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Vacanze estive

di Valerio Lo Monaco - 07/04/2015

Fonte: Valerio Lo Monaco

    

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La dichiarazione del ministro Giuliano Poletti in merito al tema delle vacanze scolastiche da ridurre per permettere dei corsi di formazione al lavoro è passata quasi inosservata, il commento più pertinente può essere segnalato in quello che ha detto il comico Maurizio Crozza durante la trasmissione Ballarò, e il che è tutto dire. Eppure le parole del ministro bastano, da sole, anche a comprendere in che razza di mondo ci siamo ficcati e come proprio il governo Renzi del quale Poletti fa parte, intende indirizzare la società italiana.

Secondo Poletti, come accennato, «non c’è l’obbligo di fare tre mesi di vacanza» per gli studenti (evidentemente delle scuole medie superiori, e speriamo intendesse almeno solo quelle) e, anzi, ne andrebbe bene «solo uno».  Non solo, uno di questi tre mesi, secondo il ministro, «potrebbe essere passato a fare formazione».

Ora, lasciamo anche da parte l’arroganza di un ministro che si permette di indagare e sentenziare su aspetti prettamente pedagogici e sociali della vita privata degli studenti, con quale criterio e legittimità non è dato sapere, sino ad affermare che di mesi di vacanza ne basterebbe solo uno, ma è evidente che non si possa evitare di ragionare, invece, sull’altro aspetto, cioè sull’idea - mediante precettazione? - di imporre ai ragazzi di passare un mese, tra quelli estivi, a “fare formazione”.

Intanto dovremmo interrogarci sul ruolo della “formazione”, sulla sua bontà a tutti i costi, e a questo punto a tutte le età, persino quelle in cui ragazzi e ragazze sono già ampiamente impegnati nella scoperta dello studio e nella scoperta di sé. Quindi dovremmo interrogarci sul tema stesso della sosta estiva degli studenti, e della sua profonda motivazione. E infine, ovviamente, sull’aspetto prettamente prescrittivo, come indirizzo generale proprio dal punto di vista sociale, che vuole nello sbocco inevitabile al lavoro il futuro di qualunque essere vivente. Destino al quale evidentemente il governo pensa di dover contribuire sin dall’indirizzo in giovane età.

Di passaggio, viene da chiedersi, c’è la questione relativa a un aspetto niente male - visto il governo dal quale proviene tale proposta, cioè quello del Jobs Act… - che riguarda l’inquadramento del giovane in questione il quale, durante l’estate, invece di farsi i fatti suoi andrebbe a fare “formazione”, presumibilmente senza alcun gettone economico in cambio, presso aziende che proprio nel periodo estivo hanno il problema delle sostituzioni dei lavoratori in ferie. Già, il Pil aumenterebbe un tot, vero? E a costo zero, per giunta. Diavolo d’un Poletti…

Supposizioni maligne a parte, torniamo ai temi più importanti. E allora, per iniziare: chi l’ha detto che un ragazzo di 15 o 16 anni, magari senza alcuna idea in mente su cosa fare da grande, acquisirebbe un bagaglio positivo da un mese di formazione estiva obbligatoria?

La cosa è molto più sottile di quanto appaia, e proprio dal punto di vista psicologico e pedagogico. Quegli anni lì, per tutti, sono sì gli anni dello studio, ma sono, e probabilmente in modo ancora più istruttivo, gli anni della scoperta, dell’indagine personale su di sé, sugli altri, sul mondo, e in modo ancora più chiaro, su tutto ciò che non attiene al dovere (di andare a scuola, di studiare) ma al piacere, nel senso più ampio del termine. Sono anni in cui ogni scampolo di tempo libero è indispensabile a fare, consciamente o inconsciamente, tutta quella serie di esperienze e di riflessioni che poi si sedimentano e formano, appunto, la propria personalità, il proprio modo di stare al mondo e di relazionarsi. Sono gli anni delle scoperte, anche in questo caso, nel senso più ampio del termine. Sono gli anni in cui è non solo utile, ma indispensabile anche perdersi, proprio per poter trovare ciò che è negato dai percorsi già segnati, certi, inquadrati: se non ci perdessimo un po’, ogni tanto, non potremmo scoprire nulla di inaspettato. È così anche in una semplice vacanza da adulti. Figuriamoci per dei ragazzi in età evolutiva.

In altre parole, quell’ozio estivo, non è solo un recupero fisico e psichico, ma un vero e proprio otium, alla latina, che è indispensabile per poter scoprire da sé - e vogliamo sottolinearlo ancora: da sé, senza l’ausilio di ulteriori percorsi o esperienze guidate sino anche a essere obbligatorie - tutte le strade che poi ci apparterranno, per sempre o per un tratto della vita. Sono quelle esperienze, sì, formative, che devono però essere percorse in autonomia.

Ecco la parola chiave: autonomia. Esattamente ciò che manca alla nostra società eterodiretta, nella quale anche la cultura, il divertimento, il tempo libero, diviene in realtà irreggimentato, veicolato, promosso e reso possibile, sino a essere obbligato, da cose, istituzioni, creatori di immaginario collettivo e mode che sono al di fuori di noi. Noi che, invece, dovremmo essere dominatori assoluti proprio di quel tempo.

E allora, la direttrice cui questa proposta di Poletti si ascrive è chiara: Gaber cantava “polli da batteria”. Esattamente: qui si vuole prendere i pulcini per insegnargli subito a diventare i polli di domani. Come dire: il tuo futuro sarà quello di uno schiavo, ed è bene che impari da subito a reprimere qualsiasi possibilità di scelta personale.

Ognuno di noi, ci auguriamo, ricorda in quegli anni il tempo indefinito che si apriva a metà giugno, alla fine della scuola. Indefinito proprio perché si trattava (e per fortuna ancora si tratta) di un tempo lungo il giusto per poter essere vissuto senza l’ansia dell’immediato ritorno alla vita di routine. È una ansia che attanaglia tutti gli altri, in età lavorativa, che pur andando in ferie sanno già di dover rientrare, vedono già la fine di quelle due o al massimo tre settimane di vacanza. Che sono il tempo minimo, invece, per decomprimere un anno di sforzi lavorativi: invece non appena si inizia nuovamente a respirare si avverte e si soffre già il momento del ritorno. Da ragazzi era diverso, tre mesi erano tanti, tantissimi. Il necessario per potersi perdere nei bagni di sole, nei pomeriggi infiniti, nelle storie e nelle conquiste estive, nelle passeggiate in bicicletta in pineta. Nel tempo finalmente sospeso in cui tutto era potenzialmente possibile. E qualche cosa da possibile diventava anche reale. Accadeva sul serio. E lasciava scoprire parti di noi che nel susseguirsi dei giorni dei mesi di scuola era invece difficile da far emergere. A settembre capitava anche di avere persino la voglia di tornare a scuola, di incontrare i compagni lasciati tanti mesi addietro. Ciò che mancava era insomma la scadenza dell’imminente ritorno, il che permetteva di concentrarsi sul momento e di goderlo fino in fondo senza altri pensieri.

Quella finestra di spazio, tanto ampia da perderne quasi di vista i confini, quasi come il cielo e il mare, è un aspetto irrinunciabile di crescita. È un aspetto che manca terribilmente anche nella vita degli adulti, perché momenti di sospensione servono a ogni età. Alzi la mano chi non ne sente la mancanza, chi non vorrebbe fermare il treno e scendere, per un po’, per il tempo indefinito il giusto che serve a riordinare le idee, a riscoprire passioni lasciate in disparte e tanto compresse da farle diventare anemiche, atrofizzate. A pensare che forse, sì, un altro modo di vivere, un altro giro di giostra, sarebbe non solo salutare, ma possibile. E invece no, tutti a testa bassa per 330 giorni l’anno attendendo le tre o quattro settimane d’aria, sempre ben compresse dal cielo grigio del rientro imminente. Ma se questo è vero per gli adulti - e lo è - ebbene è soprattutto ai ragazzi che quell’aspetto serve come l’aria che respirano. Commetteremmo un crimine, quasi un sacrilegio, noi adulti, se lasciassimo fare tabula rasa di quelle lunghe vacanze estive degli adolescenti. Per obbligarli ad andare a fare formazione, poi.

Ecco, la proposta di Poletti deve essere rigettata con sdegno e forza, perché è compito proprio delle generazioni più mature, cioè le nostre, salvare e preservare tutto il salvabile e il preservabile delle vite dei ragazzi, futuri adulti di domani.