La grande frattura tra Erdogan ed i militari
di Andrea Muratore - 17/07/2016
Fonte: L'intellettuale dissidente
La notte più lunga della storia recente della Turchia, la notte del fallito golpe contro Erdogan, si è conclusa dopo aver ridestato i fantasmi di un passato considerato remoto e infervorato le divisioni interne a un paese che da mesi ribolliva, oscillando pericolosamente tra sicurezza e destabilizzazione e pagando perennemente dazio per le ambiguità e le distorsioni che hanno caratterizzato la politica del governo tanto sul piano internazionale quanto sul fronte interno. È stata una notte di sangue, con decine di vittime tanto tra le forze di sicurezza lealiste quanto tra i militari golpisti, durante la quale il dispiegarsi degli avvenimenti è stato turbinoso e a tratti decisamente confusionario, al termine della quale la scommessa dei militari antigovernativi si è rivelata perdente. Erdogan, che sulle prime battute sembrava destinato a una repentina defenestrazione dopo tredici anni di potere, è uscito rafforzato dalla più grave delle crisi mai affrontate nel suo periodo al potere, ma lo stesso non si può dire della Turchia, che ha potuto conoscere nelle lunghe ore tra il 15 e il 16 luglio lo scontro tra due concezioni diverse, conflittuali e antitetiche della nazione, della società e delle istituzioni turche, nonché due sistemi di idee differenti sullo sviluppo delle politiche future del paese. Il tentato golpe, infatti, è stato il compimento di un lunghissimo braccio di ferro tra il sistema istituito da Erdogan e dal suo partito politico, l’AKP, e il tradizionale apparato militare, per lunghi decenni colonna portante del potere e dell’indirizzo programmatico governativo della Turchia. Oltre ad erodere la preponderante influenza delle istituzioni militari all’interno del paese, infatti, Erdogan ha da sempre mirato a vestire i panni del rinnovatore della nazione; il progetto di progressiva islamizzazione della vita pubblica, la messa in discussione dei principi di laicità espressi dal fondatore della moderna Turchia, Mustafa Kemal Ataturk, e la destabilizzazione interna dovuta allo sregolato interventismo geopolitico del governo hanno concorso a accentuare le divergenze tra il potere civile e i vertici militari.
La contrapposizione nelle alte sfere ha trovato una riproposizione adeguata a livello popolare, dato che negli ultimi anni tutta la vita pubblica turca si è progressivamente polarizzata, mano a mano che le pretese di Erdogan di acquisire un sempre maggiore potere personale, di riformare la Costituzione in senso presidenzialista e di riorientare le ambizioni strategiche in funzione del progetto neo-ottomano portavano inevitabilmente alla messa in discussione delle fondamentali linee guida kemaliste, accettate per decenni dai turchi come base del loro ordinamento e del loro rapporto con le istituzioni. I militari si sono sempre spesi, in particolare, per la laicità delle istituzioni, fattore ritenuto decisivo per la preservazione dell’influenza di uno dei più grandi eserciti della NATO e del Medio Oriente sulla politica del suo governo. Nelle sue azioni, Erdogan ha sempre mirato a superare Ataturk, ad archiviare il kemalismo; nei primi anni del suo governo, la crescita generale degli indicatori economici e del tenore di vita di milioni di turchi ha consentito al leader dell’AKP di acquisire credito all’interno e all’esterno del paese, e al tempo stesso di poter avviare l’erosione della sfera di influenza dei militari sull’economia e sulla politica senza temere contraccolpi spiacevoli, ma col passare del tempo l’insorgere di profonde contrapposizioni e la deriva autocratica del regime politico costruito da Erdogan hanno inasprito la polarizzazione e le tensioni interne al sistema. Nelle strade di Ankara, sui ponti di Istanbul, la lunga notte della Turchia ha visto l’esplosione di queste tensioni a lungo latenti: militari golpisti contro forze di sicurezza, carri armati contro blindati, ma soprattutto Ataturk contro Erdogan. L’azione organizzata dai militari e guidata da oltre 30 alti ufficiali che, secondo fonti governative, sarebbero già stati individuati, destituiti e arrestati assieme ad altri 1500 sospetti, rappresenta una sorta di resa dei conti storica tra due fronti rivali e mutualmente escludibili, incapaci di addivenire a un qualsiasi tipo di dialogo nel corso degli ultimi mesi e di cambiare i destini di un paese spaccato, lacerato dagli attentati e in preda a una completa confusione. Non bisogna dimenticare che la Turchia moderna stessa, in fondo, nasce da un colpo di Stato: Ataturk rottamò definitivamente ciò che restava dell’Impero Ottomano, ridotto all’amministrazione della penisola anatolica e di Istanbul, deponendo l’ultimo sultano Mehmet VI nel 1922; l’anno successivo vide la luce la Repubblica di Turchia, che Erdogan intende amministrare, per sua stessa ammissione, sino almeno al 2023, data storica del centenario della sua fondazione. Lo sventato attacco al suo potere offre a Erdogan la sponda ideale per operare un ulteriore giro di vite nei confronti delle opposizioni e per poter operare alla repressione dei suoi avversari; le forze armate stesse hanno dimostrato, nel corso della lunga notte di battaglia, una disunione che ha profondamente pregiudicato le speranze di successo del colpo di Stato. Gli elementi golpisti, infatti, sembrerebbero dalle prime indicazioni appartenere essenzialmente all’esercito terrestre, dato che il repentino intervento degli F-16 contro i carri armati degli insorti a Istanbul e il controllo generale dello spazio aereo turco da parte dei lealisti testimoniano il controllo della situazione da parte dell’Aeronautica lealista e la Marina ha preso sin dall’inizio posizione contro il colpo di Stato. Gianluca Di Feo ha scritto su “Repubblica” che a risultare determinante per disinnescare il colpo di Stato sono state principalmente le forze di polizia e la Gendarmeria, ampiamente rafforzate da Erdogan negli ultimi anni e rimaste fedeli al governo nelle concitate ore della battaglia tanto a Istanbul quanto ad Ankara. A questa considerazione si può aggiungere un commento riguardante l’errore strategico compiuto dalle forze insurrezionali, che hanno limitato l’azione alle due principali città della Turchia, puntando al controllo dei centri più importanti senza tuttavia predisporre nessun’altra mossa lontano da Istanbul e Ankara. Così facendo, essi hanno palesato la limitatezza dei mezzi in loro possesso e, anche nel caso in cui avessero preso il controllo dei due grandi centri urbani, essi avrebbero dovuto confrontarsi con la reazione proveniente dalle regioni interne dell’Anatolia, da sempre compattamente schierate con Erdogan. La speranza di un successo del golpe è evaporata nel momento in cui è divenuta impossibile la cattura del presidente, che sarebbe potuta essere l’unica azione veramente decisiva per consentire al colpo di Stato di ottenere qualche risultato. Erdogan, rientrato a Istanbul dopo aver a lungo peregrinato sul suo aereo personale, è stato accolto all’aeroporto da una folla di sostenitori e ha promesso reazioni e punizioni adeguate nei confronti dei golpisti, paragonati esplicitamente a veri e propri terroristi nel suo intervento a caldo.
E così, la Turchia che si risveglia dalla notte più lunga si trova di fronte a un solo dato di fatto, il fallimento del golpe, e a molte, nuove, inquietanti questioni. La fronda violenta dei militari, infatti, mette ancora di più in discussione le strategie impostate da Erdogan e pone interrogativi sempre più pressanti sugli esiti finali a cui potrà condurre il loro perseguimento. Nuove ferite vengono inferte a un paese che ha già pagato un tributo di sangue considerevole negli ultimi mesi a seguito di continui attentati terroristici; il risveglio della Turchia è traumatico. Essa si scopre divisa, polarizzata e insicura come mai a partire dall’ultimo golpe, datato 1980. La lunga contraddizione tra le volontà riformatrici di Erdogan e il kemalismo tradizionale, progressivamente esacerbatesi, hanno pontato alla collisione tra il potere civile e componenti delle forze armate; l’instabilità interna rischia in futuro di accentuare la deriva autoritaria del governo dell’AKP e le volontà punitive e repressive di Erdogan lasciano intendere che, nell’immediato futuro, il tentato golpe possa essere preso a pretesto per imporre un nuovo, significativo giro di vite alle libertà e ai diritti dei cittadini turchi.