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Ecologisti modello micro

di Daniele Zappalà - 16/09/2006

Il concetto di natura e le nuove pretese riduzionistiche della scienza. Parla l'antropologo francese Descola

«Con lo sviluppo della genetica c’è il rischio di perdere d’occhio la visione d’insieme dell’ambiente e le relazioni tra organismi»«Persiste la tendenza a imporre dall’alto ricette di sviluppo precotte, mentre il movimento verde è incapace di riflettere sul futuro»

 

«Occorre oggi un'antropologia capace di comprendere le civiltà non occidentali, certo, ma anche ciò che sta accadendo nel mondo occidentale, dove si osservano trasformazioni profonde nella percezione dei limiti e dei contenuti di ciò che chiamiamo umanità». Per l'antropologo francese Philippe Descola, allievo di Claude Lévi-Strauss e professore di Antropologia della Natura al Collège de France, l'odierna relazione dell'uomo col cosmo è ancora tutta da esplorare. Un tema che Descola svilupperà oggi nella lezione magistrale al Festivalfilosofia di Modena.
Professore, la popolazione mondiale è per la prima volta più cittadina che rurale. Ciò influenzerà il nostro rapporto con la natura?
«Il fenomeno si accentua fin dal XIX secolo. In Europa prima, e poi negli Stati Uniti, esso ha dato vita a un certo ritorno alla natura. In Europa, una natura piuttosto bucolica e agreste. Negli Stati Uniti, una natura selvaggia e grandiosa che testimonia del destino manifesto del Paese. In entrambi i casi, si tratta di un effetto dell'industrializzazione e dell'espansione urbana. Il soggiorno nella natura ha assunto una virtù di redenzione. La novità è oggi nei Paesi del Sud, dove la maggioranza della popolazione urbana vive in condizioni spaventose di inquinamento, in assenza di risorse ed organizzazione. La grande incognita resta la reazione del Sud ai disastri ecologici contemporanei, nel momento in cui parallelamente si diffonde in Occidente il "consumo" - mediatico e non - di una natura mondiale lontana: deserti, foreste tropicali, oceani».
Qual è la principale frontiera fra l'uso della natura presso popoli tribali come quelli dell'Amazzonia, da lei studiati, e il nostro?
«La differenza sta nel fatto che per le società tribali non c'è natura. Affinché ci sia una natura, occorre che esista qualcosa di esteriore a se stessi, un insieme su cui si può esercitare un controllo, come disse Cartesio parlando dell'uomo "signore e protettore della natura". Nel quadro delle società dell 'Amazzonia e di molte altre, non c'è un insieme di entità da raggruppare sotto il termine "natura", ma una successione di esseri, di non umani, con cui si instaurano dei rapporti da persona a persona, per così dire. Rapporti ad esempio con un animale o una pianta, dato che questi sono considerati come detentori di un'anima e di un'interiorità dello stesso tipo di quella degli uomini. Si può dunque comunicare con queste "persone" dall'aspetto diverso da quello umano coltivando rapporti di amicizia, ma anche di ostilità o di scambio».
Accanto alla moderna classificazione di piante e animali, esiste una conoscenza della natura fondata sulle relazioni del vivente. Qual è oggi l'approccio privilegiato?
«La conoscenza è sempre classificatoria, dato che prima o poi occorre stabilire frontiere fra categorie di cose ed esseri. Ci sono classificazioni dappertutto, anche se non si basano sugli stessi criteri. Ma accanto alla conoscenza tassonomica, simbolizzata dai musei di storia naturale, la visione sistemica, ecologica della natura nata fra gli altri con Humboldt ha a poco a poco guadagnato terreno. L'ecologia si è affermata come scienza ed ha adottato la prospettiva delle relazioni fra organismi. Al punto che il lavoro tassonomico rischia ormai di essere ingiustamente accantonato. Ma oggi emerge anche un terzo approccio, quello della genetica».
Cosa lo differenzia dai precedenti?
«Con lo sviluppo della genetica, c'è la tendenza a perdere di vista la visione d'insieme offerta sia dall'approccio classificatorio, sia da quello ecologico. Si affermano dei micro-determinismi genetici e ciò rappresenta spesso un cattivo segnale».
Un riduzionismo?
«Sì, un riduzionismo che in ogni caso non può svilupparsi indipendentemente dal lavoro condotto dai sistemisti e dagli ecologi. Senza gli altri approcci, rischiamo di approdare a una conoscenza del vivente che è solo genetica, in cui la totalità dell'organismo sarà scomparsa e ancor più le relazioni fra gli organismi».
L'Onu am mette ormai certi errori del passato, quando in nome di una concezione dirigista dello sviluppo si sono trascurate tecniche locali eco-compatibili come quelle di raccolta dell'acqua nei deserti africani. Un segnale positivo?
«Temo che questi errori, non solo dell'Onu, siano ancora d'attualità. In Francia, una nuova regolamentazione vieta il commercio di varietà vegetali non repertoriate. Se si possiede una varietà di pomodori o cavoli particolarmente interessante ma non repertoriata, non si ha più il diritto di venderla o scambiarla. Ciò pare un'assurdità ed è molto pericoloso, perché scoraggia la diversità delle piante coltivate, a tutto vantaggio di poche varietà di sementi, non solo ogm, controllate da grandi imprese. In generale, sono un po' pessimista, nonostante l'odierna conoscenza etnologica di tanti saperi tradizionali in sintonia coi limiti ambientali. La tendenza a imporre dall'alto ricette di sviluppo precotte persiste».
I movimenti ecologisti sono spesso accusati di rinchiudersi in battaglie di trincea ideologiche e poco utili. Che ne pensa?
«Sono costernato dall'incapacità del movimento ecologista, francese in particolare, di riflettere sull'avvenire. Credo che ciò provenga anche dal fatto che questi movimenti, certo animati da nobili intenzioni, sono formati da persone molto diverse: cultori della natura, sostenitori delle piste ciclabili, esponenti anti-nucleare, eccetera. Ciò crea coalizioni, è vero, ma senza una visione chiara di un futuro ecologicamente sostenibile. Eppure, si tratta della più vasta sfida del presente».