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Voci dal sud del Libano, le proteste per la visita di Blair e i timori per il futuro

di Erminia Calabrese - 13/09/2006

La Down Town di Beirut e il Grand Serail, sede del Parlamento libanese, ieri erano blindati. Circa 2000 militari e filo spinato impedivano a chiunque, tranne a chi avesse passaporto straniero, di raggiungere il centro della città. L’arrivo di Tony Blair a Beirut dopo quasi un mese dalla fine dell’offensiva militare israeliana in Libano ha spinto nelle strade del centro circa 5000 persone. La manifestazione è stata organizzata da vari comitati studenteschi libanesi. Dalle 10 del mattino la gente è arrivata in massa  portando con sé bandiere, quasi tutte bianche e rosse, ritratti di familiari morti durante la guerra, ritratti di Hassan Nasrallah. A dominare erano gli insulti al primo ministro inglese e i canti patriottici. In lontananza anche un gruppo di aounisti, (cosi chiamati perché politicamente vicini al generale Aoun) si distingueva per le loro bandiere arancioni.
“Blair va' a casa” , “Blair assassino, vai all’inferno” e ancora insulti che assimilavano il primo ministro britannico a Olmert e Bush riecheggiavano nel perimetro del Grand Serail.
Mehdi, uno studente dell’Università Libanese, 23 anni: “Siamo qui per mostrare il nostro rifiuto alla presenza di Blair. Blair non è il benvenuto qui, non vogliamo che il Libano diventi un protettorato americano o francese” . Hassan invece ricorda la strage di Qana: “ Blair è un assassino, nelle sue mani c’è il sangue dei bambini di Qana”. Nella folla anche molte le donne, soprattutto quelle che hanno perso i figli nel conflitto. Samira: “Perché è venuto? Per contare i nostri morti? Ho perso mio figlio di 23 anni in questa guerra”.
 
Srifa. Sud Libano. Al Sud gli aiuti alimentari sono affluiti abbondantemente ma, con l’arrivo dell’inverno, le riserve di tonno e di sardine non bastano. Qui la gente chiede una casa, un cuscino dove porre la testa e dormire. Ali, 25 anni, è ritornato al suo paese dopo 3 mesi trascorsi a Dubai, dove lavora in una ditta di marmo italiana. La sua famiglia vive a Srifa, un  paese al Sud, dove circa 300 case sono state distrutte  e dove le poche infrastrutture esistenti oggi sono sparite, così come l’asilo e la scuola elementare che ospitava  circa duecento bambini. “Mi ritengo fortunato, i miei  genitori sono ancora vivi e anche i miei due fratelli. La mia casa non è stata rasa al suolo come è successo alle case dei miei amici. Il mio migliore amico oggi non c’è più. E’ questo quello che mi fa più male. Ritornare qui e non poter più andare con lui a giocare a calcio o a carte. Mentre ero a Dubai non sapevo come contattare le persone che erano qui, le linee telefoniche fisse non esistono in tutte le case”.
 
Bombe a grappolo in un cortileAiuti. “Gli ingegneri di Hezbollah hanno fatto il giro di ogni casa e hanno distribuito 10 mila dollari in contanti. Tutte le infrastrutture sono distrutte, penso che ci vorranno anni per ricostruirle. Prima insegnavo scienze alla scuola elementare di Srifa, ma ora che è stata distrutta non so dove andranno questi bambini”. Hussein, suo padre, aggiunge: “Il problema è che ora qui siamo bloccati. La maggior parte della gente vive lavorando nei campi, guadagna con le olive, le verdure e tabacco. Ora che i campi sono disseminati di munizioni inesplose non possiamo lavorare”. Mohammad, che vive a Maarake, un paese non lontano da Srifa, nel corso della guerra ha lavorato nell’Hilal Ahmar,  la Mezzaluna Rossa. “Sono ancora troppo scosso per parlare di tutto ciò che è accaduto, ci sono immagini che non potrò mai cancellare dalla mia mente. E la cosa che mi fa più male è che tutte le volte che c’era un attacco io ero lì, impotente, perché fino a quando le bombe non cessavano non potevo fare niente. Ho visto troppa gente morire perché non è stata soccorsa subito. Ma come potevamo sotto le bombe?”. 
Dopo un’ ora e mezza, a Beirut  la piazza si svuota. La maggior parte dei manifestanti ritorna al Sud, dove la maggior parte delle loro case non esiste più. La maggior parte di loro ritornerà in quell’unica stanza rimastagli intatta. Lì, in una sola stanza assieme a tutta la  famiglia, aspettando la ricostruzione. Le famiglie dei “martiri”, coloro che sono morti combattendo, aspettano di avere gli stessi tappeti, gli stessi mobili di prima, come si dice che Hassan Nasrallah gli abbia promesso.