La diplomazia atomica di Obama
di Giacomo Gabellini - 01/06/2016
Fonte: l'indro
Come era ampiamente prevedibile, la visita di Barack Obama a Hiroshima ha avuto l’effetto di richiamare l’attenzione internazionale e suscitare un vivace dibattito circa l’opportunità, da parte dal Presidente Usa, di presentare le scuse ufficiali per il bombardamento atomico della stessa città del 6 giugno 1945, e di Nagasaki, due giorni dopo. Obama si rifiutato di scusarsi, sia perché – come la storia ha ampiamente dimostrato – i vincitori non sono mai particolarmente inclini a fare ammenda, sia perché le circa 250.000 morti istantanee provocate dai bombardamenti (cui vanno sommati gli effetti postumi presentatisi sotto forma di tumori e malformazioni di vario genere), pur rappresentando ancora oggi una ferita aperta nello spirito giapponese, per le autorità e buona parte del popolo degli Stati Uniti costituiscono il sacrificio necessario che consentì al Presidente Truman di consacrare la supremazia geopolitica di Washington. La storiografia ufficiale tende ad accreditare una ricostruzione dei fatti che individua nella necessità di ridurre al minimo i costi, in termini economici e di vite umane statunitensi (gli Usa avevano subito gravi perdite nella sanguinosa battaglia di Okinawa), necessari a piegare il Giappone la ragione fondante della decisione di sganciare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ed è proprio questa versione che permette agli Usa di rifiutare di chiedere scusa per quello che si configura come il più micidiale attacco mai sferrato nel corso della storia, perché rimanda il gesto a motivazioni di tipo prettamente umanitario e, per così dire, etico. Ben poco risalto è stato in realtà dato alle remore sia morali che strategiche espresse al Presidente Harry Truman dai vertici delle forze armate Usa (i generali Dwight Eisenhower, Douglas MacArthur e Henry Arnold, nonché gli ammiragli William Leahy, Chester Nimitz, Ernest King e William Hasley), i quali definirono militarmente non necessario e moralmente abominevole l’uso delle armi atomiche sulla popolazione civile. I crittografi statunitensi erano infatti riusciti a decifrare i messaggi cifrati giapponesi, da quali si evinceva chiaramente la loro intenzione di negoziare una pace con gli Stati Uniti addirittura prima che l’Unione Sovietica inviasse le proprie truppe contro quelle nipponiche, come Stalin aveva promesso a Truman durante la conferenza di Potsdam del 17 luglio 1945. Nel momento in cui l’Armata Rossa sarebbe penetrata in Manciuria, «la fine dei giapponesi sarebbe stata soltanto una questione di tempo», concluse Truman. Come osservano il noto regista Oliver Stone e l’autorevole storico Peter Kuznick: «Sbaragliando in maniera così rapida l’armata giapponese, i sovietici compromisero i piani militari e diplomatici del Giappone, i quali consistevano nel continuare ad infliggere perdite agli Stati Uniti e rivolgersi a Stalin per ottenere migliori condizioni di pace. I bombardamenti atomici hanno giocato un ruolo modesto nei calcoli dei leader giapponesi sull’opportunità di firmare la resa. In fin dei conti, gli Stati Uniti avevano già raso al suolo con bombardamenti convenzionali oltre 100 città giapponesi. Hiroshima e Nagasaki erano solo due città da sommare all’elenco; che l’attacco fosse effettuato con una bomba singola o con migliaia di ordigni non faceva una grande differenza. Come rivelò in seguito il generale Torashiro Kawabe nel corso degli interrogatori, l’entità della distruzione portata su Hiroshima e Nagasaki era venuta a galla soltanto ‘in maniera graduale. L’entrata della Russia in guerra rappresentò senza dubbio uno shock maggiore’». Leahy, stretto collaboratore di Truman, ha scritto nelle sue memorie che «i giapponesi erano già stati sconfitti e sembravano pronti ad arrendersi […]. L’uso di queste armi distruttive ad Hiroshima e Nagasaki non era di nessun aiuto nella guerra contro il Giappone». Il generale MacArthur, profondo conoscitore del Giappone, confidò all’ex presidente Hoover che se gli Usa avessero fornito ai giapponesi la garanzia di mantenere l’Imperatore Hirohito al suo posto, la resa di Tokyo sarebbe arrivata nel giro di poche settimane. Il punto è che Truman stava già cercando di concludere la Seconda Guerra Mondiale in modo tale da far sapere al mondo, e in particolare a Stalin, che i rapporti di forza pendevano drasticamente dalla parte degli Stati Uniti. Non è infatti un caso che, dopo aver ricevuto un rapporto in cui si indicava la potenza della bomba testata nel deserto del New Mexico mentre si trovava a Potsdam, Truman cambiò radicalmente il proprio atteggiamento. Da quel momento in poi, come osservò Winston Churchill, cominciò a tenere un atteggiamento superbo nei confronti di Stalin, ostentando una sicurezza che gli derivava della messa a punto delle nuove armi partorite dal Progetto Manhattan, la cui potenza distruttiva sarebbe stata testata pubblicamente contro il Giappone. Secondo i calcoli di Truman, la prospettiva di incorrere nello stesso destino del Giappone avrebbe tenuto a freno le mire sovietiche sull’Europa e sull’estremo oriente e accresciuto il potere negoziale degli Stati Uniti al tavolo delle trattative, mentre veniva messa a punto la teoria del roll-back, teorizzata da John Foster Dulles, finalizzata a ridurre l’influenza sovietica in aree cruciali del pianeta, a partire dalla Corea. Per questa ragione i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki possono essere considerati sia l’epilogo della Seconda Guerra Mondiale che il primo atto della Guerra Fredda, come ha dimostrato in maniera magistrale il brillante storico Gar Alperovitz in un suo vecchio ma assolutamente non datato saggio focalizzato sulla ‘diplomazia atomica’ impiegata da Truman a Potsdam. Inquadrata da questa angolazione, la decisione di ricorrere alla bomba atomica contro il Giappone assume un significato molto preciso sul piano strategico, che l’establishment Usa continua a considerare come necessario a consolidare il primato degli Stati Uniti in quella delicata fase in cui le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale si accingevano a ridisegnare gli assetti geopolitici globali. Va comunque rilevato che una visione meno assolutoria del comportamento tenuto dall’amministrazione Truman in quell’occasione sta cominciando a farsi strada nella società Usa. Nel settembre 1945, il 53% degli (840) interpellati per conto di un sondaggio su scala nazionale conveniva sul fatto che gli Stati Uniti «avrebbero dovuto colpire due città giapponesi con ordigni atomici, proprio come hanno fatto». Il 14% riteneva che fosse sufficiente «sganciare una bomba atomica su una regione spopolata come manifestazione di forza agli occhi dei giapponesi». Solo il 4% degli intervistati sostenne che «non avremmo dovuto usare la bomba atomica in ogni caso». Il 23% affermò addirittura che «avremmo dovuto impiegarne di più per costringere il Giappone alla resa moto tempo prima». Nel 2015, la stessa organizzazione che aveva realizzato il sondaggio del 1945 è tornata a chiedere il parere agli americani (sempre 840) nel luglio 2015, in occasione del settantesimo anniversario dei bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki. In questo caso, il 15% degli interpellati si è dichiarato contrario ai bombardamenti – a fronte del 4% del 1945 –, appena il 28% del totale si è detto sostanzialmente d’accordo con la decisione di Truman, mentre il 32% avrebbe preferito una semplice azione dimostrativa. Solo il 3% ha risposto che si sarebbero dovute usare altre bombe per mettere in ginocchio il Giappone con mesi d’anticipo. Le ricostruzioni edulcorate ed minimaliste confezionate dalla storiografia embedded erano evidentemente rivolte a fregiare questo terribile atto di guerra dei crismi morali necessari a convincere l’opinione pubblica dell’inevitabilità del gesto e a conferirgli un’aura di nobiltà di cui gli Usa si sono avvalsi nei decenni successivi per accreditarsi a ‘poliziotti del mondo’. L’ipocrisia è del resto un arma rivelatasi particolarmente efficace soprattutto nei Paesi democratici, dove le decisioni politiche devono esser sottoposte al giudizio degli elettori, cui in un modo o nell’altro i detentori delle redini del potere sono chiamati a rispondere. Un’ipocrisia che emerge in maniera lampante nel momento stesso in cui il leader del Paese che nel 1945 ordinò il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki si reca sul posto per abbracciare i superstiti e richiamare l’attenzione degli ascoltatori sull’imperativo di «costruire un mondo senza armi atomiche» dopo aver varato un programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare destinato ad assorbire qualcosa come 1.000 miliardi di dollari nell’arco di dieci anni e aver oltrepassato i vincoli imposti dai trattati sulle forze nucleari siglati con Mosca per innalzare uno ‘scudo anti-missilistico’ volto a consentire agli Usa di lanciare un first strike atomico senza incorrere nella rappresaglia.