Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Libano: la guerra di Washington?

Libano: la guerra di Washington?

di Seymour Hersh - 08/09/2006


Il testo integrale dell'ultima inchiesta del premio Pulitzer Seymour Hersh sul Libano. Hersh fa luce sul recente conflitto che ha ucciso migliaia di persone e ha messo in ginocchio un paese intero. Che sia stato la prova generale dell'attacco Usa all'Iran?
(Seymour Hersh, uno dei più grandi giornalisti d’inchiesta degli Stati Uniti d’America, lavora oggi per il settimanale 'The New Yorker', con il quale ha vinto il premio Pulitzer. Hersh nel '68 rivelò il massacro di My Lay in Vietnam, e per primo ha documentato le torture in Iraq.
Seymour Hersh è autore della
prefazione a 'Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU', Nuovi Mondi Media, 2006
)

Subito dopo che Hezbollah, il 12 luglio scorso, ha rapito due soldati israeliani, innescando l’offensiva aerea israeliana sul territorio libanese nonché una guerra su larga scala, l’amministrazione Bush è rimasta curiosamente passiva. “È giunta l’ora di fare chiarezza”, ha affermato George Bush il 16 luglio al summit del G8 a San Pietroburgo. “Ora sappiamo con certezza perché non c’è pace in Medioriente”. Bush ha definito le relazioni tra Hezbollah e i suoi sostenitori Iran e Siria come una delle “cause fondamentali di instabilità”, aggiungendo come la fine delle ostilità dipendesse da questi paesi. Due giorni più tardi, nonostante le sollecitazioni di diversi governi affinché gli Stati Uniti assumessero un ruolo decisivo per il cessate il fuoco, il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha dichiarato che esso ci sarebbe stato quando “le condizioni fossero state propizie”.

L’amministrazione Bush, tuttavia, è stata attivamente coinvolta nel pianificare le ritorsioni di Israele. Alcuni ex diplomatici dell’intelligence Usa e altri in servizio attivo mi hanno detto che il presidente Bush e il suo vice Dick Cheney erano convinti di come una massiccia offensiva aerea israeliana contro i depositi missilistici sotterranei e le basi del movimento sciita in Libano avrebbero potuto rasserenare Israele e, inoltre, costituire la premessa di un attacco preventivo degli Usa ai siti nucleari iraniani – alcuni dei quali si trovano a una discreta profondità dal suolo.

Gli esperti militari e di intelligence israeliani con cui ho parlato hanno sottolineato il fatto che gli immediati problemi di sicurezza del loro paese costituivano una ragione sufficiente per l’attacco a Hezbollah, a prescindere da quello che l’amministrazione Bush aveva in mente. Shabtai Shavit, consigliere della Knesset per la sicurezza nazionale, dal 1989 al 1996 responsabile del Mossad – il servizio segreto israeliano all’estero – mi ha confessato: “Noi facciamo i nostri interessi; se capita che questi coincidano con gli obiettivi degli Stati Uniti, si tratta solo di un aspetto del rapporto tra due amici. Hezbollah è armato fino ai denti e dispone delle tecnologie di guerriglia più avanzate. Era solo una questione di tempo”.

Hezbollah è visto dagli israeliani come una profonda minaccia; è un’organizzazione terroristica che opera sul confine con Israele, è dotata di un arsenale militare. Dal 2000, dalla fine dell’occupazione israeliana del Libano meridionale, grazie all’aiuto di Iran e Siria, “il Partito di Dio” è diventato sempre più potente. Il leader di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, ha dichiarato più volte di ritenere Israele uno “Stato illegittimo”. L’intelligence israeliana ritiene che allo scoppio della guerra il movimento sciita disponeva di circa 500 razzi a media gittata e di qualche decina a lunga gittata (200 chilometri) in grado di raggiungere Tel Aviv – è stato uno di questi razzi ad aver raggiunto Haifa il giorno dopo la cattura dei due militari israeliani. Hezbollah è dotato anche di 12mila razzi a breve gittata: da quando è iniziato il conflitto, più di tremila di questi ultimi sono stati lanciati contro Israele.

Secondo un esperto di questioni mediorientali informato sugli ultimi piani dei governi statunitense e israeliano, Israele aveva un piano per attaccare Hezbollah – di cui gli ufficiali dell’amministrazione Bush erano al corrente – ben prima dei rapimenti del 12 luglio. “Non voglio dire che gli israeliani avessero pronta una trappola per Hezbollah e che Hezbollah vi ci sia cascato”, mi ha detto, “ma la Casa Bianca aveva la sensazione che prima o poi gli israeliani avrebbero agito”. Lo stesso esperto mi ha riferito che Washington aveva diversi motivi per appoggiare l’offensiva israeliana. All’interno del Dipartimento di stato Usa, l’operazione era vista come per rinvigorire il governo di Beirut e fargli recuperare il controllo del sud del paese, in mano alle milizie sciite. “La Casa Bianca voleva assolutamente disarmare Hezbollah dei propri missili perché, nel caso di un attacco alle strutture nucleari iraniane, era necessario sbarazzarsi delle armi che il movimento avrebbe potuto usare per eventuali ritorsioni contro Israele”. Bush voleva entrambe le cose. Anzitutto, un’azione frontale contro Teheran (alla luce della sua appartenenza al cosiddetto Asse del Male); poi, nell’ambito del progetto di democratizzazione bushiano – in cui il Libano sarebbe dovuto diventare uno dei ‘gioelli della corona’ della democrazia mediorientale –, contro Hezbollah.

L’amministrazione Bush, però, ha sempre negato di aver saputo dei piani di guerra di Israele. La Casa Bianca si è rifiutata di rispondere a una dettagliata lista di domande. Successivamente a una richiesta ufficiale, un portavoce del National Security Council ha dichiarato: “Prima dell’attacco di Hezbollah a Israele, il governo israeliano non ha dato ad alcun ufficiale di Washington motivo di credere che stesse per attaccare. Persino dopo il 12 luglio non sapevamo cosa Israele avesse in mente”.

Sono decenni che gli Stati Uniti e Israele condividono informazioni riservate e cooperano militarmente; tuttavia, secondo un ex funzionario dell’intelligence, di fronte alle pressioni della Casa Bianca affinché si sviluppasse un decisivo piano di guerra contro gli impianti nucleari iraniani, proprio all’inizio della scorsa primavera alcuni comandanti dell’aviazione militare Usa hanno iniziato a confrontarsi con i loro colleghi israeliani.

“Il grande interrogativo per la nostra areonautica militare era come riuscire a colpire in Iran una serie di bersagli fortificati con successo”, ha detto l’ex funzionario. “Chi è il miglior alleato dell’aviazione Usa nei suoi piani strategici? Il Congo? No di certo, è Israele. Tutti sanno che gli ingegneri iraniani comunicano a Hezbollah preziose informazioni sui tunnel e sui depositi di armi sotterranei. Così, i responsabili dell’aviazione Usa si sono presentati agli israeliani con nuove idee, dicendo: “Concentriamoci sui bombardamenti e condividiamo ciò che noi abbiamo sull’Iran e ciò che voi avete sul Libano”. Di tali colloqui, mi ha riferito il mio interlocutore, sono venuti a conoscenza i capi di stato maggiore delle forze armate Usa e il Segretario della difesa Donald Rumsfeld”.

“Gli israeliani ci avevano detto che sarebbe stata una guerra dai costi ridotti e dai grandi benefici”, mi ha detto un consulente del governo americano molto vicino a Israele. “Perché opporsi? Saremo in grado di bombardare missili, tunnel e bunker. Servirà come dimostrazione di forza per l’Iran”. Un consulente del Pentagono ha detto che la Casa Bianca “da tempo era alla ricerca di una ragione per un attacco preventivo a Hezbollah. Un ridimensionamento di Hezbollah era tra i nostri obiettivi”, ha fatto notare, “e ora c’è qualcuno che ci sta pensando per noi”. (Al momento in cui questo articolo sarà dato alle stampe, il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrà emanato una risoluzione per il cessate il fuoco – sebbene non sia ancora chiaro se questo potrà cambiare o meno lo stato delle cose).

Secondo Richard Armitage, sottosegretario di stato della prima amministrazione Bush – colui che nel 2002 disse che Hezbollah probabilmente costituiva il top dei top del terrorismo internazionale – la campagna israeliana in Libano, con tutte le difficoltà impreviste e le diffuse critiche che si è portata con sé, alla fine potrebbe servire come avvertimento per la Casa Bianca in merito ai suoi piani sull’Iran. “Se la forza militare più potente della regione non riesce a pacificare un paese come il Libano, che ha una popolazione di soli quattro milioni di abitanti, è chiaro che servirà riflettere prima di replicare un’iniziativa simile per l’Iran, un paese che vanta una forte capacità strategica e una popolazione di 70 milioni di abitanti”. Armitage ha aggiunto: “L’unico risultato che l’attacco israeliano ha ottenuto è stato unire le comunità libanesi contro Israele”.

Diversi ufficiali in pensione e in servizio attivo che si occupano di questioni mediorientali mi hanno detto che Israele ha visto nel rapimento dei suoi militari l’occasione ideale per dare inizio alla campagna militare contro Hezbollah. “Hezbollah, puntuale come un orologio, ogni mese o due lanciava piccole provocazioni”, fa notare il consulente del governo americano vicino a Israele. Un paio di settimane prima, alla fine di giugno, alcuni membri di Hamas avevano scavato un tunnel sotto la barriera che separa Gaza da Israele e avevano catturato un soldato israeliano. Hamas, inoltre, aveva sparato diversi razzi verso le città israeliane vicine al confine con Gaza. In risposta, Israele aveva avviato un’intensiva campagna di bombardamenti e rioccupato alcune parti di Gaza.

Il consulente del Pentagono ha fatto osservare sul confine israelo-libanese da tempo si verificano scaramucce, i entrambe le direzioni, tra Israele ed Hezbollah. “Si sparavano a vicenda”, ha detto. “Ognuna delle due parti avrebbe potuto prendere uno qualsiasi di questi episodi come pretesto per dire: ‘Dobbiamo muovere guerra a questa gente’, dato che di fatto la guerra era già iniziata”.

David Siegel, il portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, ha detto che l’aviazione israeliana non era in cerca di un pretesto per attaccare Hezbollah: “La campagna non era prevista. Siamo stati costretti”. C’erano sufficienti motivi per credere che Hezbollah “stava per attaccare”, ha detto Siegel. “Hezbollah colpiva ogni due o tre mesi”, ma il rapimento dei soldati ha alzato la posta.

Intervistati, diversi accademici, giornalisti, ex militari e funzionari dell’intelligence israeliani si sono trovati d’accordo: è stata la leadership israeliana, non Washington, a decidere di scendere in guerra contro Hezbollah. I sondaggi d’opinione hanno mostrato come questa scelta aveva ottenuto il consenso della stragrande maggioranza degli israeliani. “Magari i neocon di Washington avranno apprezzato, ma di certo Israele non ha avuto bisogno di grandi sollecitazioni, in quanto da tempo voleva sbarazzarsi di Hezbollah”, ha detto Yossi Melman, un giornalista di Haaretz autore di diversi libri sull’intelligence israeliana. “Provocando Israele, Hezbollah ha fornito l’occasione”.

“Ci trovavamo di fronte a un dilemma”, ha detto un ufficiale israeliano. Il primo ministro Ehud Olmert “ha dovuto decidere tra una reazione a livello locale – come facciamo sempre – e una di portata più vasta, cioè colpire Hezbollah una volta per tutte”. Olmert ha preso questa decisione”, mi ha riferito il mio interlocutore, “solo dopo che erano fallite una serie di operazioni di salvataggio dei soldati rapiti”.

Tuttavia, il consulente del governo americano vicino a Israele mi ha detto che, secondo il punto vista israeliano, la decisione di un’azione risolutiva era diventata inevitabile già alcune settimane prima, quando i servizi segreti militari israeliani del gruppo Unit 8200 erano riusciti a intercettare alcune comunicazioni dai toni piuttosto minacciosi coinvolgenti Hamas, Hezbollah e Khaled Meshal, il leader del movimento palestinese attualmente residente a Damasco”.

Una di queste comunicazioni riguardava un incontro della leadership politica e militare di Hamas tenutosi alla fine dello scorso maggio, a cui Meshal avrebbe partecipato via telefono. “Hamas credeva che la chiamata da Damasco fosse in codice, ma Israele è riuscito a decifrarla”, mi ha riferito il consulente. Hamas circa un anno prima della vittoria elettorale dello scorso gennaio aveva posto fine alle proprie attività terroristiche. Nella conversazione intercettata, mi ha detto il mio interlocutore, il leader del movimento aveva sostenuto che l’organizzazione “non aveva beneficiato della condotta tenuta dopo il successo elettorale, e stava perdendo di credibilità di fronte ai palestinesi”. La conclusione, ha aggiunto il consulente, era stata la seguente: “Torniamo agli attentati e cerchiamo di strappare qualche concessione al governo israeliano”.

Sempre secondo il consulente del governo americano, Stati Uniti e Israele si erano accordati per “una risposta su vasta scala” se la leadership avesse fatto quanto annunciato e se Nasrallah avesse fornito il suo sostegno. Nelle settimane successive, quando Hamas ha iniziato a scavare il tunnel verso Israele, i servizi segreti “hanno intercettato conversazioni tra Hamas, la Siria ed Hezbollah, in cui veniva avanzata l’idea secondo cui Hezbollah si adoperasse per ‘scaldare’ il nord”. In una intercettazione, ha proseguito il mio interlocutore, Nasrallah aveva fatto notare che Olmert e il ministro della difesa israeliano Amir Peretz “sembravano deboli” rispetto ai loro predecessori Sharon e Barak, entrambi molto esperti dal punto di vista militare, e aveva previsto che “la reazione di Israele sarebbe stata limitata al piano locale, come consuetudine”.

Secondo la mia fonte, all’inizio dell’estate, prima dei rapimenti di Hezbollah, diversi ufficiali israeliani si sono recati a Washington per “ottenere il via libera all’offensiva militare e capire fino a che punto gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a sostenerla. Gli israeliani sono partiti da Cheney. Volevano essere certi che del suo sostegno e di quello dell’ufficio affari meridionali del National Security Council”, ha aggiunto il consulente. Successivamente, ha proseguito, “convincere Bush non è stato difficile, e anche la Rice era dell’idea”.

Il piano originario ideato dagli israeliani, sostiene l’esperto di questioni mediorientali vicino ai governi israeliano e statunitense, prevedeva l’avvio di un’ingente campagna di bombardamenti in risposta alla provocazione di Hezbollah. Gli israeliani, afferma l’ex funzionario dell’intelligence, erano certi che colpendo le infrastrutture libanesi (tra cui le autostrade, i depositi di carburante e anche la pista per i voli civili del principale aeroporto di Beirut) si sarebbe indotta la consistente popolazione cristiana e sunnita del paese a ribellarsi all’organizzazione sciita. Nell’attacco aereo, tra gli altri, l’aeroporto, le strade e i ponti sono stati effettivamente bersagliati. L’aviazione militare israeliana aveva compiuto quasi novemila missioni aeree alla fine di luglio (Secondo il portavoce israeliano David Siegel, Israele avrebbe bombardato esclusivamente obiettivi legati in un qualche modo a Hezbollah: lo scopo era impedire il trasporto di armi). Il piano israeliano, secondo l’ex funzionario dell’intelligence, costituiva “l’immagine speculare di quello che gli Usa avevano pensato per l’Iran” (L’iniziale proposta dell’aviazione statunitense per un attacco aereo volto a distruggere la capacità nucleare dell’Iran, e inclusivo di intensi bombardamenti alle infrastrutture civili sul territorio iraniano, avrebbe però incontrato l’opposizione dei comandi dell’esercito, della marina e del corpo dei marines, certi che il piano non avrebbe funzionato e avrebbe richiesto il ricorso alle forze di terra – com’è avvenuto con Hezbollah).

Uzi Arad, per oltre vent’anni a servizio del Mossad, mi ha riferito che per quanto gli risulta le comunicazioni tra i governi statunitense e israeliano sono stati quelli abituali: “In nessuno dei miei incontri e colloqui con gli ufficiali del governo ho mai sentito accennare ad azioni precoordinate con gli Stati Uniti”. Un fatto però lo ha colpito: la rapidità con cui il governo Olmert è andato in guerra. “Giuro che non ho mai visto prendere una decisione del genere con tanta velocità. Di solito prima ci sono lunghe fasi di analisi”.

Lo stratega chiave dell’attacco al Libano è stato il generale Dan Halutz, il capo di stato maggiore delle forze armate, il quale nel corso della sua carriera nell’aeronautica militare israeliana ha lavorato ad un’eventuale attacco contro l’Iran. Né Olmert, ex sindaco di Gerusalemme, né Peretz, ex dirigente sindacale, potevano vantare una tale esperienza e competenza specifiche.

Negli incontri iniziali con ufficiali statunitensi, mi hanno raccontato l’esperto di Medioriente e il consulente del governo, gli israeliani hanno più volte fatto riferimento alla guerra in Kosovo come esempio di ciò che Israele aveva in mente. In quel conflitto le forze Nato, guidate dal generale americano Wesley Clark, per 78 giorni in Serbia e in Kosovo non solo avevano colpito obiettivi militari, ma anche gallerie, ponti e strade, prima di far sì che le truppe serbe si ritirassero dal Kosovo. “Israele ha studiato la guerra in Kosovo come un modello da seguire”, mi ha detto il consulente del governo statunitense. “Gli israeliani hanno detto a Condoleezza Rice: ‘Voi avete fatto tutto in settanta giorni, a noi ne serviranno la metà’”.

Ovviamente, esistono notevoli differenze tra il Libano e il Kosovo. Clark, ritiratosi dalle forze armate nel 2002 e nel 2004 candidato senza successo alla Casa Bianca per i democratici, ha negato analogie tra i due casi: “Se è vero che Israele per l’offensiva in Libano si è ispirato all’approccio della campagna in Kosovo, significa che non ne ha colto il senso. Noi abbiamo fatto ricorso all’uso della forza per raggiungere un obiettivo diplomatico – non per uccidere”. In suo libro del 2001, Waging Modern War, Clark ricordava che era stata la possibilità di un’invasione di terra a costringere i serbi a ritirarsi. E a me ha dichiarato: “Secondo la mia esperienza, le campagne aeree si conducono con l’intenzione e la capacità di completare l’opera con operazioni sul suolo”.

Il Kosovo è stato citato da ufficiali e giornalisti israeliani sin dall’inizio della guerra. Il 6 agosto il primo ministro Olmert, rispondendo alle condanne europee per le uccisioni dei civili libanesi, ha dichiarato stizzito: “Possibile che l’Europa trovi il diritto di fare la predica a Israele? Proprio loro che in Kosovo hanno ucciso diecimila civili. Diecimila! E senza mai essere stati attaccati da un solo razzo. Non sto dicendo che l’intervento in Kosovo sia stato un errore. Ma, per cortesia, niente lezioni su come si trattano i civili”. (Human Rights Watch sostiene che i civili uccisi a causa dei bombardamenti Nato in Kosovo sono stati 500, secondo il governo iugoslavo sono stati tra i 1.200 e i 5.000).

Secondo diversi funzionari in pensione in servizio attivo, Cheney e il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Elliot Abrams (il National Security Control per quest’ultimo ha però smentito) hanno sostenuto il piano israeliano, entrambi certi che Israele avrebbe dovuto muoversi tempestivamente contro Hezbollah. Un ex funzionario dell’intelligence ha affermato: “Abbiamo detto agli israeliani: ‘Ragazzi, se volete entrare in azione, noi vi diamo appoggio completo. Però pensiamo sia meglio intervenire subito – più aspettate e meno tempo avremo per valutare e perfezionare i nostri piani sull’Iran prima che scada il mandato di Bush’”. Il pensiero di Cheney, ha riferito l’ex funzionario dell’intelligence, era questo: “Come sarebbe se Israele completasse con successo la prima parte del piano? Sarebbe grandioso: decideremmo cosa fare in Iran guardando quello che fanno gli israeliani in Libano”.

Il consulente del Pentagono mi ha confessato che la Casa Bianca sta gestendo in modo grossolano l’intelligence su Iran e su Hezbollah, similarmente a quanto fece nel 2002 e nel 2003, quando accusò l’Iraq di possedere armi di distruzione di massa. “Il malcontento oggi nei servizi segreti è che le informazioni importanti vengono, su pressione della Casa Bianca, inviate direttamente agli alti ranghi senza essere prima opportunamente analizzate”, ha commentato il mio interlocutore. “È una politica assurda, nonché una violazione di tutti i vincoli imposti dalla National security agency. Ma se ti opponi sei fuori”. “Tutto ciò dipende per lo più da Cheney”.

L’obiettivo di lungo termine dell’amministrazione Bush era sostenere la creazione di una coalizione di paesi arabi sunniti – Arabia Saudita, Giordania e Egitto – che avrebbe a sua volta aiutato Stati Uniti e Europa nell’esercitare pressioni sui mullah sciiti che hanno in mano l’Iran. Il consulente vicino a Israele, tuttavia, afferma che “la condizione attraverso la quale un tale progetto potesse compiersi era che Israele sconfiggesse Hezbollah, di certo non l’opposto”. Alcuni funzionari dello staff di Cheney e del National Security Council dopo alcuni colloqui privati, si erano convinti che i governi di quei paesi avrebbero scelto di moderare le critiche a Israele e avrebbero accusato Hezbollah di aver provocato la crisi che ha condotto alla guerra. Sebbene inizialmente fosse andata proprio così, a seguito delle manifestazioni pubbliche tenutesi in questi paesi contro l’attacco israeliano, le posizioni sono cambiate. La Casa Bianca è rimasta piuttosto delusa quando alla fine di luglio il principe Saud al Faisal, il ministro degli esteri saudita, in visita a Washington ha chiesto a Bush di intervenire immediatamente per porre fine al conflitto. Il Washington Post ha scritto che il presidente Usa sperava di poter sugli stati arabi moderati “per far pressione su Siria e Iran affinché tornassero a controllare Hezbollah, ma i sauditi… sembravano aver assunto una posizione che contraddiceva questa iniziativa”.

La sorprendente resistenza di Hezbollah e la sua capacità di continuare a lanciare razzi a dispetto dei costanti bombardamenti israeliani, secondo l’esperto di Medio Oriente, “hanno rappresentato un grave ostacolo per coloro che, alla Casa Bianca, vorrebbero intervenire con la forza contro l’Iran. Delusi sono rimasti anche coloro che pensavano che la massiccia risposta israeliana avrebbe creato in Iran divisioni interne e persino una rivolta”.

Ciononostante, ha riferito l’ex funzionario dell’intelligence, alcuni ufficiali al consiglio dei capi di stato maggiore Usa rimangono profondamente convinti che l’amministrazione Bush alla fine giudicherà la campagna aerea israeliana molto più positivamente di quanto in realtà dovrebbe. “È impensabile che Rumsfeld e Cheney possano trarre le giuste conclusioni da quanto accaduto”, mi ha confessato. “Quando le acque si saranno calmate, dichiareranno che tutto sarà stato un successo e cercheranno di trarne un sostegno per il loro piano di attacco all’Iran”. Alla Casa Bianca in effetti, soprattutto all’interno dello staff del vicepresidente, in diversi sono dell’idea che l’iniziativa israeliana contro Hezbollah debba essere portata avanti. Tuttavia, afferma il consulente del governo statunitense, nell’amministrazione Bush sono presenti alcuni strateghi che credono il prezzo pagato dal popolo libanese sia stato troppo alto, gli stessi che “stanno dicendo a Israele di fermare gli attacchi alle infrastrutture”.

Analoghe divisioni stanno venendo alla luce in Israele. David Siegel, il portavoce di Israele, sostiene che i leader del suo paese sono convinti che la guerra aerea sia stata efficace e abbia distrutto più del 70 per cento della capacità di Hezbollah di lanciare missili a media e lunga gittata. “Il problema rimane quello dei missili a breve gittata, che non necessitano di dispositivi di lancio e possono essere sparati anche da aree civili e dalle abitazioni”, ha dichiarato Siegel. “L’unica via per ovviare a ciò sono le incursioni terrestri – Israele vi si preparerà se la diplomazia dovesse fallire”. Durante la prima settimana di agosto, tuttavia, si è capito che Israele temeva per l’andamento della guerra. Sorprendentemente, a capo delle operazioni è stato posto il generale Moshe Kaplinsky – sostituto di Halutz –, che ha rimpiazzato Udi Adam. Israele temeva che Nasrallah potesse rilanciare sparando missili su Tel Aviv. Il consulente mi ha riferito: “Si sta discutendo sui danni che Israele dovrebbe infliggere per prevenire una simile escalation”. “Se Nasrallah colpisce Tel Aviv, cosa dovrebbe fare Israele? Il suo scopo è impedire nuovi attacchi, minacciando il leader sciita di distruggere il suo paese e ricordando al mondo arabo che Israele potrebbe farlo retrocedere a vent’anni fa. Non giochiamo più con le stesse regole”.

Un funzionario europeo dei servizi segreti mi ha detto che “gli israeliani sono caduti in una trappola psicologica. Finora hanno sempre creduto di poter risolvere i propri problemi con la forza. Ora, con gli attentatori suicidi islamici, lo scenario è cambiato, e hanno bisogno di risposte diverse. Come è possibile spaventare gente che ama il martirio?”. Le difficoltà nell’eliminare Hezbollah, ha proseguito il funzionario, è che esso vanta profondi legami con le comunità sciite del Libano del sud, della valle della Bekaa e dei quartieri meridionali di Beirut, dove l’organizzazione gestisce scuole, ospedali, una radio ed enti benefici vari.

Uno stratega militare americano mi ha riferito: “Ci sono diversi punti vulnerabili nella regione. Abbiamo analizzato gli effetti di un eventuale attacco di Hezbollah o dell’Iran contro il regime saudita e contro le infrastrutture petrolifere”. Al Pentagono sono in agitazione, ha aggiunto, per i paesi produttori di petrolio a nord dello stretto di Hormuz. “Dobbiamo prevedere le conseguenze indesiderate. Come reagiremo se vedremo schizzare il greggio a cento dollari al barile? È incredibile come circoli questa assurdità secondo cui tutto si può risolvere per via aerea, anche quando stai lottando contro un nemico che non ha un esercito regolare e che è molto radicato sul territorio. Purtroppo, i politici non considerano mai le possibilità sfavorevoli: vogliono solo buone notizie”.

Ci sono indizi che fanno pensare che l’Iran si aspettasse questa guerra contro Hezbollah. Vali Nasr, un profondo conoscitore dell’islam sciita e dell’Iran che lavora al Council for foreign relations ed è docente alla scuola superiore della marina statunitense di Monterey, in California, mi ha dato la sua opinione. “Ogni mossa statunitense contro Hezbollah è vista dagli iraniani come un’azione contro di loro. L’Iran, così, ha cominciato a prepararsi per la resa dei conti garantendo al movimento libanese armi sempre più sofisticate – quali i missili antinave e anticarro – e sta addestrando i suoi soldati a usarle. Hezbollah attualmente sta in effetti sperimentando le nuove armi fornite da Teheran. L’Iran sente la pressione degli Usa volta a emarginarlo come forza regionale, e per questo ha fomentato le violenze”.

Nasr, cittadino statunitense di origini iraniane, ultimamente ha pubblicato una ricerca sulla divisione tra musulmani sunniti e musulmani sciiti intitolata “La rinascita sciita”. Egli ritiene che i politici israeliani pensano che l’obiettivo ultimo di Washington sia far sì che una forza internazionale svolga un ruolo cuscinetto – per separare fisicamente la Siria dal Libano nell’ottica del disarmo di Hezbollah, che si rifornisce grazie al canale che passa proprio per la Siria. “Ma non è la via militare che può aiutare a raggiungere i risultati politici sperati”, ha commentato Nasr. La popolarità del presidente Mahmoud Ahmadinejad, grazie alle sue bordate contro lo stato israeliano, è massima in Iran. “Se gli Usa dovessero attaccare le strutture nucleari iraniane”, sostiene Nasr, “si rischierebbe di fare di Ahmadinejad un secondo Nasrallah, la rock star delle piazze arabe”.

Donald Rumsfeld, uno degli esponenti più influenti dell’amministrazione Bush – e con meno peli sulla lingua – molto poco si è fatto sentire sulla crisi in Libano. Il suo relativo silenzio, rispetto al tono bellicoso che aveva tenuto per la fase precedente alla guerra in Iraq, ha dato vita a Washington a qualche discussione.

Alcuni funzionari dell’intelligence in pensione e in servizio attivo che ho intervistato per questo articolo credono che Rumsfeld sia in disaccordo con Bush e Cheney in merito al ruolo degli Stati Uniti nella guerra tra Israele ed Hezbollah. Il consulente del governo Usa vicino a Israele ha affermato che “sembra proprio che Rumsfeld non creda troppo nella guerra. Dato che la potenza aerea e le forze speciali bene avevano operato in Afghanistan, Rumsfeld ha tentato di replicare l’esperienza in Iraq”, ha detto il mio interlocutore. “L’idea era la stessa, ma non ha funzionato. In merito alla crisi in Libano, Rumsfeld pensava che Hezbollah fosse troppo radicato sul territorio, e che l’offensiva di Israele non avrebbe dato buoni frutti. Rispetto alla sua permanenza nell’amministrazione, l’ultima cosa che Rumsfeld desidera è incrementare i pericoli per le truppe statunitensi in Iraq”.

Un diplomatico occidentale mi ha detto di aver avuto la netta sensazione che Rumsfeld non conoscesse al meglio i piani di Israele. “È arrabbiato e preoccupato per le sue truppe” in Iraq, ha detto il diplomatico. Rumsfeld era in carica alla Casa Bianca durante l’ultimo anno di guerra in Vietnam, da cui gli Usa si sono ritirati nel 1975: ora, “non vuole assistere a esiti analoghi in Iraq”. Il timore di Rumsfeld è che un eventuale allargamento della guerra all’Iran possa esporre i soldati americani in Iraq a maggiori rischi di attentati da parte delle milizie sciite filoiraniane.

Nel corso di un’udienza della commissione forze armate del senato Usa che si è svolta il 3 agosto, Rumsfeld ha mostrato tutti i propri dubbi sulle implicazioni della guerra in Libano per le truppe americane in Iraq. Interpellato sulla possibilità che l’amministrazione considerasse l’impatto di questa crisi sull’Iraq, Rumsfeld ha sostenuto di aver notato, durante i suoi colloqui con Bush e Condoleezza Rice, “un desiderio di non veder esposto il nostro paese, i nostri interessi e le nostre forze a rischi maggiori per via di ciò che sta accadendo in Medio Oriente… Esiste una moltitudine di rischi a cui possiamo andare incontro in quell’area, la situazione è delicata e difficile”.

Ma il consulente del Pentagono ha smentito le voci di contrasti in seno all’amministrazione, dichiarando semplicemente: “Rummy è nella squadra. Sarebbe felicissimo di vedere Hezbollah ridimensionato, ma allo stesso tempo crede che Israele dovrebbe bombardare meno e predisporsi per operazioni di terra più efficaci”. L’ex funzionario dell’intelligence ha confermato: “Rumsfeld è deliziato all’idea che gli israeliani ci facciano da battistrada”.

Altri interrogativi riguardano Condoleezza Rice. L’iniziale sostegno del Segretario di stato Usa a favore della guerra aerea di Israele contro Hezbollah si è via via mitigato a causa degli scarsi risultati ottenuti dagli attacchi. Il consulente del Pentagono ha detto che agli inizi di agosto la Rice avrebbe iniziato a muoversi autonomamente all’interno dell’amministrazione per riuscire ad avviare relazioni diplomatiche dirette con la Siria – finora, con scarso successo. Poco dopo il New York Times ha riportato che la Rice aveva dato istruzioni a un funzionario dell’ambasciata statunitense a Damasco perchè incontrasse il ministro degli esteri siriano. La riunione però sembra non aver dato buoni esiti. Ancora secondo il Times, la Rice vede se stessa come “una che cerca non solo di ricoprire il proprio ruolo di pacificatrice all’estero, ma anche di mediare tra le parti all’interno dell’amministrazione”. Lo stesso articolo faceva riferimento a un’attuale disputa tra i diplomatici del Dipartimento di stato ed “esponenti conservatori al governo”, tra cui Cheney e Elliott Abrams, “che insistevano per un deciso sostegno degli Usa a Israele”.

Il diplomatico occidentale mi ha riferito che Abrams [personaggio molto legato alla destra israeliana, soprattutto con Natan Sharansky – colui che si era dimesso dal governo Sharon come forma di protesta per il disimpegno da Gaza, NdT] è emerso come personaggio chiave per la politica sull’Iran e sull’attuale crisi Israele-Hezbollah, mentre la posizione della Rice si sarebbe fatta leggermente meno influente. Tra l’altro, il Segretario di stato si è saputo essere piuttosto riluttante rispetto alla sua ultima visita in Medio Oriente: “Voleva partire solo a condizione che esistesse una concreta possibilità di un cessate il fuoco”.

Il più fedele alleato di Bush nel vecchio continente continua a essere il primo ministro britannico Tony Blair; tuttavia, molti del suo ministero degli esteri sostengono che “il premier sulla vicenda si sia sbilanciato troppo” – soprattutto accettando il rifiuto di Bush di premere per un cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Il diplomatico mi ha detto che “su questo Blair è solo”. “Sa di essere ormai un’anatra zoppa perché è alla fine del suo mandato, ma ancora si adegua” alla linea di Bush. “Si beve tutto quello che dice la Casa Bianca, come del resto fanno tutti a Washington”. Il mio interlocutore ha aggiunto: “La crisi si aggraverà nelle prossime settimane, quando l’Iran non rispetterà l’ultimatum dell’Onu per cessare l’arricchimento dell’uranio”.

Anche da parte di chi continua a sostenere la guerra contro Hezbollah si leva compatta la tesi secondo cui Israele non riesce a raggiungere il suo obiettivo principale: unire i libanesi contro l’organizzazione sciita. “Il bombardamento strategico è ormai una tattica militare superata da novant’anni, eppure in tutto il mondo si continua a praticarlo”, mi ha detto John Arquilla, un analista della difesa della Scuola superiore della marina americana che da un decennio tenta, non senza successo, di modificare l’atteggiamento degli Usa nella lotta al terrorismo. “Oggi la guerra non è del tipo ‘massa contro massa’”, sostiene Arquilla. “Per annientare una rete, serve costruirne un’altra. Contro Hezbollah Israele si è buttato a capofitto sui bombardamenti aerei, si è accorto della loro inefficacia ed è così passato ad azioni di terra. Teniamo presente la definizione di pazzia: perseverare sulla stessa cosa sperando di ottenere esiti ogni volta differenti”.

Fonte: The New Yorker
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media

Libano: la guerra di Washington?
di Seymour Hersh
Il testo integrale dell'ultima inchiesta del premio Pulitzer Seymour Hersh sul Libano. Hersh fa luce sul recente conflitto che ha ucciso migliaia di persone e ha messo in ginocchio un paese intero. Che sia stato la prova generale dell'attacco Usa all'Iran?
(Seymour Hersh, uno dei più grandi giornalisti d’inchiesta degli Stati Uniti d’America, lavora oggi per il settimanale 'The New Yorker', con il quale ha vinto il premio Pulitzer. Hersh nel '68 rivelò il massacro di My Lay in Vietnam, e per primo ha documentato le torture in Iraq.
Seymour Hersh è autore della
prefazione a 'Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU', Nuovi Mondi Media, 2006
)

Subito dopo che Hezbollah, il 12 luglio scorso, ha rapito due soldati israeliani, innescando l’offensiva aerea israeliana sul territorio libanese nonché una guerra su larga scala, l’amministrazione Bush è rimasta curiosamente passiva. “È giunta l’ora di fare chiarezza”, ha affermato George Bush il 16 luglio al summit del G8 a San Pietroburgo. “Ora sappiamo con certezza perché non c’è pace in Medioriente”. Bush ha definito le relazioni tra Hezbollah e i suoi sostenitori Iran e Siria come una delle “cause fondamentali di instabilità”, aggiungendo come la fine delle ostilità dipendesse da questi paesi. Due giorni più tardi, nonostante le sollecitazioni di diversi governi affinché gli Stati Uniti assumessero un ruolo decisivo per il cessate il fuoco, il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha dichiarato che esso ci sarebbe stato quando “le condizioni fossero state propizie”.

L’amministrazione Bush, tuttavia, è stata attivamente coinvolta nel pianificare le ritorsioni di Israele. Alcuni ex diplomatici dell’intelligence Usa e altri in servizio attivo mi hanno detto che il presidente Bush e il suo vice Dick Cheney erano convinti di come una massiccia offensiva aerea israeliana contro i depositi missilistici sotterranei e le basi del movimento sciita in Libano avrebbero potuto rasserenare Israele e, inoltre, costituire la premessa di un attacco preventivo degli Usa ai siti nucleari iraniani – alcuni dei quali si trovano a una discreta profondità dal suolo.

Gli esperti militari e di intelligence israeliani con cui ho parlato hanno sottolineato il fatto che gli immediati problemi di sicurezza del loro paese costituivano una ragione sufficiente per l’attacco a Hezbollah, a prescindere da quello che l’amministrazione Bush aveva in mente. Shabtai Shavit, consigliere della Knesset per la sicurezza nazionale, dal 1989 al 1996 responsabile del Mossad – il servizio segreto israeliano all’estero – mi ha confessato: “Noi facciamo i nostri interessi; se capita che questi coincidano con gli obiettivi degli Stati Uniti, si tratta solo di un aspetto del rapporto tra due amici. Hezbollah è armato fino ai denti e dispone delle tecnologie di guerriglia più avanzate. Era solo una questione di tempo”.

Hezbollah è visto dagli israeliani come una profonda minaccia; è un’organizzazione terroristica che opera sul confine con Israele, è dotata di un arsenale militare. Dal 2000, dalla fine dell’occupazione israeliana del Libano meridionale, grazie all’aiuto di Iran e Siria, “il Partito di Dio” è diventato sempre più potente. Il leader di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, ha dichiarato più volte di ritenere Israele uno “Stato illegittimo”. L’intelligence israeliana ritiene che allo scoppio della guerra il movimento sciita disponeva di circa 500 razzi a media gittata e di qualche decina a lunga gittata (200 chilometri) in grado di raggiungere Tel Aviv – è stato uno di questi razzi ad aver raggiunto Haifa il giorno dopo la cattura dei due militari israeliani. Hezbollah è dotato anche di 12mila razzi a breve gittata: da quando è iniziato il conflitto, più di tremila di questi ultimi sono stati lanciati contro Israele.

Secondo un esperto di questioni mediorientali informato sugli ultimi piani dei governi statunitense e israeliano, Israele aveva un piano per attaccare Hezbollah – di cui gli ufficiali dell’amministrazione Bush erano al corrente – ben prima dei rapimenti del 12 luglio. “Non voglio dire che gli israeliani avessero pronta una trappola per Hezbollah e che Hezbollah vi ci sia cascato”, mi ha detto, “ma la Casa Bianca aveva la sensazione che prima o poi gli israeliani avrebbero agito”. Lo stesso esperto mi ha riferito che Washington aveva diversi motivi per appoggiare l’offensiva israeliana. All’interno del Dipartimento di stato Usa, l’operazione era vista come per rinvigorire il governo di Beirut e fargli recuperare il controllo del sud del paese, in mano alle milizie sciite. “La Casa Bianca voleva assolutamente disarmare Hezbollah dei propri missili perché, nel caso di un attacco alle strutture nucleari iraniane, era necessario sbarazzarsi delle armi che il movimento avrebbe potuto usare per eventuali ritorsioni contro Israele”. Bush voleva entrambe le cose. Anzitutto, un’azione frontale contro Teheran (alla luce della sua appartenenza al cosiddetto Asse del Male); poi, nell’ambito del progetto di democratizzazione bushiano – in cui il Libano sarebbe dovuto diventare uno dei ‘gioelli della corona’ della democrazia mediorientale –, contro Hezbollah.

L’amministrazione Bush, però, ha sempre negato di aver saputo dei piani di guerra di Israele. La Casa Bianca si è rifiutata di rispondere a una dettagliata lista di domande. Successivamente a una richiesta ufficiale, un portavoce del National Security Council ha dichiarato: “Prima dell’attacco di Hezbollah a Israele, il governo israeliano non ha dato ad alcun ufficiale di Washington motivo di credere che stesse per attaccare. Persino dopo il 12 luglio non sapevamo cosa Israele avesse in mente”.

Sono decenni che gli Stati Uniti e Israele condividono informazioni riservate e cooperano militarmente; tuttavia, secondo un ex funzionario dell’intelligence, di fronte alle pressioni della Casa Bianca affinché si sviluppasse un decisivo piano di guerra contro gli impianti nucleari iraniani, proprio all’inizio della scorsa primavera alcuni comandanti dell’aviazione militare Usa hanno iniziato a confrontarsi con i loro colleghi israeliani.

“Il grande interrogativo per la nostra areonautica militare era come riuscire a colpire in Iran una serie di bersagli fortificati con successo”, ha detto l’ex funzionario. “Chi è il miglior alleato dell’aviazione Usa nei suoi piani strategici? Il Congo? No di certo, è Israele. Tutti sanno che gli ingegneri iraniani comunicano a Hezbollah preziose informazioni sui tunnel e sui depositi di armi sotterranei. Così, i responsabili dell’aviazione Usa si sono presentati agli israeliani con nuove idee, dicendo: “Concentriamoci sui bombardamenti e condividiamo ciò che noi abbiamo sull’Iran e ciò che voi avete sul Libano”. Di tali colloqui, mi ha riferito il mio interlocutore, sono venuti a conoscenza i capi di stato maggiore delle forze armate Usa e il Segretario della difesa Donald Rumsfeld”.

“Gli israeliani ci avevano detto che sarebbe stata una guerra dai costi ridotti e dai grandi benefici”, mi ha detto un consulente del governo americano molto vicino a Israele. “Perché opporsi? Saremo in grado di bombardare missili, tunnel e bunker. Servirà come dimostrazione di forza per l’Iran”. Un consulente del Pentagono ha detto che la Casa Bianca “da tempo era alla ricerca di una ragione per un attacco preventivo a Hezbollah. Un ridimensionamento di Hezbollah era tra i nostri obiettivi”, ha fatto notare, “e ora c’è qualcuno che ci sta pensando per noi”. (Al momento in cui questo articolo sarà dato alle stampe, il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrà emanato una risoluzione per il cessate il fuoco – sebbene non sia ancora chiaro se questo potrà cambiare o meno lo stato delle cose).

Secondo Richard Armitage, sottosegretario di stato della prima amministrazione Bush – colui che nel 2002 disse che Hezbollah probabilmente costituiva il top dei top del terrorismo internazionale – la campagna israeliana in Libano, con tutte le difficoltà impreviste e le diffuse critiche che si è portata con sé, alla fine potrebbe servire come avvertimento per la Casa Bianca in merito ai suoi piani sull’Iran. “Se la forza militare più potente della regione non riesce a pacificare un paese come il Libano, che ha una popolazione di soli quattro milioni di abitanti, è chiaro che servirà riflettere prima di replicare un’iniziativa simile per l’Iran, un paese che vanta una forte capacità strategica e una popolazione di 70 milioni di abitanti”. Armitage ha aggiunto: “L’unico risultato che l’attacco israeliano ha ottenuto è stato unire le comunità libanesi contro Israele”.

Diversi ufficiali in pensione e in servizio attivo che si occupano di questioni mediorientali mi hanno detto che Israele ha visto nel rapimento dei suoi militari l’occasione ideale per dare inizio alla campagna militare contro Hezbollah. “Hezbollah, puntuale come un orologio, ogni mese o due lanciava piccole provocazioni”, fa notare il consulente del governo americano vicino a Israele. Un paio di settimane prima, alla fine di giugno, alcuni membri di Hamas avevano scavato un tunnel sotto la barriera che separa Gaza da Israele e avevano catturato un soldato israeliano. Hamas, inoltre, aveva sparato diversi razzi verso le città israeliane vicine al confine con Gaza. In risposta, Israele aveva avviato un’intensiva campagna di bombardamenti e rioccupato alcune parti di Gaza.

Il consulente del Pentagono ha fatto osservare sul confine israelo-libanese da tempo si verificano scaramucce, i entrambe le direzioni, tra Israele ed Hezbollah. “Si sparavano a vicenda”, ha detto. “Ognuna delle due parti avrebbe potuto prendere uno qualsiasi di questi episodi come pretesto per dire: ‘Dobbiamo muovere guerra a questa gente’, dato che di fatto la guerra era già iniziata”.

David Siegel, il portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, ha detto che l’aviazione israeliana non era in cerca di un pretesto per attaccare Hezbollah: “La campagna non era prevista. Siamo stati costretti”. C’erano sufficienti motivi per credere che Hezbollah “stava per attaccare”, ha detto Siegel. “Hezbollah colpiva ogni due o tre mesi”, ma il rapimento dei soldati ha alzato la posta.

Intervistati, diversi accademici, giornalisti, ex militari e funzionari dell’intelligence israeliani si sono trovati d’accordo: è stata la leadership israeliana, non Washington, a decidere di scendere in guerra contro Hezbollah. I sondaggi d’opinione hanno mostrato come questa scelta aveva ottenuto il consenso della stragrande maggioranza degli israeliani. “Magari i neocon di Washington avranno apprezzato, ma di certo Israele non ha avuto bisogno di grandi sollecitazioni, in quanto da tempo voleva sbarazzarsi di Hezbollah”, ha detto Yossi Melman, un giornalista di Haaretz autore di diversi libri sull’intelligence israeliana. “Provocando Israele, Hezbollah ha fornito l’occasione”.

“Ci trovavamo di fronte a un dilemma”, ha detto un ufficiale israeliano. Il primo ministro Ehud Olmert “ha dovuto decidere tra una reazione a livello locale – come facciamo sempre – e una di portata più vasta, cioè colpire Hezbollah una volta per tutte”. Olmert ha preso questa decisione”, mi ha riferito il mio interlocutore, “solo dopo che erano fallite una serie di operazioni di salvataggio dei soldati rapiti”.

Tuttavia, il consulente del governo americano vicino a Israele mi ha detto che, secondo il punto vista israeliano, la decisione di un’azione risolutiva era diventata inevitabile già alcune settimane prima, quando i servizi segreti militari israeliani del gruppo Unit 8200 erano riusciti a intercettare alcune comunicazioni dai toni piuttosto minacciosi coinvolgenti Hamas, Hezbollah e Khaled Meshal, il leader del movimento palestinese attualmente residente a Damasco”.

Una di queste comunicazioni riguardava un incontro della leadership politica e militare di Hamas tenutosi alla fine dello scorso maggio, a cui Meshal avrebbe partecipato via telefono. “Hamas credeva che la chiamata da Damasco fosse in codice, ma Israele è riuscito a decifrarla”, mi ha riferito il consulente. Hamas circa un anno prima della vittoria elettorale dello scorso gennaio aveva posto fine alle proprie attività terroristiche. Nella conversazione intercettata, mi ha detto il mio interlocutore, il leader del movimento aveva sostenuto che l’organizzazione “non aveva beneficiato della condotta tenuta dopo il successo elettorale, e stava perdendo di credibilità di fronte ai palestinesi”. La conclusione, ha aggiunto il consulente, era stata la seguente: “Torniamo agli attentati e cerchiamo di strappare qualche concessione al governo israeliano”.

Sempre secondo il consulente del governo americano, Stati Uniti e Israele si erano accordati per “una risposta su vasta scala” se la leadership avesse fatto quanto annunciato e se Nasrallah avesse fornito il suo sostegno. Nelle settimane successive, quando Hamas ha iniziato a scavare il tunnel verso Israele, i servizi segreti “hanno intercettato conversazioni tra Hamas, la Siria ed Hezbollah, in cui veniva avanzata l’idea secondo cui Hezbollah si adoperasse per ‘scaldare’ il nord”. In una intercettazione, ha proseguito il mio interlocutore, Nasrallah aveva fatto notare che Olmert e il ministro della difesa israeliano Amir Peretz “sembravano deboli” rispetto ai loro predecessori Sharon e Barak, entrambi molto esperti dal punto di vista militare, e aveva previsto che “la reazione di Israele sarebbe stata limitata al piano locale, come consuetudine”.

Secondo la mia fonte, all’inizio dell’estate, prima dei rapimenti di Hezbollah, diversi ufficiali israeliani si sono recati a Washington per “ottenere il via libera all’offensiva militare e capire fino a che punto gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a sostenerla. Gli israeliani sono partiti da Cheney. Volevano essere certi che del suo sostegno e di quello dell’ufficio affari meridionali del National Security Council”, ha aggiunto il consulente. Successivamente, ha proseguito, “convincere Bush non è stato difficile, e anche la Rice era dell’idea”.

Il piano originario ideato dagli israeliani, sostiene l’esperto di questioni mediorientali vicino ai governi israeliano e statunitense, prevedeva l’avvio di un’ingente campagna di bombardamenti in risposta alla provocazione di Hezbollah. Gli israeliani, afferma l’ex funzionario dell’intelligence, erano certi che colpendo le infrastrutture libanesi (tra cui le autostrade, i depositi di carburante e anche la pista per i voli civili del principale aeroporto di Beirut) si sarebbe indotta la consistente popolazione cristiana e sunnita del paese a ribellarsi all’organizzazione sciita. Nell’attacco aereo, tra gli altri, l’aeroporto, le strade e i ponti sono stati effettivamente bersagliati. L’aviazione militare israeliana aveva compiuto quasi novemila missioni aeree alla fine di luglio (Secondo il portavoce israeliano David Siegel, Israele avrebbe bombardato esclusivamente obiettivi legati in un qualche modo a Hezbollah: lo scopo era impedire il trasporto di armi). Il piano israeliano, secondo l’ex funzionario dell’intelligence, costituiva “l’immagine speculare di quello che gli Usa avevano pensato per l’Iran” (L’iniziale proposta dell’aviazione statunitense per un attacco aereo volto a distruggere la capacità nucleare dell’Iran, e inclusivo di intensi bombardamenti alle infrastrutture civili sul territorio iraniano, avrebbe però incontrato l’opposizione dei comandi dell’esercito, della marina e del corpo dei marines, certi che il piano non avrebbe funzionato e avrebbe richiesto il ricorso alle forze di terra – com’è avvenuto con Hezbollah).

Uzi Arad, per oltre vent’anni a servizio del Mossad, mi ha riferito che per quanto gli risulta le comunicazioni tra i governi statunitense e israeliano sono stati quelli abituali: “In nessuno dei miei incontri e colloqui con gli ufficiali del governo ho mai sentito accennare ad azioni precoordinate con gli Stati Uniti”. Un fatto però lo ha colpito: la rapidità con cui il governo Olmert è andato in guerra. “Giuro che non ho mai visto prendere una decisione del genere con tanta velocità. Di solito prima ci sono lunghe fasi di analisi”.

Lo stratega chiave dell’attacco al Libano è stato il generale Dan Halutz, il capo di stato maggiore delle forze armate, il quale nel corso della sua carriera nell’aeronautica militare israeliana ha lavorato ad un’eventuale attacco contro l’Iran. Né Olmert, ex sindaco di Gerusalemme, né Peretz, ex dirigente sindacale, potevano vantare una tale esperienza e competenza specifiche.

Negli incontri iniziali con ufficiali statunitensi, mi hanno raccontato l’esperto di Medioriente e il consulente del governo, gli israeliani hanno più volte fatto riferimento alla guerra in Kosovo come esempio di ciò che Israele aveva in mente. In quel conflitto le forze Nato, guidate dal generale americano Wesley Clark, per 78 giorni in Serbia e in Kosovo non solo avevano colpito obiettivi militari, ma anche gallerie, ponti e strade, prima di far sì che le truppe serbe si ritirassero dal Kosovo. “Israele ha studiato la guerra in Kosovo come un modello da seguire”, mi ha detto il consulente del governo statunitense. “Gli israeliani hanno detto a Condoleezza Rice: ‘Voi avete fatto tutto in settanta giorni, a noi ne serviranno la metà’”.

Ovviamente, esistono notevoli differenze tra il Libano e il Kosovo. Clark, ritiratosi dalle forze armate nel 2002 e nel 2004 candidato senza successo alla Casa Bianca per i democratici, ha negato analogie tra i due casi: “Se è vero che Israele per l’offensiva in Libano si è ispirato all’approccio della campagna in Kosovo, significa che non ne ha colto il senso. Noi abbiamo fatto ricorso all’uso della forza per raggiungere un obiettivo diplomatico – non per uccidere”. In suo libro del 2001, Waging Modern War, Clark ricordava che era stata la possibilità di un’invasione di terra a costringere i serbi a ritirarsi. E a me ha dichiarato: “Secondo la mia esperienza, le campagne aeree si conducono con l’intenzione e la capacità di completare l’opera con operazioni sul suolo”.

Il Kosovo è stato citato da ufficiali e giornalisti israeliani sin dall’inizio della guerra. Il 6 agosto il primo ministro Olmert, rispondendo alle condanne europee per le uccisioni dei civili libanesi, ha dichiarato stizzito: “Possibile che l’Europa trovi il diritto di fare la predica a Israele? Proprio loro che in Kosovo hanno ucciso diecimila civili. Diecimila! E senza mai essere stati attaccati da un solo razzo. Non sto dicendo che l’intervento in Kosovo sia stato un errore. Ma, per cortesia, niente lezioni su come si trattano i civili”. (Human Rights Watch sostiene che i civili uccisi a causa dei bombardamenti Nato in Kosovo sono stati 500, secondo il governo iugoslavo sono stati tra i 1.200 e i 5.000).

Secondo diversi funzionari in pensione in servizio attivo, Cheney e il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Elliot Abrams (il National Security Control per quest’ultimo ha però smentito) hanno sostenuto il piano israeliano, entrambi certi che Israele avrebbe dovuto muoversi tempestivamente contro Hezbollah. Un ex funzionario dell’intelligence ha affermato: “Abbiamo detto agli israeliani: ‘Ragazzi, se volete entrare in azione, noi vi diamo appoggio completo. Però pensiamo sia meglio intervenire subito – più aspettate e meno tempo avremo per valutare e perfezionare i nostri piani sull’Iran prima che scada il mandato di Bush’”. Il pensiero di Cheney, ha riferito l’ex funzionario dell’intelligence, era questo: “Come sarebbe se Israele completasse con successo la prima parte del piano? Sarebbe grandioso: decideremmo cosa fare in Iran guardando quello che fanno gli israeliani in Libano”.

Il consulente del Pentagono mi ha confessato che la Casa Bianca sta gestendo in modo grossolano l’intelligence su Iran e su Hezbollah, similarmente a quanto fece nel 2002 e nel 2003, quando accusò l’Iraq di possedere armi di distruzione di massa. “Il malcontento oggi nei servizi segreti è che le informazioni importanti vengono, su pressione della Casa Bianca, inviate direttamente agli alti ranghi senza essere prima opportunamente analizzate”, ha commentato il mio interlocutore. “È una politica assurda, nonché una violazione di tutti i vincoli imposti dalla National security agency. Ma se ti opponi sei fuori”. “Tutto ciò dipende per lo più da Cheney”.

L’obiettivo di lungo termine dell’amministrazione Bush era sostenere la creazione di una coalizione di paesi arabi sunniti – Arabia Saudita, Giordania e Egitto – che avrebbe a sua volta aiutato Stati Uniti e Europa nell’esercitare pressioni sui mullah sciiti che hanno in mano l’Iran. Il consulente vicino a Israele, tuttavia, afferma che “la condizione attraverso la quale un tale progetto potesse compiersi era che Israele sconfiggesse Hezbollah, di certo non l’opposto”. Alcuni funzionari dello staff di Cheney e del National Security Council dopo alcuni colloqui privati, si erano convinti che i governi di quei paesi avrebbero scelto di moderare le critiche a Israele e avrebbero accusato Hezbollah di aver provocato la crisi che ha condotto alla guerra. Sebbene inizialmente fosse andata proprio così, a seguito delle manifestazioni pubbliche tenutesi in questi paesi contro l’attacco israeliano, le posizioni sono cambiate. La Casa Bianca è rimasta piuttosto delusa quando alla fine di luglio il principe Saud al Faisal, il ministro degli esteri saudita, in visita a Washington ha chiesto a Bush di intervenire immediatamente per porre fine al conflitto. Il Washington Post ha scritto che il presidente Usa sperava di poter sugli stati arabi moderati “per far pressione su Siria e Iran affinché tornassero a controllare Hezbollah, ma i sauditi… sembravano aver assunto una posizione che contraddiceva questa iniziativa”.

La sorprendente resistenza di Hezbollah e la sua capacità di continuare a lanciare razzi a dispetto dei costanti bombardamenti israeliani, secondo l’esperto di Medio Oriente, “hanno rappresentato un grave ostacolo per coloro che, alla Casa Bianca, vorrebbero intervenire con la forza contro l’Iran. Delusi sono rimasti anche coloro che pensavano che la massiccia risposta israeliana avrebbe creato in Iran divisioni interne e persino una rivolta”.

Ciononostante, ha riferito l’ex funzionario dell’intelligence, alcuni ufficiali al consiglio dei capi di stato maggiore Usa rimangono profondamente convinti che l’amministrazione Bush alla fine giudicherà la campagna aerea israeliana molto più positivamente di quanto in realtà dovrebbe. “È impensabile che Rumsfeld e Cheney possano trarre le giuste conclusioni da quanto accaduto”, mi ha confessato. “Quando le acque si saranno calmate, dichiareranno che tutto sarà stato un successo e cercheranno di trarne un sostegno per il loro piano di attacco all’Iran”. Alla Casa Bianca in effetti, soprattutto all’interno dello staff del vicepresidente, in diversi sono dell’idea che l’iniziativa israeliana contro Hezbollah debba essere portata avanti. Tuttavia, afferma il consulente del governo statunitense, nell’amministrazione Bush sono presenti alcuni strateghi che credono il prezzo pagato dal popolo libanese sia stato troppo alto, gli stessi che “stanno dicendo a Israele di fermare gli attacchi alle infrastrutture”.

Analoghe divisioni stanno venendo alla luce in Israele. David Siegel, il portavoce di Israele, sostiene che i leader del suo paese sono convinti che la guerra aerea sia stata efficace e abbia distrutto più del 70 per cento della capacità di Hezbollah di lanciare missili a media e lunga gittata. “Il problema rimane quello dei missili a breve gittata, che non necessitano di dispositivi di lancio e possono essere sparati anche da aree civili e dalle abitazioni”, ha dichiarato Siegel. “L’unica via per ovviare a ciò sono le incursioni terrestri – Israele vi si preparerà se la diplomazia dovesse fallire”. Durante la prima settimana di agosto, tuttavia, si è capito che Israele temeva per l’andamento della guerra. Sorprendentemente, a capo delle operazioni è stato posto il generale Moshe Kaplinsky – sostituto di Halutz –, che ha rimpiazzato Udi Adam. Israele temeva che Nasrallah potesse rilanciare sparando missili su Tel Aviv. Il consulente mi ha riferito: “Si sta discutendo sui danni che Israele dovrebbe infliggere per prevenire una simile escalation”. “Se Nasrallah colpisce Tel Aviv, cosa dovrebbe fare Israele? Il suo scopo è impedire nuovi attacchi, minacciando il leader sciita di distruggere il suo paese e ricordando al mondo arabo che Israele potrebbe farlo retrocedere a vent’anni fa. Non giochiamo più con le stesse regole”.

Un funzionario europeo dei servizi segreti mi ha detto che “gli israeliani sono caduti in una trappola psicologica. Finora hanno sempre creduto di poter risolvere i propri problemi con la forza. Ora, con gli attentatori suicidi islamici, lo scenario è cambiato, e hanno bisogno di risposte diverse. Come è possibile spaventare gente che ama il martirio?”. Le difficoltà nell’eliminare Hezbollah, ha proseguito il funzionario, è che esso vanta profondi legami con le comunità sciite del Libano del sud, della valle della Bekaa e dei quartieri meridionali di Beirut, dove l’organizzazione gestisce scuole, ospedali, una radio ed enti benefici vari.

Uno stratega militare americano mi ha riferito: “Ci sono diversi punti vulnerabili nella regione. Abbiamo analizzato gli effetti di un eventuale attacco di Hezbollah o dell’Iran contro il regime saudita e contro le infrastrutture petrolifere”. Al Pentagono sono in agitazione, ha aggiunto, per i paesi produttori di petrolio a nord dello stretto di Hormuz. “Dobbiamo prevedere le conseguenze indesiderate. Come reagiremo se vedremo schizzare il greggio a cento dollari al barile? È incredibile come circoli questa assurdità secondo cui tutto si può risolvere per via aerea, anche quando stai lottando contro un nemico che non ha un esercito regolare e che è molto radicato sul territorio. Purtroppo, i politici non considerano mai le possibilità sfavorevoli: vogliono solo buone notizie”.

Ci sono indizi che fanno pensare che l’Iran si aspettasse questa guerra contro Hezbollah. Vali Nasr, un profondo conoscitore dell’islam sciita e dell’Iran che lavora al Council for foreign relations ed è docente alla scuola superiore della marina statunitense di Monterey, in California, mi ha dato la sua opinione. “Ogni mossa statunitense contro Hezbollah è vista dagli iraniani come un’azione contro di loro. L’Iran, così, ha cominciato a prepararsi per la resa dei conti garantendo al movimento libanese armi sempre più sofisticate – quali i missili antinave e anticarro – e sta addestrando i suoi soldati a usarle. Hezbollah attualmente sta in effetti sperimentando le nuove armi fornite da Teheran. L’Iran sente la pressione degli Usa volta a emarginarlo come forza regionale, e per questo ha fomentato le violenze”.

Nasr, cittadino statunitense di origini iraniane, ultimamente ha pubblicato una ricerca sulla divisione tra musulmani sunniti e musulmani sciiti inti