«Nell’ultimo anno la società russa è cambiata radicalmente. Abbiamo vissuto più di due decenni di umiliazioni, come Paese e come popolo. Abbiamo subìto sconfitta dopo sconfitta. Il Paese che i russi avevano costruito, l’Unione Sovietica, si è suicidato. È stato un suicidio assistito da stranieri interessati. Per 23 anni siamo stati in piena depressione collettiva. Il popolo di un grande Paese ha un costante bisogno di vittorie, non necessariamente militari, ma deve vedersi vincente. La riunione della Crimea alla Russia è stata vista dai russi come la vittoria che ci era mancata per così tanto tempo. Finalmente. È stata qualcosa di paragonabile alla Reconquista spagnola».
È stato tutto nella sua vita, Eduard Veniaminovich Savenko, alias Eduard Limonov. Teppista di periferia, giornalista, forse agente del Kgb, mendicante, vagabondo, maggiordomo di un nababbo progressista americano, poeta, scrittore à la page nei salon parigini, dissidente, irresistibile seduttore, cecchino nelle Tigri di Arkan durante la decomposizione della Jugoslavia, leader politico, fondatore del Partito nazional-bolscevico, prima di vederlo sciolto e di creare L’Altra Russia.
Ma Limonov, aspro come l’agrume da cui viene il suo pseudonimo, è soprattutto un antieroe, un esteta del gesto, un outsider che ha sempre scelto di proposito la parte sbagliata, senza mai essere un perdente. Al fondo, Eduard Limonov è un grande esibizionista, che però non ha mai avuto paura di rischiare e di pagare prezzi anche molto alti, per tutti i due anni di prigionia, culminati nel 2003 nei due mesi trascorsi nella colonia penale numero 13, nelle steppe intorno a Saratov. Può quindi sembrare paradossale che, per la prima volta nella sua vita spericolata, il personaggio reso celebre dall’omonimo libro di Emmanuel Carrère si ritrovi non più ai margini, non più nelle catacombe della conversazione nazionale russa, eccentrico carismatico in grado di appassionare poche decine di desperados, ma sia in pieno mainstream, aedo dell’afflato nazionalista, che i fatti d’Ucraina e la reazione dei Paesi occidentali hanno acceso nello spirito collettivo della nazione.
Limonov riceve «la Lettura» nel suo piccolo appartamento nel centro di Mosca, non lontano dalla Piazza Majakovskij. Un giovane alto e robusto viene a prenderci per strada, accompagnandoci su per le scale. Un altro marcantonio ci apre la porta blindata. Sono i suoi militanti, che gli fanno da guardie del corpo. Avrà anche 71 anni, ma a parte i capelli argentei, ne dimostra venti di meno. Magro, il volto affilato, il famoso pizzo, l’orecchino, è tutto vestito di nero, pantaloni attillati e giubbotto senza maniche su golf a collo alto. Parla con una voce sottile, leggermente stridula. Ha modi molto miti e gentili, totalmente fuori tema con i furori che hanno segnato la sua vita. «Voi occidentali non state capendo nulla », esordisce, mentre offre una tazza di tè.
Che cosa non capiamo?
 «Che il Donbass è popolato da russi. E che non c’è alcuna differenza con  i russi che abitano nelle regioni sud-occidentali della Federazione,  come Krasnodar o Stavropol: stesso popolo, stesso dialetto, stessa  storia. Putin sbaglia a non dirlo chiaramente agli Usa e all’Europa. È  nel nostro interesse nazionale».
Quindi l’Ucraina per lei è Russia?
 «Non tutta. L’Ucraina è un piccolo impero, è composta dai territori  presi alla Russia e da quelli presi a Polonia, Cecoslovacchia, Romania e  Ungheria. I suoi confini sono le frontiere amministrative della  Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina. Non sono mai esistiti. È  territorio immaginario che, ripeto, esisteva solo a scopi burocratici.  Prenda Leopoli, cosiddetta capitale del nazionalismo ucraino: lo sapeva  che l’Ucraina l’ha ricevuta nel 1939 per effetto della firma del Patto  Molotov-Ribbentrop? In quel momento il 57% della popolazione era  polacca, il resto erano ebrei. Di ucraini poche tracce. Il Sud del Paese  poi venne dato all’Ucraina dopo essere stato conquistato dall’Armata  Rossa. Questa è la storia. Ma quando l’Ucraina ha lasciato l’Urss non ha  restituito quei territori, a cominciare dalla Crimea ovviamente, che le  era stata regalata da Krusciov nel 1954. Non capisco perché Putin abbia  ancora paura di dire che Donbass e Russia sono la stessa cosa».
Forse perché ci sono confini riconosciuti a livello internazionale.
 «A nessuno fregò nulla dei confini internazionalmente riconosciuti nel  1991, quando l’Unione Sovietica fu sciolta. Qualcuno disse qualcosa? No.  Questa è la mia accusa all’Occidente: applica due standard alle  relazioni internazionali, uno per i Paesi come la Russia e uno per se  stesso. Non ci sarà pace in Ucraina fin quando non lascerà libere le  colonie, intendo il Donbass. L’errore di Putin è non dirlo apertamente».
Forse Putin fa così perché non vuole annettere il Donbass come ha fatto con la Crimea, perché sono solo problemi.
 «Forse lei ha ragione. Forse non avrebbe voluto neppure la Crimea. Ma il  problema è suo, gli piaccia o meno. È il capo di Stato della Russia. E  rischia la reputazione».
Non si direbbe, a giudicare dalla sua popolarità, che rimane superiore all’80%.
 «È ancora l’effetto inerziale della Crimea. Ma se abbandonasse il  Donbass al suo destino, lasciandolo a Kiev, con migliaia di volontari  russi sicuramente destinati a essere uccisi, la sua popolarità si  scioglierebbe come neve al sole. Non sembra, ma Putin è in un angolo».
Che cosa farà, secondo lei?
 «Reagisce bene. Si sta radicalizzando. Ha capito che gli accordi di  Minsk sono una balla, aiutano solo il presidente ucraino Poroshenko.  Anche se controvoglia, dovrà agire. Quando un anno fa emerse il problema  della Crimea, Putin era preso dall’Olimpiade di Sochi, che considerava  l’impresa della vita. Era felice. Ma fu obbligato a usare i piani  operativi dell’esercito russo, che ovviamente esistevano da tempo. Certo  la Crimea è stata la sua vittoria, anche se malgré lui. Il  Donbass non era affatto nel suo orizzonte. In Occidente tutti lo  accusano di volerlo annettere, in realtà è molto esitante».
Dopo l’Ucraina quale sarà il prossimo territorio da riconquistare, i Paesi baltici?
 «Intanto non penso che i Paesi baltici abbiano nulla a che fare con la  Russia. Quanto all’Ucraina, credo che dovrebbe esistere come Stato,  composto dalle nove province occidentali che possono essere considerate  ucraine. Non sarò io a negare la loro cultura eccezionale e la loro  bella lingua. Ma, ripeto, lascino i territori russi».
Lei lo ha attaccato molto in passato: Putin è o no il leader giusto per la Russia?
 «Siamo un regime autoritario. E Putin è il leader che ci ritroviamo. Non  c’è alcuna possibilità di mandarlo via. Ma c’è una differenza tra il  Putin dei due primi mandati e quello di oggi. Il primo fu pessimo,  soprattutto impegnato a gestire il suo complesso d’inferiorità del  piccolo ufficiale del Kgb. Gli piaceva la compagnia dei leader  internazionali, Bush junior, Schröder, Berlusconi. Ma nel tempo ha  imparato. È migliorato. Ha detto addio alle luci del varietà e si è  messo al lavoro sul serio. Vive tempi difficili, ma fa ciò che è  necessario. E non è possibile oggi chiedergli di non essere  autoritario».
Ma la Russia può non essere un Paese autoritario?
 «Se Obama continua a dire che ci devono punire, ci costringe a darci dei leader autoritari».
Che cos’è per lei la Russia?
 «La più grande nazione europea. Siamo il doppio dei tedeschi. A dirla  tutta, noi siamo l’Europa. La parte occidentale è una piccola appendice,  non solo in termini di territorio, ma anche di ricchezze».
Per la verità l’Ue è la prima potenza commerciale al mondo.
 «Ci sono cose più importanti del commercio e dei mercati».
Ma se siete la più grande potenza europea, perché siete così nazionalisti?
 «Non siamo più nazionalisti di francesi o tedeschi. Siamo una potenza  più imperiale che nazionalista. Le ricordo che in Russia vivono più di  20 milioni di musulmani, ma non sono immigrati, sono qui da sempre. Noi  siamo anti-separatisti. Certo, in Russia c’è anche un nazionalismo  etnico, per fortuna minoritario, ma per noi significa soltanto guai. Io  non sono un nazionalista russo, non lo sono mai stato. Mi considero un  imperialista, voglio un Paese con tante diversità ma riunito sotto la  civiltà, la cultura e la storia russe. La Russia può esistere solo come  mosaico».
Ma siete o no parte del mondo occidentale?
 «Non è importante. È una questione dogmatica, senza significato reale.  La Corea del Sud è parte del mondo occidentale? No, eppure viene  considerata come tale. Dov’è la frontiera dell’Occidente? Non è  rilevante per i russi».
Che cosa contraddistingue l’identità russa?
 «La nostra storia. Noi non siamo migliori degli altri, ma non siamo  neppure peggiori. Non accettiamo di essere trattati come inferiori,  snobbati o peggio umiliati. Questo ci fa molto arrabbiare. È il nostro  stato d’animo attuale».
Ma, per esempio, l’Occidente si richiama ai valori della  Rivoluzione francese, democrazia, divisione dei poteri, diritti umani.  La democrazia è parte dei vostri valori?
 «Per i russi la nozione più importante e fondamentale è quella di spravedlivost, che significa giustizia, nel senso di giustizia sociale, equità, avversione alle disuguaglianze. Penso che la nostra spravedlivost sia molto vicina a quella che voi chiamate democrazia».
Le sanzioni e la crisi economica possono minacciare il consenso di Putin?
 «Penso che l’economia nel mondo di oggi sia sopravvalutata. Il motore  della storia sono le passioni. Alle pressioni economiche si può  resistere. E resisteremo. Certo Putin deve fare la sua parte in Donbass.  Guardi alla nostra storia: l’assedio di Leningrado, la battaglia di  Stalingrado. Possiamo farcela. In molti hanno provato a colpirci, da  Napoleone a Hitler. Ma l’orgoglio nazionale russo pesa più delle  politiche economiche e credo di conoscere bene il carattere del mio  popolo».



