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Il rifiuto italiano compromette qualsiasi ipotesi d’intervento in Libia

di Filippo Bovo - 16/05/2016

Il rifiuto italiano compromette qualsiasi ipotesi d’intervento in Libia

Fonte: l'Opinione Pubblica

Nel 2011 in Libia la coalizione formata dalla NATO e dalle petromonarchie del Golfo vinse la guerra ma non la pace. Il paese, dopo l’assassinio di Gheddafi, precipitò nel caos più totale, “somalizzandosi” sempre più ed in maniera a quanto pare irreparabile. Numerosi furono i tentativi di formare governi unitari che prendessero il testimone del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi, anche attraverso elezioni a cui la maggior parte della popolazione oppose una sostanziale indifferenza. Alla fine il teatrino politico si sfaldò completamente, con la nascita di due governi e relativi parlamenti, uno a Tripoli e uno a Tobruk, che si scomunicavano ogni giorno a vicenda, mentre intanto il grande arsenale libico ammassato nei quarant’anni della Jamahiriya si disperdeva in mille rivoli per tutto il Sahara, armando gruppi che andavano così a minacciare i paesi vicini, in primis il Mali ed il Niger.

La Libia ormai non costituiva più soltanto un problema per i libici, oltre che per gli ormai ex vincitori, che a causa di quel caos perdevano la faccia, ma anche per le nazioni limitrofe, che si trovavano a dover fare i conti con la sua costante instabilità. L’avvento dell’ISIS, infine, rappresentava la classica goccia che faceva traboccare il vaso. Bisognava a tutti i modi curare il bubbone, ma per farlo era necessario ricostruire lo Stato: si parlò così sempre più insistentemente di missioni “di pace”, di “state-building”, di “state-enforcing” e così via.

Ma, se è vero che per uscire da questo pantano la Libia ha bisogno di dotarsi d’istituzioni forti e riconosciute, e di riaffermare la centralità dello Stato, al tempo stesso è vero che una simile operazione, nel quadro di oggi, costituisce davvero una pia illusione. Una nuova classe politica, che percepisca il proprio paese come entità unica ed unita e che rifugga dalle logiche del tribalismo e del settarismo, non si costruisce in un sol giorno. Neppure Gheddafi c’era riuscito, pur perseguendo tale obiettivo nei primissimi anni del suo potere, quando ancora la Libia non era una Jamahiriya, divisa in tribù e comitati, ma soltanto una “Repubblica Araba” in salsa nasseriana, ovvero uno Stato centralizzato anziché fortemente federalizzato come lo sarebbe invece divenuto a partire dal 1977.

Bisognerebbe dunque ritornare ad uno schema politico largamente federale come lo era la Jamahiriya, dove i vari territori e le varie tribù ottenevano una degna rappresentanza a tutti i livelli, attraverso la struttura dei comitati. Sarebbe la soluzione più logica ma, purtroppo, essa viene aborrita per banali questioni ideologiche. Tutto quel che ricorda Gheddafi non piace né ai nuovi pseudodominatori della Libia, né tantomeno ai loro protettori occidentali o del Golfo. Tanto i primi quanto i secondi, com’è facile notare, non hanno le idee chiare.

La Libia, per la sua storia e la sua composizione, non si lascerà mai centralizzare o comunque imporre un modello politico e statuale accentratore. Persino il tanto bistrattato Re Idris, deposto nel 1969 da Gheddafi, l’aveva capito dando alla sua monarchia una struttura alquanto federale. Il suo potere, inoltre, non usciva dai grandi centri, riservando ai vari potentati dell’entroterra ma anche d’ampie zone costiere margini di manovra assoluti.

Dunque, se per motivi puramente ideologici ci si rifiuta di ricostituire la Jamahiriya, per la cui distruzione dopotutto è stata combattuta una dispendiosa guerra, allora si può solo continuare lungo la via sbagliata della costruzione di uno Stato unitario o pseudofederale (anche un federalismo limitato alle sole tre regioni principali della Libia, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, più poco altro, viene scarsamente apprezzato dai libici che con Gheddafi hanno visto concedersi l’autonomia a più livelli, tanto per i piccoli centri quanto per le tribù e i clan minori), senza stupirsi che tutto si risolva in un fallimento.

Probabilmente l’Italia è consapevole di questo, almeno in parte, e proprio per tale ragione s’oppone all’invio di militari in terra libica. Una missione “di pace” o come preferiamo chiamarla potrebbe avere eccessivi costi non soltanto economici ma soprattutto umani, costi in ogni caso non giustificati dal risultato ottenuto. Soltanto per garantire un certo ordine interno servirebbe un alto numero di militari, a cui andrebbero associati forti investimenti in tutti gli apparati dello Stato libico. Bisognerebbe rimanere in Libia per anni, e comunque tutto questo sforzo non creerebbe certo uno Stato forte, come anche le esperienze afgane ed irachene insegnano. Il rischio che tutto il castello di carte torni a precipitare il giorno dopo del ritiro delle forze occidentali dalla Libia è tanto alto quanto prevedibile.

Oggi, a Vienna, si tiene la Conferenza per la Stabilità presieduta da John Kerry e da Paolo Gentiloni. Il vertice è dedicato quasi tutto alla Libia. Tra gli invitati, proprio per discutere della questione, vi sarà anche il governo libico, col Presidente del Consiglio Presidenziale nominato dall’ONU, Mohamad Fayez al Serraj, che dallo scorso marzo è stato paracadutato in Libia nel maldestro tentativo di riguadagnare l’unità e la stabilità del paese. Quel che sappiamo è che Serraj, fin dalla sua prima apparizione, ha ricevuto da parte dei libici un’accoglienza eufemisticamente tiepida, vedendosi costretto a cercar rifugio all’interno di una base militare. Intanto i vari potentati del paese, dal clan di Misurata al Generale Haftar a Tobruk, continuano a fare il bello ed il cattivo tempo. Serraj sarà anche l’interlocutore per la Libia della Comunità Internazionale, ma in Libia non lo è per nessuno.

La decisione italiana di non mandare proprie truppe in un’ipotetica missione “di pace” in Libia, in ogni caso, azzoppa preventivamente qualsiasi ipotesi d’intervento nel martoriato paese nordafricano. Anche se non è questo il messaggio che l’Italia ha voluto mandare ai suoi partner, è comunque chiaro che solo i libici e nessun altro al loro posto, che si chiami NATO, ONU o Comunità Internazionale, potranno decidere la loro forma di Stato o di governo.