Gli Stati Uniti di fronte all’avanzata finanziaria cinese
di Giacomo Gabellini - 06/06/2016
Fonte: L'Indro
Nel 2013, Pechino ha annunciato il lancio dell’Asian Infrastructure Investments Bank (Aiib), un’istituzione finanziaria incaricata di realizzare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta e aperta concorrenza sia con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale (dominate dagli Stati Uniti ed, in secondo piano, dai Paesi europei), sia con l’Asian Development Bank (dominata dagli Stati Uniti e dal Giappone). L’Asian Development Bank, in una sua relazione del 2010, sosteneva che per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area eurasiatica si sarebbero dovuti investire almeno 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. Ma dal momento che dal 2010 al 2015 non è stato effettuato alcun investimento di rilievo, l’Asian Infrastructure Investment Bank ha aumentato il suo capitale da 50 a 100 miliardi di dollari in appena due anni (2013-2014) grazie anche all’apporto decisivo assicurato dall’India, cofondatrice della stessa banca assieme alla Svizzera. Nel 2014 si è tenuta a Pechino la cerimonia di insediamento della Aiib, a cui hanno partecipato, oltre a Cina ed India, Thailandia, Malaysia, Myanmar, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh, Brunei, Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, Uzbekistan e Mongolia. Molto significative sono apparse anche le firme di Kuwait, Oman e Qatar, a cui si sono aggiunte nel 2015 anche quelle di Giordania e Arabia Saudita, nonché di Tajikistan, Indonesia, Vietnam, Australia, Nuova Zelanda, Lussemburgo e, per l’appunto, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e il Giappone è indeciso sul da farsi.
In un editoriale comparso sul ‘New York Times’, lo studioso dell’Asia Ho-Fung Hung ha ipotizzato che, promuovendo iniziative multilaterali come l’istituzione finanziaria legata ai Brics e soprattutto l’Aiib, la Cina ponga deliberatamente davanti a sé una sorta di vincolo che le impedisca di lanciarsi in «iniziative bilaterali aggressive», non sempre coronate da successo, che hanno a lungo contraddistinto l’approccio di Pechino. Così facendo, i dirigenti cinese mirerebbero ad adottare un’impostazione multilaterale, fondata essenzialmente sulla necessità di individuare un sistema che legittimi con la partecipazione di altri Paesi la valorizzazione degli investimenti all’estero da parte del massiccio fondo sovrano cinese. Questa tesi è stata implicitamente confermata dal viceministro delle Finanze cinese Shi Yaobin, il quale ha chiarito che la quota di potere decisionale nella Aiib spettante ad ogni Paese è destinata a diminuire proporzionalmente all’aumento delle nazioni aderenti. Cosa che impedisce di fatto alla Cina di ritagliarsi una posizione dominante in seno alla nuova istituzione finanziaria. Naturalmente, questa scelta è dovuta anche all’esigenza di soddisfare le richieste di potenze come Gran Bretagna, Francia o Germania, le quali non avrebbero mai partecipato alla fondazione della Aiib senza che venisse loro garantita una voce in capitolo per quanto riguarda la scelta delle politiche da portare avanti. Come osserva l’ex diplomatico indiano Melkulangala Bhadrakumar: «il fatto che la Cina adotti un simile spirito democratico, coinvolgendo i soci fondatori in discussioni attive, è un segno positivo che permette di trarre alcune conclusioni politiche piuttosto rilevanti. L’AIIB è un colpo da maestro di Pechino sia dal punto di vista politico che diplomatico. Un vantaggio minimo irriducibile per la Cina che in qualche modo intacca l’immagine costruita ad arte dai suoi avversari strategici di crescente potenza “assertiva” nella regione asiatica. In questo senso, la strategia del “pivot asiatico” degli Stati Uniti, volta a contenere la Cina, viene messa sulla difensiva […]. Per di più, se la Cina riuscirà a dimostrare come un sistema di gestione democratizzato si possa combinare con politiche finanziarie meno soffocanti, diverrà assai difficile rinviare ulteriormente la più che necessaria riforma di Banca Mondiale e Fmi. Infine, la saga dell’Aiib testimonia la tendenza cinese, divenuta molto percettibile negli ultimi tempi, ad allontanarsi dal primato di politica estera tradizionalmente assegnato al mantenimento di buone relazioni con gli Stati Uniti».La decisione della Gran Bretagna di aderire al progetto Aiib è stata peraltro emulata da Germania, Francia e Italia, cosa che ha spinto Washington ad opporre alla ‘deriva filo-cinese’ della ‘vecchia Europa’ una reazione di carattere multilaterale. Da un lato, gli Usa hanno lasciato che il disordine in Medio Oriente causato dai loro interventi in Iraq, Afghanistan e, seppur in maniera indiretta, Siria degenerasse in caos assoluto così da destabilizzare le aree strategicamente cruciali per la Cina. D’altro canto, i centri strategici statunitensi hanno proceduto all’accerchiamento militare della Cina dislocando navi che fungono da basi galleggianti per le forze speciali dal Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale ed installando proprie strutture presso Singapore, Thailandia e Filippine. La volontà di insediare la propria forza militare nella la regione Asia-Pacifico al fine di porre sotto il controllo di Washington le vie attraverso cui la Cina si rifornisce di energia ha coinvolto anche l’Australia. All’interno del Libro Bianco della Difesa australiana, pubblicato nel maggio 2009 sotto il nome di Force 2030, il governo laburista guidato da Kevin Rudd ha fornito numerose informazioni circa l’atteggiamento che la nazione intende tenere di fronte all’affermazione di Pechino sullo scenario mondiale, specialmente in seguito al ‘sorpasso’ dell’economia cinese su quella statunitense e al costante processo di consolidamento della Cina alla testa dei Brics, i quali hanno progressivamente sottratto alle nazioni occidentali, investite da vasti e profondi processi di deindustrializzazione, il ruolo di potenze manifatturiere mondiali. In base alle direttive contenute all’interno del Force 2030, l’Australia ha implementato un piano di riarmo che prevede l’acquisto di nuovi aerei militari, cacciatorpedienere e sommergibili soprattutto dal colosso bellico americano Lockheed Martin, in vista del suddetto conflitto, dato per probabile, contro la Repubblica Popolare Cinese che chiamerebbe Canberra ad aiutare la flotta Usa nel compito di porre sotto controllo la catena di isole prossime allo Stretto di Malacca schierando una doppia linea difensiva nel Mar Cinese Orientale e presso le acque territoriali filippine al fine di bloccare il flusso di idrocarburi che alimenta la macchina economica cinese.
A fianco di ciò, l’amministrazione Obama ha cercato di sferrare un’offensiva parallela in ambito economico, mediante la creazione del Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (Tpp). Si tratta di un accordo di libero scambio mirante a consolidare il ruolo internazionale del dollaro (poiché il titolare del primato commerciale detiene automaticamente anche il primato monetario) e il “signoraggio” che gli USA esercitano sul mondo coinvolgendo Australia, Brunei, Cile, Canada, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam – sono questi i Paesi che hanno accettato di prendere parte alle trattative. Il Giappone, dal canto suo, aveva inizialmente espresso l’intenzione di aderire al progetto, ma in seguito ad una visita di Barack Obama a Tokyo il presidente Shinzo Abe ha decisamente ridimensionato le ambizioni di Washington, sostenendo che mancano ancora le basi per avviare un progetto di simile portata e, soprattutto, giungendo a definire gli ultimi dettagli del cruciale accordo con le autorità cinesi relativo all’estromissione (in vigore dal 1° giugno 2014) del dollaro negli scambi bilaterali tra Giappone e Cina, in favore delle proprie monete nazionali.
Affossato dai deputati Usa convinti che concedendo il fast track (‘corsia preferenziale’) al presidente avrebbero contribuito a dar forma ad un progetto destinato a radicalizzare il processo di trasferimento di posti di lavoro verso l’estero (già incrementato con il Nafta), il Tpp ambiva a fungere da braccio economico della politica del ‘pivot asiatico’ condotta dall’amministrazione Obama in chiave anti-cinese, riunendo alcune delle più promettenti nazioni in uno strano regime di corporate-governance giuridicamente vincolante volto a garantire protezione dall’espansionismo cinese’.
Nulla impedisce che un progetto modellato sul calco del Tpp possa essere ripresentato in futuro, specialmente a fronte dell’ambiziosa offensiva economico-finanziaria lanciata dalla Repubblica Popolare Cinese attraverso Aiib, Via della Seta e banca Brics.