con noi. Anche i “lavoratori di tutto il mondo”
che Marx ed Engels esortavano a unirsi, in fondo erano quelli compresi nel triangolo tra Parigi, Berlino
e Londra: ne erano esclusi non diciamo i fellahin egiziani e i pastori afghani, ma perfino gli zappatori
campani e i vignaioli greci.
Ecco perché rispetto profondamente il sacrificio dei redattori e dei disegnatori di “Charlie
Hebdo” e mi sento solidale e commosso partecipe del dolore delle loro famiglie: eppure, pur
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sentendoli senza dubbio parte di quella cultura europea-occidentale che è anche la mia, non mi
riconosco nella loro visione del mondo e rivendico il mio diritto a dichiararlo con identità. Essi erano, e
i loro colleghi e sodali continuano ad esserlo, fautori di una libertà individuale illimitata, insofferente di
limiti e di regole: non a caso il sottotitolo di “Charlie Hebdo” suona “Journal irrésponsable”. La loro
libertà non era nemmeno tanto quella di Voltaire e di Rousseau, quanto semmai quella del marchese
De Sade. La loro era la libertà di chi, arbitrariamente appiattendo le fede religiosa a una forma di
filosofia o di ideologia, rivendicava il diritto di non temere conto di nulla che da milioni di altri esseri
umani veniva giudicato sacrosanto e di poter caricaturizzare indiscriminatamente Maria Vergine o il
profeta Muhammad al pari di Marx o di Obama.
Contro la loro libertà ispirata a De Sade, io rivendico la mia libertà ispirata a san Tommaso
d’Aquino: una libertà responsabile, che termina dove comincia quella altrui e che è in grado di
distinguere tra “libertà di”, “libertà da” e “libertà per”. Una libertà che non pensa orgogliosamente di
potersi riallacciare a valori unilateralmente dichiarati “universali” ma che, memore dell’insegnamento di
Claude Lévi-Strauss, tiene presente che è non meno “universale” e degno pertanto di rispetto
qualunque altro valore sostenuto alla luce di culture diverse dalla nostra: diverse, non “inferiori”. Una
libertà che non si esercita calpestando quella altrui. La Francia, che amo, si erge oggi nel suo dolore a
paladina della Libertà con la maiuscola: eppure, anche recentissimamente, il suo parlamento ha
adottato leggi liberticide come quella che proibisce alle donne musulmane l’uso pubblico del velo
(anche a quelle che vogliono portarlo) e quella che rispolvera il vieto reato d’opinione punendo
indiscriminatamente “revisionismo” e “negazionismo” senza neppur darsi la pena di definirli con
chiarezza giuridica. Non solo il sogno della ragione, ma anche l’illusione della sua veglia, può creare
dei mostri.
Ecco perché rispetto i caduti della redazione di “Charlie Hebdo”, m’inchino di fronte al loro
sacrificio, deploro la violenza che li ha strappati alla vita e ai loro cari: ma rivendico il mio diritto a non
solidarizzare con un giornale che mostrava in prima pagine la caricatura della Madonna che a gambe
divaricate partorisce un grottesco Bambino Gesù. So bene che il problema non sta affatto
nell’identificarsi o meno con “Charlie” ma nel ribadire che l’espressione di un parere, di un certo modo
di vedere il mondo, può essere contestabile e perfino aberrante finché si vuole ma non può meritare la
morte. Le nostre leggi garantiscono la libertà di espressione e di opinione, anche se e quando alcune
espressioni di essa possono essere, nei confronti di alcuni, più lesive di un atto di violenza. Se un
disegnatore di “Cahrlie Hebdo” mi avesse preso a pugni, sarebbe stato querelato, processato e
probabilmente condannato; eppure, con quella vignetta della Vergine Maria profanata nell’atto intimo,
sacro e misterioso del parto, egli mi ha fatto molto più male, mi ha offeso e colpito ancora più
duramente; eppure la legge non mi fornisce alcuno strumento per reagire, per rivendicare la mia
dignità. Certo, senza dubbio egli non meritava di morire per questo sotto i colpi di un assassino
convinto per giunta di farsi con ciò strumento della volontà divina.
Non è ad ogni buon conto solo la morte dei poliziotti, che sono caduti nell’adempimento del
loro dovere e meritano ogni onore, e nemmeno quella delle povere innocenti vite stroncate dei clienti
ebrei del supermercato kasher a commuovermi e ad addolorarmi. Piango sinceramente la scomparsa
dell’équipe di “Cahrlie Hebdo” e penso con grande mestizia al dolore di tante famiglie così duramente
colpite. Ma non sono disposto per questo a rinunziare alla mia dignità e a una cultura, la mia, che è
radicalmente lontana dalla loro; e il lutto, che va condiviso, non può comunque avvicinarla ad essa.
Non: désolé, mais je ne suis pas Charlie.
Franco Cardini