La psicosi del terrorismo e il senso del ridicolo
di Franco Cardini - 20/05/2016
Fonte: Franco Cardini
Quando si vogliono raccogliere consensi, specie in vista delle elezioni (in Italia c’è sempre una campagna elettorale o refendaria in atto), ma si è a corto d’argomenti, un bel mostro da sbattere in prima pagina ci vuole. E gridare al lupo! Al lupo! È una tattica che può pagare.
Però il troppo stroppia. Anche perché se poi al gente ti prende sul serio sono guai. Prendete il caso del bravo professore universitario di scienze matematiche, barbuto e mediterraneo come siamo in tanti ad essere, che su un tranquillo volo interno tra uno state e l’altro dell’Unione si esercita prendendo appunti e impostando equazioni per i suoi studenti. La solerte vicina sbircia tutti quei numeri, quelle lettere, quelle radici quadrate: perbacco, ma questo è un terrorista che sta scrivendo messaggi cifrati! Allarme in aereo, arresto del professore, qualche ora per spiegarsi davanti alla polizia. Non è un film di Woody Allen: è successo davvero, qualche giorno fa.
Giorni prima, del resto, da noi era successo di peggio. E al riguardo è bene fare il punto della situazione. A proposito di guerriglia musulmana e di terrorismo, noi europei abbiamo probabilmente parecchi nemici in casa. Che arrivino mischiati ai migranti è piuttosto improbabile; e difatti i servizi sono al riguardo scettici pur non abbassando la guardia. I musulmani nostri concittadini o residenti da tempo o addirittura nati qui fra noi, d’origine africana o asiatica ma in Europa da due o tre generazioni, o magari ex-cristiani o ex-agnostici convertiti all’Islam e animati dal sacro fuoco dei neofiti, quelli ci sono: magari non molti, ma potrebbero crescere e sono pericolosi.
Poi c’è un nemico più subdolo e più insidioso ancora, per quanto non solo non sappia di esserlo ma si ritenga invece, al contrario, un nostro protettore. La gente.
Proprio così: la gente. E’ quella che, a proposito dei sei arresti in Lombardia per supposti e sospetti casi di fiancheggiamento al terrorismo e alla guerriglia jihadista, ha sepolto il ROS e la DIGOS di messaggi d’ogni genere denunziando vicini, svelando complotti, facendo nomi e cognomi, passando addirittura la “registrazione” di “conversazioni in arabo” fra “terroristi” (una era tra un albanese e un bosniaco: musulmani probabilmente entrambi, ma è difficile che potessero parlare fluently in arabo al telefono…).
Non è infatti a causa della “gente”, bensì di un approfondito e rigoroso lavoro d’informazione e d’infiltrazione, che all’alba di giovedì 28 aprile un’operazione congiunta di ROS e di DIGOS ha condotto all’arresto di due coniugi marocchini residenti a Lecco, Abderrahim Moutaharrik – campione di kickboxing – e sua moglie Salma Bencharki, ventiseienne. I due erano “sospetti” (quindi indiziati) di non ben precisati rapporti con lo “Stato Islamico”. Non si trattava – bisogna esser chiari al riguardo – di un’accusa di terrorismo: non per il momento, comunque. La giovane coppia ha due bambini, di 4 e di 2 anni: i nostri media non ci hanno a onor del vero troppo ben informati delle misure assunte a tutela dei due minori (salva la generica notizia secondo la quale i due piccoli sarebbero stati affidati “ai nonni”), dimostrando oltretutto con ciò di nutrire scarsa stima della società civile italiana ch’essi ritengono disinteressata alla cosa. Strano invece – e allarmante – che i quotidiani abbiano diffuso invece l’esatto indirizzo dell’abitazione di Lecco dei due indiziati: col rischio di esporli a rappresaglie da parte di qualche testa calda (e ce ne sono, in giro). Con i tempi che corrono, qui si tratta di ben altro che di una semplice tutela della privacy. Insomma, una famiglia data in pasto all’impietosa attenzione del pubblico: in un paese dove, quando emerge un qualche possibile reato non magari di terrorismo, ma di altrimenti ben più nobili responsabilità – truffa, peculato, concussione, interesse privato in atti d’ufficio eccetera – del quale sia indiziato un parlamentare, ci si affretta a ricordare che nessuno è colpevole finché la sua colpevolezza non sia comprovata in giudizio di terzo grado. Ma ad Abderrahim e a Salma, terroristi anche se non ancora condannati per esserlo, non si riteneva evidentemente il caso di accordar troppi diritti civili.
Inquietante comunque, a quanto pare, il reseau d’intenzioni (o di millanterie…) emerso dalle intercettazioni alle quali i due sarebbero stati sottoposti, non sappiamo in seguito a quali segnalazioni né di chi. I due, in Italia da sedici anni, si sono ovviamente protestati innocenti e hanno aggiunto di non aver mai voluto far del male a nessuno, eppure sembra che dalle loro conversazioni emergesse un profondo odio per il paese che li ospita e si è addirittura parlato di un ventilato o vagheggiato (anche se non programmato: ed è ben diverso) attentato contro il Vaticano. Di che tipo, con quali mezzi? Qui il riserbo degli arrestati e dei loro legali è giustificato dal fatto che a quanto pare il gip di Milano incaricato dell’inchiesta, Manuela Cannavale, non ha posto specifiche domande al riguardo. E’ invece emerso che Salma aveva chiesto e ottenuto dalla filiale della Deutsche Bank (filiale di Introbio) un prestito di 7000 euri che secondo gli inquirenti sarebbero serviti a finanziare il viaggio della coppia verso l’area occupata dalle forze del califfo al-Baghdadi, propriamente alla volta della Siria (l’accusata ha a sua volta replicato che quel danaro serviva a pagar debiti e a fare acquisti vari; anche su ciò, l’inchiesta resta da perfezionare). Ma nei colloqui intercettati si parlava altresì della volontà di raggiungere la Siria: sogno, desiderio, proposito? Abderrahim ha dichiarato che il suo movente al riguardo sarebbe stato umanitario: si era commosso di fronte alla tragedia delle sofferenze dei bambini in Siria. Proposito lodevole ma in effetti poco credibile. Comunque il castello indiziario messo su dal gip non doveva essere troppo solido, se l’avvocato difensore della coppia poteva immediatamente annunziare senza esitazioni di essere in procinto di presentare istanza di scarcerazione al Tribunale del Riesame.
Il punto centrale, tuttavia, sarebbe stato starebbe nelle parole di ammirazione che la coppia avrebbe usato parlando con un loro conoscente, Abderrahman Chakia (semiomonimo del pugile di Lecco), ventitreenne anch’egli marocchino, nei confronti del fratello di questi, Usama, a sua volta partito per la Siria e caduto in battaglia. In altre parole, il pugile e la consorte mostravano di considerare Usama uno shahid, un martire della fede e la loro posizione era appunto compromessa dall’amicizia con Abderraham Chakia, loro compatriota cresciuto peraltro a Brunello in provincia di Varese.
Usama Chakia, che aveva un lavoro come saldatore, è morto trentunenne lo scorso anno in Siria. Era stato espulso il 24 gennaio dello scorso anno dall’Italia con un provvedimento del ministero dell’Interno: era riparato in Svizzera ma, espulso anche di là, era riuscito ad arrivare in Siria nell’agosto ed era morto a Ramadi.
Ed eccoci a una fase importante del “montaggio” mediatico. Prima di partire, Usama era entrato in contatto con la scrittrice Silvia Layla Olivetti, la quale dall’incontro e dall’esperienza del suo ispiratore ha tratto un romanzo, Isis. Islamic State. Diario di un jihadista italiano (edizioni David and Matthaus), a guisa di postfazione del quale è pubblicato una specie di “testamento spirituale” di Usama. Attenzione, però: siamo davanti a un romanzo, non a un instant book. In che misura va accolto come una testimonianza? Eppure, alcuni quotidiani hanno dato la notizia del romanzo, riproducendone addirittura la copertina, in modo da dar al lettore distratto frettoloso o ingenuo l’impressione che ci si trovava sul serio di fronte a una seria e grave minaccia come tale accertata.
Prima di partire, Usama aveva avuto forse il modo e il tempo d’indottrinare il fratello Abderrahman, di circa sette anni più giovane di lui. Continuò a restare in qualche modo in contatto con lui anche una volta uscito dall’Italia? in una conversazione intercettata il 6 febbraio scorso e relativa agli attentati di Parigi del novembre scorso, Abderraham aveva dichiarato che il fratello era partito per la Siria soprattutto in quanto commosso dalle sofferenze dei musulmani di quel paese – in una prospettiva ch’era evidentemente quella delle posizioni sostenute dall’ISIS – e aveva affermato che, in particolare, i francesi sono a suo avviso pieni di odio nei confronti dei musulmani.
Insomma, Aderrahman Chakia – arrestato anch’egli all’alba del 28 scorso a Venegono Superiore in casa di un amico, dove aveva passato la notte – voleva partire a sua volta verso “al-Dawla as-Salamyya”, il “regno della pace”, secondo lo slogan che figura infatti proprio sotto il titolo del romanzo della Olivetti. Le sue dichiarazioni, intercettate, sono state causa dell’emissione a suo carico di un’ordinanza cautelare. Il giovane, in particolare, avrebbe manifestato con le sue parole anche un oscuro desiderio – anche qui: dietro di esso v’era un progetto? – di vendicarsi di chi aveva causato l’espulsione di Usama dall’Italia e quindi la sua partenza: La questura di Varese, cioè: responsabile appunto di quell’atto.
Insomma: dalle intercettazioni risulta che Abderrahman era stato in qualche modo plagiato dal fratello maggiore e che i due amici semiomonimi (Abdrerrahim da Lecco e Abderrahman da Brunello di Varese: ar-Rahman e ar-Rahim, “il Clemente” e “il Misericordioso”, sono i due Nomi di Dio richiamati nella shahada, la “Professione di fede” musulmana) si esaltavano nella memoria dello shahid Usama, intendevano in qualche modo vendicare la sua memoria, frequentavano siti informatici nei quali si esalta il jihad califfale eccetera. Direte: tutto qui? E i credibili indizi di un’effettiva attività terroristica al di là delle delle millanterie? Nulla. Notte e nebbia.
Intanto, a Baveno era stata arrestata anche Wafa Koraichi, un’altra marocchina, ventiquattrenne sorella di Muhammad a sua volta partito per combattere in Siria insieme con la moglie e i tre figli. Su Wafa pendeva addirittura l’accusa di essere una “reclutatrice di terroristi”. Su quali basi?
Il materiale delle intercettazioni relativo alla faccenda lecchese-varesotta presenta insomma il consueto bagaglio di chiacchiere facinorose e pericolose, ma anche generiche e qua e là vaneggianti: attentati al Vaticano per punire “l’Italia crociata”, propositi di battere Israele eccetera. Prove chiare e concrete del fatto che ci si trovasse dinanzi a una cellula terroristica, francamente, non sembravano essercene: ed era ovviamente questa la linea di difesa degli indiziati e anche del loro legale, secondo i quali ci si trovava di fronte solo a chiacchiere, a recriminazioni, a vanterie.
Restava comunque un’ipotesi di reato gravante sui quattro arrestati e sui due ricercati, i coniugi Koraichi: l’associazione a fini terroristici comporta una condanna fino a quindici anni di carcere.
A quel punto, a fine mese, si era scatenato il finimondo. Il presidente della regione Lombardia Roberto Maroni, elogiando l’operazione delle forze di sicurezza, aveva chiesto al governo di chiudere le frontiere ai clandestini (nessuno dei quattro arrestati e dei due ricercati è tale: ma l’incongruenza, naturalmente, non è stata rilevata). Il senatore Stefano Candiani e il consigliere Emanuele Monti, entrambi leghisti, si erano precipitati già il giorno dopo l’arresto dal pretore di Varese Giorgio Zanzi per discutere il “rischio terrorismo” nella provincia. In cambio il procuratore Antiterrorismo e Antimafia Franco Roberti, ospite di un’emittente televisiva (e autore di un libro nel quale si sostiene l’opportunità di selezionare giudici specializzati nelle questioni connesse al terrorismo, proposta recepita dal decreto Alfano 2015 con l’intenzione di costituire una Procura nazionale antiterrorismo), parlava sì di una “cellula di presunti jihadisti”, ma ammettendo tuttavia che “il loro livello di operatività era invece basso”, e proseguendo che “non abbiamo trovato tracce di avvio di esecuzione dei progetti di attentati: Non abbiamo trovato armi, esplosivi o altri materiali. Siamo intervenuti in fase molto anticipata”.
Singolari dichiarazioni, queste di Roberti. I fatti concreti nello spacifico lecchese-varesotto non erano granché. I nostri organismi di sicurezza hanno sorvegliato delle persone evidentemente indiziate in quanto collegate a due foreign fighters marocchino-varesotti, dei quali uno morto e un altro scomparso con la famiglia. Corretta procedura ispirata a una strategia preventiva del tutto condivisibile e lodevole. Ne è emerso il quadro di un piccolo ambiente nel quale circolano fanatismo jihadista, rancore, propositi di attentati. Basta ciò a definire il gruppetto dei quattro arrestati una “cellula di jihadisti”, sia pure “presunti”, e ad indiziarli di terrorismo? Le chiacchiere e le millanterie sono davvero “propositi”? E in quali concreti progetti, in quali credibili azioni se non effettuate quanto meno pianificate e preparate si sarebbero tradotti? Livello di operatività “basso”, lo aveva definito Roberti: in effetti, più basso di così sarebbe difficile. Ma ammettendo che tracce concrete di attentati non se ne sono trovati, egli aggiungeva che evidentemente si era intervenuti in fase “molto anticipata”. Espressione ambigua: lode alla lungimiranza o critica alla frettolosa improvvisazione?
Siamo davanti a un interessante caso di costruzione della lotta contro il terrorismo. Si beccano due chiacchieroni della profonda provincia lombarda, quella il cui governo regionale vorrebbe impedire la costruzione delle moschee (e forse, scegliendo una via diversa da quella della negazione di un diritto costituzionale, magari seminerebbe anche in giovani teste calde un po’ meno di rancore, anticamera dell’odio e quindi del terrorismo). Sottoposti a intercettazioni telefoniche, informatiche eccetera, i due palesano insani propositi a sfondo terroristico: o comunque fanno chiacchiere che fanno pensare a propositi, se – come sostiene il difensore degli arrestati – “fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Anche le due donne sono giustamente state messe sotto osservazione. In situazioni come quelle di oggi, non si può abbassare la guardia: nulla va trascurato, nemmeno le chiacchiere di due esaltati. In fondo, un marocchino-varesotto a morire in Siria per il califfo c’è andato davvero; e forse ce n’è un altro che combatte ancora.
Ma quel che non torna è l’allarmismo con il quale i media e alcuni politici hanno accolto, ricostruito e commentato tutta questa vicenda. Tanto più che pochi giorni dopo Abderrahim e Salma, Abderrahman e Wafa, sono stati rimessi in libertà in quanto a loro carico non è emerso nulla; ma Il ridimensionamento della faccenda della cellula lecchese-varesotta non è stato per nulla inteso, accolto e valutato con spirito pari a quello che aveva accolto pochi giorni prima l’incriminazione dei sei. A dirla col vecchio Shakespeare, a much Ado about nothing, com’è successo tante altre volte nel nostro paese. Ricordate la faccenda del famoso supposto terrorista che secondo certi giornali e certi politici avrebbe voluto mesi fa far saltare la chiesa di San Petronio a Bologna? La notizia, è il caso di dirlo, era una bomba: ma quando si rivelò una bufala nessuno quasi ne parlò. E oggi, a distanza di qualche anno, negli elenchi maniacali di chi sostiene che “siamo in guerra” (e magari ci siamo davvero: ma non come dicono loro…), ogni tanto riaffiora anche l’attentato alla chiesa di San Petronio. Succederà così, se non stiamo in campana, anche nel caso dei sospetti jihadisti lecchesi-varesotti: perché gli stessi organi di stampa e le stesse emittenti televisive che avevano fatto un enorme cancan sulla faccenda si sono ben guardati di fornire con la medesima evidenza la notizia del loro proscioglimento, regolarmente avvenuto nel silenzio-stampa o quasi. Così nell’opinione pubblica, in genere distratta, poco informata e regolarmente preda dei mestatori xenofobi, permane l’idea dell’enorme pericolo, incombente e sproporzionato rispetto alla realtà: con tutte le conseguenze del caso (fra l’altro crescita dei partiti di estrema destra con tendenze sostanzialmente razziste, paura diffusa, crollo delle attività turistiche e commerciali per paura di attentati: paesi come l’Egitto, la Giordania e Israele-Palestina hanno registrato per ragioni di questo tipo perdite enormi nel loro bilancio).
Ma la commedia messa in scena nei giorni recenti non si è fermata ai due episodi lombardi. Stesso copione e stessa trama il 10 maggio scorso a Bari: tre giovani, gli afghani Hakim Nasiri e Gulistan Ahmadzai nonché il pakistano Zulfiqar Amjad, vengono arrestati con l’accusa di costituire una cellula terroristica. Il ministro degli Interni Alfano, anche lui in perpetua campagna elettorale, si affretta a dichiarare che in questo caso si è brillantemente intervenuti in modo largamente preventivo, impedendo chissà quali e quante stragi…
Macché: il gip di Bari Francesco Agnino, più prudente della sua collega milanese chiamata a istruire le indagini sul caso lecchese-varesotto, esamina le “prove” – tra cui foto nelle quali i giovani imbracciavano armi o venivano ritratti dinanzi a oggetti giudicati possibili obiettivi di attentati – e ne deduce che il fermo di polizia è stato legittimo ma il carcere sproporzionato alle loro responsabilità: si sarebbe dinanzi magari a una cellula di jihadisti (ma fin qui ci troveremo dinanzi a un “reato d’opinione”), non di terroristi. Il rapporto tra le due dimensioni non è né intrinseco né di per sé necessario. Il gip ha stimato che non esiste alcun elemento negli addebiti mossi ai tre che consenta di poter affermare “l’esistenza di un indottrinamento e di una pratica ideologica del fanatismo religioso militante inteso come teoria e prassi della violenza con uno della strage indiscriminata servendosi anche di ‘martiri’ suicidi”. Le ami imbracciate nelle foto sarebbero poi dei giocattoli, non degli autentici ordigni; e quanto alle foto, quelle che ritraevano un ragazzo davanti ad esempio al Colosseo (un’immagine che ha fatto il giro delle TV…) non provavano certo che il gruppo fosse intenzionato a far saltare l’insigne anfiteatro dell’età flavia. Se adottassimo criteri del genere, milioni di turisti diventerebbero sospetti. Risultato: Nasiri viene immediatamente scarcerato il 12, mentre gli altri due restano sì in cella, ma per il reato d’immigrazione clandestina.
Certo, non finisce qui. La Procura barese presenterà a quel che pare appello presso il Tribunale del Riesame, mentre si sono avviate le procedure per valutare l’opportunità di una sua espulsione amministrativa dall’Italia. Nasiri intanto si è reso irreperibile, cosa in sé certo grave: ma lo ha fatto perché ha qualcosa da nascondere o perché ormai non si fida più di un paese dove si arresta la gente sulla base d’indizi ridicoli?
D’altronde, c’è poco da ridere. Si resta sconcertati di fronte ai comportamenti troppo discrezionali e in contrasto fra loro ostentati da alcuni membri della nostra magistratura; alla problematica complessa legata al tema della carcerazione preventiva; ai danni che ne derivano nel campo della sicurezza. Alcuni ricordano il caso dei due presunti jihadisti arrestati due anni fa proprio a Bari dal pm Roberto Rossi: furono assolti e scarcerati, ma uno di loro si è rivelato poi come l’ideologo degli attentatori di Molenbeek, mentre l’altro è morto combattendo in Siria. Il deputato di Scelta Civica Stefano Dambruoso, che si è occupato per contro dell’ONU e della UE delle questioni terroristiche, intervistato dal “Corriere della Sera” il 13 scorso è stato estremamente cauto: ha sottolineato che i reati di terrorismo sono materia complessa, che mancano giudici specializzati (quindi i rischi di arrestare degli innocenti e di scarcerare dei soggetti pericolosi sussistono entrambi), che infine i profili dei terroristi veri e propri, ovviamente non tutti ugualmente pericolosi, sono vari. Dambruoso individua, correttamente distinguendoli tra loro, tre tipi-base: “Ci sono ad esempio i lupi solitari che si radicalizzano senza uscire di casa davanti al web, e ci sono i criminali di quartiere che, come a Molenbeek, mutano le loro inclinazioni dallo spazio alla (sic!) jihad. Il terzo profilo, quello più preoccupante, riguarda i gruppi che dalla Siria e dall’Iraq arrivano in Europa per compiere attentati”: Ma quanti e quali sono i soggetti riconducibili al cosiddetto “terzo profilo”?
Il terrorismo è una minaccia affettiva. Ma c’è chi pensa che anziché chiedersi quali ne siano le ragioni profonde è più conveniente sfruttare la paura: anche perché comprendere la causa ultima e più profonda di quel che sta accadendo nel mondo, e i colossali interessi che ne sono causa, e le non meno colossali ingiustizie ch’essi generano, potrebbe minacciare poteri e profitti di molti. E allora è meglio seminare preoccupazione: magari ingigantendo i pur effettivi pericoli; magari mischiando tesi e ipotesi, prove e indizi, accertato e probabile, vero e falso, effettivo e virtuale; e magari sbattendo il mostro in prima pagina affinché esso, con la sua ingombrante mole, nasconda tanti mostriciattoli che dietro di lui continuino a commettere indisturbati le loro infamie. Per questo, nei casi delle presunte cellule terroriste lecchese-varesotta e barese, si sono mischiate intercettazioni effettive (però malamente interpretate), terrorismo reale, esegesi approssimative, romanzi travestiti da memoriali, analisi di criminologi che – delineando la personalità mitomane e megalomane di un aspirante alla guerriglia terroristica che probabilmente non ha mai fatto nulla per diventare un autentico guerrigliero – finisce con l’instillare il dubbio che un “immaginario distorto” (solitamente surrogato inibitorio di un’azione criminale) possa diventare invece prima o poi trasformarsi nella premessa a un crimine autenticamente commesso. E’ così che, nei sistemi mediatici delle democrazie avanzate, ipotesi di comodo funzionali a scelte politiche vengono contrabbandate come realtà sostenute da prove certe
Aveva ragione il vecchio Arturo Graf: “Terribile è la forza delle cose che non sono”. Perché le cose che non esistono, mischiate ad altre purtroppo invece reali, aumentano la confusione e la tensione: e questo paese è pieno di gente che alla confusione e alla tensione ci tiene in quanto su di esse ha edificato carriere mediatiche e politiche.