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Cambiano i colori ma l’odio contro i profughi resta sempre lo stesso

di Pietrangelo Buttafuoco - 07/09/2015

Fonte: Il Fatto Quotidiano


Il Tricolore sventolato contro “i clandestini”ricorda gli sputi e gli assalti ai profughi istriani accusati di fascismo

  

Puzza più un tinello lindo che un centro d’accoglienza. È il tanfo dell’odio. Chiamare clandestini i profughi per poterli prendere a calci e magari scorreggiare cinismo davanti alla foto del bimbo morto è un già visto dell’odio. Diocenescampi ci vanno col tricolore in mano a gridare “fuori i clandestini”. Lo fanno in nome dell’identità e reclamano – al limite, purché ci sia un limite – di far entrare solo i cristiani e non altri per non inquinare la civiltà.
Una scena già vissuta, questa. Nel 1947, in Italia, i profughi in fuga dalla morte non sono “clandestini”, bensì “fascisti”. Sono, infatti, gli italiani a sbarrare il passo ad altri italiani che scappano dalla Jugoslavia di Tito. Assurdo fuggire dal paradiso socialista, no? E’ il 18 febbraio: il treno che trasporta gli esuli dalmati scampati alle foibe arriva alla stazione di Bologna e viene preso d’assalto. I disperati a bordo, disidratati, osservano la folla minacciosa versare sui binari il latte caldo portato dalla Croce Rossa.
Solo i sassi e gli sputi, scagliati contro il convoglio, possono dissetarli. Stessa sorte tocca a una nave di povericristi dell’esodo giuliano-dalmata. Non può attraccare al porto d’Ancona. Bandiera rossa in pugno si reclama la difesa dell’identità: la civiltà non inquinabile della democrazia.
L’odio, nella storia, ama ritorcersi nel contrario del suo esatto contrario. Ed è sempre un già visto. Il tricolore e la falce & martello sono intercambiabili. Lo slogan “prima gli italiani”, oggi, rischia di diventare parente del “no pasaran”. Il cinismo del Pci può replicarsi nel veleno populista se, Diocenescampi, dal ruminare slogan si passi poi ai fatti sempre più sbrigativi dell’altolà.
Non è più sufficiente ricordare di essere stati noi emigranti per rispecchiarsi nei migranti, è urgente specchiarsi nell’odio il cui tanfo ci rende parenti.
L’odio vive nelle trasfigurazioni. La sinistra – pur figlia di quella mattina alla stazione di Bologna – è diventata buonista. La destra – il cui difetto è l’incapacitante progetto politico – è diventata ideologica. Se non ci sono più i comunisti a fare dei profughi dei cani a cui negare un sorso d’acqua, ci sono già pronti tanti bravi signor Veneranda a latrare dai loro tinelli lindi contro la nuova classe sociale fattasi spettro e aggirantesi tra le macerie dell’Europa. Non più il proletariato ma il profugo.
La destra, invece che intestarsi l’odio, dovrebbe denunciare l’origine di questo esodo: avere assecondato – con la mitologia liberale occidentalista – la sciagurata guerra in Siria, appoggiandosi ai ribelli presto svelatesi fondamentalisti tagliagole. O la cieca fede nella truffa criminale altrimenti nota come “primavera araba” che nello scannare Gheddafi, in Libia, con le le bombe demografiche ha moltiplicato gli avamposti dell’Isis, speculari – in tema d’odio – a chi la guerra la vuole viva e aspra sempre per dominare nel caos neo-conservatore la disperazione di tutti: quella di chi scappa e quella di chi non sa più come accogliere.
Perché poi una differenza tra quei profughi italiani e i profughi di oggi c’è: l’Italia del 1947 una sua sovranità, pur tra le macerie della guerra, ce l’aveva. Quella di oggi no. Solo una cosa rischia di restare uguale, l’odio: italiani con la bandiera rossa, ieri, contro i profughi; italiani col tricolore, oggi, contro i profughi. Un già visto. In un mutare di colori.