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Il fenomeno migratorio: considerazioni sull’Altro

di Pietro Gambarotto - 25/08/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Sembra che per gli ultrà delle rispettive consorterie (che si orientano ancora, con qualche distinguo, nelle sempiterne categorie di destra e sinistra), la figura dell'immigrato sia riducibile all'interno di categorie schematiche, opposte ma complementari, incapaci di condurre ad un'immedesimazione e ad una comprensione della complessità dell'altro e quindi strutturalmente impermeabili ad ogni analisi.

In queste righe non si vuole entrare nel merito delle decisioni politiche da attuarsi per regolare il fenomeno migratorio, la complessità delle quali non è riducibile a considerazioni di principio. Urge però che tra la cosiddetta opinione pubblica si inizi ad affrontare queste problematiche superando l’attuale dicotomia che, a grandi linee, potremmo considerare appiattita sulla linea Salvini-Boldrini (dove, più dell’orientamento effettivo dei suddetti, è fondamentale come esso viene recepito tra i sostenitori e gli oppositori degli stessi).

Sembrerebbe che il minimo comune denominatore della maggior parte delle discussioni sul tema migratorio (laddove ancora di discussioni si possa parlare) sia l’incapacità totale, da una parte e dall’altra, di comprendere le ragioni dell’altro (sia esso il migrante o lo stesso interlocutore). Questa deriva si è probabilmente intensificata a causa della tendenza gregaria a cui sembrano destinati i social network, i quali, invece di creare, come auspicato, fertili possibilità di confronto, hanno finito per inasprire le conflittualità e le partigianerie, a causa della tendenza di ogni utente ad attorniarsi di opinioni che consolidano e cristallizzano in facili formule le proprie convinzioni personali (sembra spesso di assistere a veri e propri mantra, dove i commenti insultanti o sarcastici, identici tra loro, si inanellano in catene lunghissime)1. Sembra dunque che per gli ultrà delle rispettive consorterie (che si orientano ancora, con qualche distinguo, nelle sempiterne categorie di destra e sinistra), la figura dell’immigrato sia riducibile, ancor più di quanto sembrasse avvenire qualche tempo fa, all’interno di categorie schematiche, opposte ma complementari, incapaci di condurre ad un’immedesimazione e ad una comprensione della complessità dell’altro e quindi strutturalmente impermeabili ad ogni analisi. A sinistra, ad esempio, un generico sentimento antinazionale, sospettoso verso qualsivoglia rivalutazione della frontiera, porta a proiettare nell’immigrato (in quanto sradicato) il proprio immaginario idealizzato; a destra invece il migrante viene rigettato in quanto straniero invasore, diventando il capro espiatorio di ogni male nazionale (insieme, e non a caso, a un’altra entità totalmente altra, in quanto impalpabile e invisibile, rappresentata dai presunti gruppi di potere occulto, mai inseriti all’interno di una qualsivoglia analisi ma invocati all’interno di vere e proprie giaculatorie). Queste due posizioni, che prescindono totalmente dalla conoscenza effettiva dell’altro e delle dinamiche che l’han portato ad approdare alle nostre coste o, nel caso del proprio interlocutore, ad elaborare un certo tipo di opinione o ad esprimere un certo tipo di reazione, sono le stesse che si trovano compendiate in un libro di Todorov su “La conquista dell’America”, dove l’autore compara le posizioni dell’erudito e filosofo Ginés de Sepùlveda, che scrive un trattato sulle giuste cause delle guerre contro gli indiani, e del domenicano Bartolomé de Las Casas, che difende i diritti dei nativi, idealizzandoli senza mai effettivamente conoscerli, arrivando alla conclusione che “se il pregiudizio di superiorità è indiscutibilmente un ostacolo sulla via della conoscenza, si deve riconoscere che il pregiudizio di eguaglianza rappresenta un ostacolo ancora maggiore, perché porta ad identificare puramente e semplicemente l’altro con il proprio ‘ideale di sé’ (o con il proprio io).” 2 Come a dire che, se da un lato la rivendicazione di una superiorità (per quanto arbitraria) si fonda quantomeno sul riconoscimento di una differenza (per quanto piegata alla propria linea interpretativa), dall’altro lato il diverso è quasi sempre ritratto in una forma idealizzata (e quindi lo straniero è sempre profugo, sempre vittima, sempre innocente), proiettando su di esso, nel nostro caso, il senso di colpa per la propria condizione di privilegiati e utilizzandolo per rimarcare una presunta superiorità  morale nei confronti della parte opposta, ridotta a popolino corrotto e razzista. Questo atteggiamento snobistico sembra esser stato fatto proprio dagli eredi del PCI almeno a partire dalla svolta “morale” di Berlinguer ed è stato poi coltivato narcisisticamente durante l’intero ventennio berlusconiano3. Le due posizioni dunque, anziché essere opposte, sono invece in correlazione essenziale perché utilizzano sempre “l’altro” come prosecuzione delle proprie pretese ideologiche4. Come è stato sottolineato in un bel libro dell’antropologo nostrano Franco La Cecla5,  la xenofobia e la xenofilia sono così, da questo punto di vista, due facce della stessa medaglia, cioè della mancanza di una tensione conoscitiva e di un effettivo approfondimento (che è certamente in un primo momento introdotto dalle naturali pulsioni emotive, di solidarietà o di disagio, che sembrano però oggi l’alfa e l’omega di ogni discussione politica sul tema immigrazione)6 . Tutto questo porta a considerare l’Altro e i problemi (o i vantaggi) a cui porta come un’entità omogenea e, alla fine, immaginaria laddove solo un riorientamento della discussione pubblica potrà permettere di elaborare una strategia di ampio respiro, esulando dalle mere dichiarazioni d’intenti o dalle posizioni di principio.

 

NOTE

           1 A questo proposito (ma prima della nascita dei social network) Jean-Claude Michéa ci ricorda che “non esiste comunità o società, nel senso stretto del termine, se non dove ci è dato di vivere con esseri che non abbiamo scelto noi e per i quali […] non proviamo una particolare simpatia” e ancora, riferendosi al libro “la secessione delle élite” di Christopher Lasch, sostiene che “è invece la tendenza sempre più marcata di queste [le élite] a privilegiare l’organizzazione reticolare, ovvero un contesto esistenziale basato sulla sola dimensione dell’affinità (se non dell’interesse).” Jean-Claude Michéa, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera editrice, Milano, 2004, pag.74

          2 TZVETAN TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro» ,Einaudi, Torino, 1984, p.200

          3 Nonostante Berlusconi e lo schieramento di centrodestra siano stati al governo solo per una parte del citato ventennio, questa denominazione non è per questo meno valida. Difatti questo periodo ha visto un riorientamento della vecchia classe dirigente del defunto PCI utilizzando come perno proprio la figura di Berlusconi, dipinto come l’emblema della corruzione italiana alla quale contrapporre uno schieramento di onesti (onesti, chiaro, solo a parole).

4 Così, ad esempio, nell’ambito degli ambienti dei centri sociali, sembra che l’emarginato che viene accolto sia spesso la proiezione di un’emarginazione e uno sradicamento che vengono sentiti come propri e che han spesso poco a che fare con l’effettiva volontà dell’accolto di essere integrato o meno nella società in cui vive

           5  FRANCO LA CECLA, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Editori Laterza, Bari, 2009

           6 Nello stesso libro, analizzando i meccanismi del malinteso,  La Cecla mette in luce come spesso i nuovi arrivati erano riusciti, con l’ausilio dienclaves urbane (diverse quindi dalle lontane strutture ghettizzate di alcune banlieue parigine), ad elaborare dei “paraventi culturali” che permettevano di rapportarsi in modo mediato con gli autoctoni evitando, da una parte, un’assimilazione della propria cultura a quella degli ospitanti e creando, dall’altra, un filtro attraverso il quale presentare, in modo volutamente artefatto, la propria cultura di appartenenza, fondando così i presupposti di una convivenza. Oggi, anche a causa della “vittoria della logica geometrico-egualitaria che concepisce lo spazio come un’entità omogenea da distribuire tra i cittadini” (Ibidem, p. 53) sembra che questa capacità delle città europee si stia perdendo. Scrive ad esempio Cohn Bendit: “lo straniero ha perso il proprio carattere esotico e straordinario, ma è anche diventato onnipresente. […] la popolazione vive per la prima volta in <<maniera reale>> l’esistenza effettiva degli stranieri e di modi di vita, abitudini e valori diversi.” (Cohn-Bendit-Schimd, 1993, p.28 in Ibidem, pp. 55-56). La causa di alcune manifestazioni violente, ad esempio, classificate sbrigativamente a sinistra come razziste, sembra essere l’incapacità politica e urbanistica, nell’anonimato di molti quartieri urbani (benestanti o meno che siano è poco importante, e in questo caso i fatti di Quinto e di Roma di poco tempo fa sono esemplari), di creare una separazione dove far decantare le differenze ponendo così le basi di una possibile relazione tra le diverse parti sociali.  “L’intolleranza” così “è frutto della paura di perdere un’identità sicura” (Ibidem, p.56).