Gli Stati Uniti allungano la permanenza in Afghanistan
di Giacomo Gabellini - 14/07/2016
Fonte: l'indro
È notizia recente l’annuncio relativo all’ennesimo allungamento del piano per la cosiddetta exit strategy dall’Afghanistan elaborato dall’amministrazione Obama verso la fine del 2014. Il governo Usa ha infatti deciso di limitare il numero delle forze di occupazione dalle 9.800 attuali a 8.400 entro l’inizio del 2017, e non a 5.550 come era stato prestabilito. Washington ha posto particolare enfasi sull’impreparazione delle forze dell’ordine e dell’esercito locale a garantire la sicurezza per giustificare la permanenza di addestratori presso le basi di Bagram, Kandahar e Jalalabad, nonché di soldati da impiegare nelle operazioni antiterrorismo contro i talebani e altri gruppi armati che operano nel Paese.
L’Afghanistan è ormai da tempo considerato una sorta di Vietnam moderno per gli Usa, che mai nella loro storia si sono ritrovati invischiati in un teatro di guerra così tanto a lungo e senza peraltro capitalizzare obiettivi strategici di rilievo, nonostante gli sforzi militari – oltre 2.300 soldati uccisi – ed economici – quasi 700 miliardi di dollari – profusi a sostegno di questa missione.
In base all’intesa originaria, raggiunta dagli Usa con il neoletto presidente Ashraf Ghani – Hamid Karzai si era rifiutato di sottoscrivere l’accordo – il 30 settembre 2014, gli Stati Uniti hanno ottenuto la possibilità non solo di far ricorso a droni, elicotteri d’assalto e cacciabombardieri per lanciare le loro operazioni in Afghanistan, ma anche – punto su cui Karzai era in netto disaccordo – di irrompere nelle abitazioni dei civili afghani senza rispondere di eventuali abusi ai sensi delle leggi locali, in quanto l’articolo 13 riconosce «agli Stati Uniti l’esclusivo diritto di esercitare la giurisdizione» sui propri militari che «commettano qualsiasi reato criminale o civile» in Afghanistan. Il patto, che rimarrà in vigore fino al 2024, autorizza inoltre gli Usa a potenziare le proprie basi operative, trasferendovi materiali militari ed equipaggiamenti, e a costruire nuove installazioni militari, specialmente nei «punti ufficiali di imbarco e di sbarco» delle forze statunitensi, nel novero dei quali figurano ben 7 basi aeree (Bagram, Kabul, Kandahar, Shendand, Herat, Mazar-e-Sharif, Shorab) e 5 terrestri (Toorkham, Spinboldak, Toorghundi, Hairatan, Sherkhan Bandar). Grazie ad un accordo siglato pochi mesi dopo con i rappresentanti della Nato, i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica che più si sono impegnati per implementare la missione si sono visti riconoscere il diritto a posizionare un contingente di circa 5.000 soldati a supporto delle forze statunitensi.
L’Afghanistan, in cambio, otterrà dagli Stati Uniti e dai suoi alleati circa 4 miliardi di dollari all’anno di aiuti economici, che come quelli versati nel corso degli anni passati finiranno con ogni probabilità nei conti correnti dei locali signori della guerra, alimentando traffici di ogni genere. A partire dalla droga. Le motivazioni legate alla necessità di addestrare al meglio le forze afghane addotte dall’amministrazione Obama non sono tuttavia sufficienti a giustificare la decisione di allungare ulteriormente i tempi di permanenza delle forze Usa a dispetto di un’opinione pubblica statunitense sempre più a favore del disimpegno totale. A Washington viene dato ormai per certo che i talebani rimarranno una fazione cruciale per la vita politica afghana anche dopo il ritiro Usa, e sono quindi pienamente consapevoli che si dovrà giocoforza scendere a compromessi con loro per evitare pericolosi slittamenti geopolitici di un Paese che si situa in un’area fondamentale per la strategia del ’pivot to Asia’ elaborata dall’amministrazione Obama.
Non va infatti dimenticato che, lo scorso anno, il leader dei talebani Akhtar Mohammad Mansour, succeduto nel luglio 2015 al Mullah Omar, aveva cercato di smarcarsi dall’egemonia esercitata sul suo movimento dai servizi segreti di Islamabad (Isi), legati mani e piedi agli Usa fin dai tempi del sostegno alla guerriglia anti-sovietica in Afghanistan, in favore di Mosca e Teheran. Decise quindi di trasferire il consiglio della Shura dei talebani da Quetta, metropoli situata nel Belucistan pakistano, in Afghanistan. Il progetto di rendere maggiormente autonomi i talebani decadde però con l’uccisione di Mansour, eliminato da un drone statunitense mentre si trovava proprio in Belucistan. Secondo voci di corridoio, la soffiata relativa alla posizione di Mansour proverrebbe dall’Isi, che con la morte di quest’ultimo ha avuto buon gioco a recuperare la propria influenza sul movimento fondamentalista. Con la nomina di Haybatullah Akhundzada a capo dei talebani, ufficializzata lo scorso 25 maggio, l’intelligence pakistana ha trovato un interessante interlocutore, che come prima cosa ha annullato la decisione di trasferire il consiglio della Shura presa dal suo predecessore. Quetta è così rimasta la base logistica e spirituale dei talebani, che come contropartita hanno ottenuto copertura e protezione dell’Isi.
La revisione, da parte dell’amministrazione Obama, della exit strategy congegnata nel 2014 risponde quindi ad esigenze di natura prettamente geopolitica, avendo l’Afghanistan assunto una accresciuta centralità alla luce dell’offensiva lanciata dalla coalizione formata dagli Usa e dai loro alleati (non tutti) inquadrati nella Nato contro Cina e Russia.