Il curdo di comodo e la resistenza dimenticata
di Alessandro Catto - 10/03/2015
Fonte: L'intellettuale dissidente
Dal 2011, anno in cui la guerra civile siriana è scoppiata, molte cose sono cambiate nello scenario politico e militare mediorientale. I ribelli dell’ESL, paradossalmente indicati dai media occidentali come “ribelli islamici moderati,” esattamente moderati non si sono rivelati, e tra sconfitte sul campo e defezioni sono via via scomparsi andando a rafforzare le fila del nascente Stato Islamico, che si sta gradualmente sostituendo all’ESL nel ruolo di opposizione militare al governo di Bashar Al Assad. Non pochi furono i supporters della rivoluzione siriana e dei suoi protagonisti, perché molti erano gli interessi stranieri verso un cambio di regime a Damasco. E’ recente il riscatto di due giovani cooperanti italiane, partite in Siria con la benedizione di onlus e organizzazioni varie, bardate con le bandiere dei siriani liberi e confinate in un dubbioso limbo di aiuto umanitario e partecipazione politica. Nei primi anni del conflitto era altresì frequente notare le stesse bandiere sui palchi delle manifestazioni del centrosinistra italiano, sempre sensibile al fenomeno delle primavere arabe e pure ai risvolti geopolitici che queste potevano portare in favore dell’amico Obama.
Le contraddizioni di questa visione tuttavia emergono oggi, in un trionfo di drammatiche smentite sul campo. L’ESL va via via assottigliandosi, l’ISIS da forza marginale (e pure alleata dell’ESL) è diventato il primo pericolo del Medioriente e dell’Africa Mediterranea, la rivoluzione colorata siriana pare spegnersi giorno dopo giorno, schiacciata tra il martello dell’esercito arabo siriano e l’incudine del fondamentalismo religioso sunnita, poco propenso a mediazioni. Si può parlare del fallimento di una intera linea politica fatta di ingerenze in territorio straniero, di analisi tanto facili quanto errate, il fallimento di tutto un filotto colorato che, partito da lontano si sta rivelando oggi come un tragico errore di calcolo, soprattutto per quelle nazioni che, posizionate sul Mar Mediterraneo, delle crisi del mondo islamico vivono i lati peggiori, cioè il pericolo del terrorismo e le ondate migratorie che quotidianamente si abbattono pure sulle nostre coste. Da Gheddafi passando ad Assad, abbiamo una Libia nel completo caos e una Siria che per sopravvivere nell’ordine si aggrappa ormai all’unico leader capace di contrastare l’estremismo islamico, in un vero, drammatico e inutile testacoda, in cui fin dall’inizio, con un gestione più oculata, molti di quei 200.000 morti in terra siriana potevano essere risparmiati.
Tra le incognite del conflitto, complice il successo mediatico e la pompa magna offerta a reti unificate, compare quel singolare moto guerrigliero che è costituito dalle milizie curde e dalla loro resistenza in quel di Kobane. Si parlava di una disfatta delle logiche geopolitiche delle forze progressiste nostrane, ebbene per certi versi Kobane e l’esercito popolare curdo offrono il comodo ruolo di un bastione per la ritirata. Dal supporto all’islamismo moderato, rivelatosi una tragica illusione, si è facilmente passati ad una rediviva resistenza sulle montagne, capace di solleticare le fantasie dei più accaniti antifascisti nostrani, e di offrire comunque una posizione lontana dalla resistenza maggiore, quella della Siria di Assad, che da un lato ha sconfitto una rivoluzione promossa da interessi stranieri, e dall’altro sta combattendo la sua degenerazione fondamentalista. Il ruolo dei curdi nel conflitto, pur se encomiabile sotto certi aspetti, è sicuramente marginale e non riguarda quella che invece è una resistenza molto più grande e coerente, quella di Assad. Dalle amicizie con Israele e gli USA ai metodi non certo ortodossi per il procacciamento di fondi e armamenti, si è riusciti a bypassare qualsiasi legittimo dubbio sul ruolo dei curdi nel conflitto fino a farli passare come la forza principe dello scenario mediorientale, con picchi parossistici che vorrebbero nel Rojava e in Kobane una sorta di sistema di centri sociali antifascisti all’occidentale, e nei guerriglieri curdi dei redivivi comandanti Max.
Anche in questa guerra infatti l’antifascismo è servito più come fattore di confusione e scompiglio che come reale strumento ideologico, più idoneo a conservare un odio strumentale verso Assad che a combattere lo Stato Islamico, che definire fascista è senz’altro un salto carpiato ideologico di non poco conto. Ecco che la resistenza curda, nonostante la sua pochezza numerica e la sua relativa importanza sui campi di battaglia diventa un comodo lavacro per chi tutto sommato alle rivolte arabe con annesso supporto occidentale guardava con favore, e che proprio non se la sente di appoggiare l’unica forza in grado di contrastare una politica interventista sanguinosa e ingiusta, ovvero l’esercito siriano. Ecco che la resistenza curda, da ottimo ma locale e minoritario focolaio di resistenza diventa il punto nodale della guerra siriana, e al pari di Tsipras ed Iglesias va a costituire l’infrastruttura estera di un panorama, all’interno della sinistra italiana, che sta via via perdendo i propri punti cardinali, sempre più attratto dalle sirene obamiane e antiputiniane, irretito da una retorica antifascista che da inutile sta diventando oltremodo dannosa e confusionaria.