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Venti di guerra... O no?

di Franco Cardini - 06/03/2016

Fonte: Franco Cardini


La triste vicenda dei due operai della Bonatti uccisi, forse rimasti vittime di una sparatoria tra bande rivali, rischia di diventare un secondo caso “dei due marò” per il patetico neonazionalismo di una parte della destra italiana, alleato abbastanza innaturale di un’altra parte della destra, che al contrario sarebbe non nazionalista bensì secessionista ma che con esso si sta alleando de facto al fine di sfruttare la supposta ampia riserva di future simpatìe elettorali costituita dagli xenofobi e dai fautori della chiusura indiscriminata delle frontiere ai “migranti”. Quando non ci si vuol render conto che il nostro paese non ha più alcuna sovranità – e si pretende il ritorno a quella monetaria senza far parola su fatto che abbiamo perduto quella diplomatica e militare – si finisce con il dimostrare memoria corta nei confronti di autentici oltraggi (pensiamo al Cermis o alla base Dal Molin presso Vicenza) ma a indignarsi per questioni gravi sì, dolorose certo, ma a livello politico ben meno serie.

Da tempo ormai la Libia è spaccata in due stati di fatto che non riescono a trovare fra loro un compromesso – anche perché rispettivamente difesi da paesi o coalizioni in lotta o comunque in concorrenza tra loro – e costellata di basi di milizia jihadiste di vario tipo a loro volta in conflitto. D’altronde, le nostre imprese (ENI eccetera) continuano a lavorare in un paese sconvolto ma dal quale si possono ancora trarre lauti proventi, per quanto le garanzie che il regime di Gheddafi offriva loro non esistano più; stipulare patti con i vari “signori della guerra” che spadroneggiano in questa Libia ormai balcanizzata, libanizzata e somalizzata è possibile, ma molto rischioso. In queste condizioni, anziché ingaggiare deicontractors com’è stato fatto e continuar a spillar danaro dalla Banca Nazionale Libica che, installata a Malta con le sue riserve monetarie, elargisce fondi sia al governo di Tripoli sia a quello di Tobruk, sarebbe stato bene per le nostre imprese rivolgersi al governo italiano e chiedere ad esso di trattare con i poteri libici de facto nonché d’inviare un adeguato corpo militare italiano di spedizione a pura difesa delle nostre installazioni (ad esempio il metanodotto che dalla Libia occidentale arriva in Sicilia). Non è accettabile che le imprese del nostro paese stipulino affari diretti con soggetti pericolosi come i gruppi islamisti nella prospettiva di grossi lucri da gestire direttamente ed esclusivamente, salvo poi l’essere costretti a fare appello al governo e alla coscienza civica nazionale quando commettono errori o le cose vanno male. Il che costituisce un’ennesima variabile del solito vecchio meccanismo che conosciamo: i privati incassano i proventi mentre i rischi, le spese e i danni sono scaricati sulla cosa pubblica.

Comunque, ora che i nostri due operai sono morti il nostro governo da una parte cerca di rafforzare la sua presenza militare in Libia temendo la concorrenza e l’invadenza francese, dall’altra si trova a dover obbedire a una direttiva del presidente USA Obama che fa bombardare sì la Libia (l’incursione del 19 febbraio scorso su Sabratha è stata un esempio da manuale di stupidità criminosa nei suoi risultati letali per una popolazione civile innocente e irrisori per i danni inferti ai guerriglieri), ma – come del resto fra Siria e Iraq – non può permettersi d’impegnare nemmeno un soldato statunitense sul terreno perché, negli States ormai affetti dalla sindrome “vietnamita”, perdere anche un solo uomo significa sottrarre al partito democratico una valanga di voti. Obama, che a novembre se ne andrà comunque, è già la vittima predestinata nel caso di una débacle del suo partito: se essa avrà luogo, egli si prenderà ogni colpa di ciò, comprese quelle che non ha.

Obama deve quindi servirsi come ascari dei suoi “alleati”: e l’Italia, dati i precedenti storici e la prossimità geografica, è la designata a doversi beccare in prima istanza la patata bollente libica. A centotrent’anni giusti dallo storico “schiaffo di Tunisi” che il governo di Parigi mollò nel 1881 in piena faccia alla povera Italietta, noi abbiamo già incassato nel 2011 lo “schiaffo di Tripoli” dalla Francia di Sarkozy e dalla Gran Bretagna di Cameron. Oggi, Obama si rivolge agli ascari italiani invitandoli a prender in mano una situazione abbastanza incerta e confusa per riscattarsi dal nuovo oltraggio dei due operai ammazzati. Applausi, squilli di trombe e rulli di tamburi dalla destra salviniana e fratelliditalista. Andiamo in guerra, perdinci!, anche se a dire il vero non sappiamo contro chi. Contro i miliziani responsabili del sequestro e quindi anche, direttamente o no, della morte dei nostri due concittadini? Contro i loro mandanti? Contro l’ISIS, che però sul teatro libico è presente solo “in franchising”, visto che a parte bandiera nera e slogans i gruppi aderenti al califfato che operano nel continente africano agiscono in piena libertà da esso, non ricevono dallo “stato” di al-Baghdadi né danaro né armi né direttive (danaro e armi se ne procurano in altri modi), non rispondono a lui del loro operato ed egli lo sfrutta propagandisticamente quando gli sembra che esso abbia successo e che a lui convenga quindi appropriarsi della ricaduta propagandistica che ne deriva. Dobbiamo quindi combattere globalmente il governo di Tripoli? Evidentemente no: visto che il presidente Renzi ha dichiarato, come del resto è ovvio, che alcuna “operazione di polizia internazionale” sarà possibile sul suolo libico se non dietro accordo e in collaborazione con il “legittimo” governo di quel paese; “legittimo”, in quanto la coalizione alquanto evanescente messa insieme contro l’ISIS. Ma se l’obiettivo è contrastare l’ISIS – evidentemente, non si tratta di “vendicare” i nostri morti – allora ci si dovrà concentrare sulle basi del califfato in Libia: Zuara in Tripolitania, Sirte, Al Baida in Cirenaica. E tutto ciò astraendo dalla conoscenza precisa dei rapporti tra ISIS, “governi” di Tripoli e di Tobruk e altre forze in presenza, jihadiste ma che agiscono in disordine e in un ambiguo stato di labilità sul piano delle alleanze e delle rivalità.

Dinanzi a questo quadro, che cosa significa pianificare un’operazione di “polizia internazionale” nella quale le forze d’intervento europee sarebbero costituite per i due terzi da italiani, per un totale che ancora oscilla fra i 3000 e i 7000 effettivi, numeri per le nostre forze armate del tutto insostenibili? Qualcuno si chiede perché, in un’emergenza di questo tipo, nessuno abbia pensato a chiamare in causa le forze della NATO, che da tempo presidiano in quantità perfino eccessiva il quadrante mediterraneo-orientale. Ma non è il caso di scherzare. Obama, il quale dispone che siano gli europei a scendere sul terreno in quanto non può correre il rischio di perdite statunitensi che causerebbero la rovina elettorale dei democratici, esclude l’impiego della NATO giacché non desidera urtarsi con i russi e con la coalizione siriano-curdo-irakeno-iraniana che si è frattanto delineata e che la Russia, appunto, appoggia: tantopiù che la Turchia è appartenente alla NATO ed appare sempre più chiara la connessione di essa con Egitto e Arabia Saudita (nonostante le inimicizie e le rivalità esistenti anche tra i governi di questi tre paesi). Insomma, sono chiari i due fronti di una nuova “guerra fredda” che rischia da un momento all’altro di trasformarsi in tiepida se non in calda sono evidenti.

In questo contesto, l’aver accettato la sollecitazione di Obama a guidare le forze d’intervento e ad impegnarsi militarmente in Libia addirittura con appoggio di aeronautica e di marina, sarebbe stato da parte di Renzi un errore se la situazione di obiettiva non-sovranità dell’Italia dinanzi agli USA e alla NATO consentisse di poter scegliere. Ma noi non possiamo: tutto quel che è possibile fare sul piano tattico è temporeggiare, guadagnar tempo (tanto per cominciare chiedendo che sia un governo libico di unità nazionale a chiedere all’Europa l’intervento, quindi aprendo nel parlamento italiano una discussione sul tema, che è un modo sicuro per congelare tutto); su quello strategico impegnarsi militarmente con contingenti modesti ma efficienti per difendere le nostre installazioni e i nostri interessi. Con Gheddafi, avevamo avviato un rapporto di collaborazione proficuo, per quanto sapessimo bene chi era: ma francesi e britannici, che a loro volta avevano i loro interessi e tendevano a escludere i nostri, hanno provocato la caduta di Gheddafi e le conseguenze che in Libia e non solo là sono adesso sotto gli occhi di tutti.

Ora, Obama ha deciso che l’intervento in Libia – dove gli statunitensi finora hanno bombardato unilateralmente – deve spettare agli europei. La NATO ha impedito, fra le altre cose, la costituzione di un esercito europeo e ha subordinato le forze armate europee allaleadership statunitense: ma Obama ha palese difficoltà a coniugare le sue necessità politiche interne (non intervenire sul terreno) con il mantenimento di un’egemonia mondiale nella quale già da tempo e con molti segnali ha mostrato di non credere più.

Ancora una volta, manca l’Europa. Manca sul piano politico, diplomatico e militare. I singoli governi europei trattano, discutono, litigano fra loro; l’Unione Europea resta estranea da tutto ciò; stiamo perdendo un’ennesima occasione per avviare la trasformazione dell’Eurolandia in una effettiva compagine federale o confederale che sia, che disponga di poteri politici, di istituzioni giuridiche adeguate, di una diplomazia unitaria, di una forza militare. Non riusciamo a gestire insieme il problema dei migranti, non siamo in grado di coordinare una risposta militare alla congiuntura vicino-orientale e nordafricana. Ora che si sta profilando lo scontro tra opposti fronti della nuova guerra fredda, il ruolo dell’Europa come ago della bilancia sarebbe fondamentale. Invece i nostri governanti danno per sottinteso che sempre e comunque staremo acriticamente, pregiudizialmente, dalla parte degli USA e dell’infida coalizione egiziano-turco-saudita della quale per ora Obama diffida (e difatti preferisce guardare all’Iran). Se a novembre vinceranno i repubblicani, potremmo tornare a una situazione molto vicina a quella dei tempi di Bush junior. Ma con una Russia (e una Cina, e magari un’India) per nulla disposte a sopportarla. Quelli sì che sarebbero venti di guerra.