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Bio e non sai cosa mangi

di Daniele Fanelli - 25/09/2006



Promettono un mondo diverso, in cui la salute dei consumatori e la salvaguardia dell'ambiente vengono prima del profitto.
E in un'epoca di mucche pazze, verdure biotecnologiche e disastri ambientali, sono in tanti a volerci credere.
Così gli alimenti biologici, fino a trent'anni fa appannaggio di pochi idealisti contrari al moderno sistema agro-industriale, sono oggi entrati nel consumo di massa.
Un mercato che dal 1990 aumenta in tutto il mondo del 20 percento ogni anno, alimentandosi della crescente consapevolezza dei consumatori.
In Italia, secondo una indagine svolta nel 2005 dall'Istituto di ricerche economiche e sociali, il 41 per cento dei consumatori è disposto a spendere di più per un alimento di cui sia certificata la provenienza; e il 35,3 per cento per un alimento che garantisca un maggior rispetto per l'ambiente.
E nello scegliere un prodotto, il 51,7 per cento degli italiani valuta il metodo di produzione, che preferirebbe fosse biologico.
Una richiesta di genuinità prontamente raccolta dai colossi dell'industria alimentare.
Hanno creato una propria linea di prodotti biologi, a partire dal 1999, le maggiori etichette della grande distribuzione italiana: Esselunga, Coop, Conad e tutte le altre hanno cavalcato l'onda, unendo al proprio marchio la sillaba magica: bio.

Ma cosa significa oggi, 'biologico'?
Quando a etichettare bio è la grande distribuzione e sono in ballo grandi volumi di prodotti, di che razza di bio stiamo parlando?
Cosa resta sui banchi dell'ipermercato dell'idea del prodotto brutto ma sanissimo, venduto dal contadino o dal negozietto alternativo?
Di fatto resta il modo di produzione: come abbiamo scoperto in questa inchiesta, marketing e ideologie a parte, il bio è più sano perché i metodi di produzione, sempre industriale s'intenda, lo rendono tale: niente chimica, animali non allevati in batteria.
Il che non significa mucche a pascolare nel verde e metodi antichi, ma un sistema di industria agro-alimentare diverso.
A patto, però, che nessuno imbrogli.
E su questo i dubbi aumentano
Vediamo come essere sicuri, allora, che stiamo comprando la cosa giusta.

Cominciamo dalla legge che, al riguardo, è piuttosto chiara.
Per far fronte agli abusi del termine, infatti, già nel 1991 l'allora Cee emanò il regolamento 2092 che, pur con diverse revisioni, è in vigore tuttora ed elenca in dettaglio le sostanze e i metodi che devono caratterizzare la produzione biologica.

Per fregiarsi del marchio bio europeo (la spiga circondata di stelle), un alimento deve contenere almeno il 95 per cento di ingredienti prodotti secondo tale regolamento.
Che non è solo un elenco di sostanze chimiche da evitare, ma anche di metodi che proteggono l'ambiente e la biodiversità, incoraggiano il risparmio energetico e garantiscono il benessere psico-fisico degli animali allevati.
La lotta ai parassiti e alle malattie, per esempio, deve iniziare scegliendo le varietà più adatte alla zona di produzione.
E la fertilità del suolo deve essere mantenuta alternando le coltivazioni e spargendo rifiuti organici, che a loro volta devono provenire unicamente da allevamenti biologici.
Questi ultimi devono non solo bandire ormoni e farmaci che accelerano la crescita, ma anche garantire una quasi totale libertà di movimento agli animali, nutrirli solo con alimenti biologici, ed evitare pratiche crudeli come la spuntatura del becco, la rimozione delle corna e un trasporto in condizioni di sofferenza.

In pratica, però, quello proposto dal regolamento è un modello ideale, da cui le aziende possono discostarsi anche molto.
Innanzitutto perché ci sono le deroghe, destinate soprattutto agli allevamenti.
Inutile sognare i pascoli verdissimi di certe pubblicità bio, dunque, perché spesso gli allevamenti sono gabbie dorate, da cui animali nutriti un po' meglio escono per qualche ora d'aria la settimana.
"Di deroghe ce ne sono troppe", ammette il presidente dell'Associazione italiana agricoltura biologica Andrea Ferrante.
Ma aggiunge: "Quello del biologico è comunque un mondo migliore. Un pollo, per esempio, allevato con metodi convenzionali non è più un animale, ma un insieme di proteine che non si è mai mosso dalla gabbia. Quello bio, pur con tutte le deroghe, ha avuto uno sviluppo normale, e ha potuto camminare e vedere il sole".

Ma il rischio è solo nelle deroghe: il regolamento non copre diversi passaggi produttivi, di cui si approfittano molti agricoltori, soprattutto quelli che sono saltati sul carro del biologico senza condividerne davvero lo spirito.

"Il vino, per esempio, andrebbe regolato meglio", spiega Ferrante: "Perché è fatto con uve da agricoltura biologica, ma poi in cantina può subire di tutto".
Come l'aggiunta di solfito, un additivo tossico che facilita la fermentazione, e che un'indagine del 2004 del Movimento consumatori ha trovato in quantità identiche nei vini biologici e in quelli convenzionali.

Di fatto, il vero problema di chi vuol acquistare un prodotto bio smerciato dalla grande distribuzione è quello di fidarsi dei controllori.
Quando la filiera dei produttori s'ingrossa ai mille fornitori di una catena di supermarket, chi garantisce che siano state rispettate le norme?
In base al regolamento europeo, i governi devono accreditare alcuni organismi di controllo che certificano le aziende biologiche e devono essere indicati sulla confezione dei loro prodotti.

In Italia di queste agenzie di controllori ce ne sono attualmente 16 e, come nella maggior parte degli altri paesi europei, sono aziende private, che guadagnano emettendo i certificati, pagati direttamente dai produttori.
Hanno l'obbligo di controllare ogni azienda agricola almeno una volta l'anno.
Possono limitarsi a visionare documenti e registri, oppure svolgere analisi più approfondite, per esempio cercando tracce di pesticidi sul terreno di coltura.
In tal caso devono assumersi tutti i costi delle analisi.
Peraltro, se un alimento in commercio viene dimostrato irregolare, ne paga le conseguenze solo il produttore, mentre all'ente certificatore non viene torto un capello.
Senza voler dubitare della buona fede, è chiaro che queste aziende hanno tutto l'interesse a emettere il massimo numero di certificazioni, riducendo al minimo i controlli.
Nel 2003, una inchiesta del mensile 'Altroconsumo' ha rivelato che circa i due terzi degli operatori bio ricevono una sola visita di controllo l'anno, che di solito è preannunciata, e che spesso si limita alla sola lettura della documentazione cartacea.

Eppure, secondo l'ultimo dossier 'Pesticidi nel piatto' di Legambiente, i controlli fatti dalle regioni sui prodotti biologici, che sono ancora troppo scarsi, danno risultati incoraggianti: i pesticidi sono per lo più assenti.
Possiamo dunque stare tranquilli?
Non proprio, perché queste analisi non potrebbero distinguere fra un alimento veramente biologico e uno che sia stato prodotto con metodi convenzionali e poi ripulito accuratamente da ogni traccia di pesticidi.

Se già si dubita dell'efficienza dei controlli italiani, figurarsi di quelli fatti fuori dalla Ue.
Una quantità imprecisata di alimenti biologici arriva da India, Costa Rica, Argentina, Israele, Svizzera, Australia e Nuova Zelanda,Thailandia, Romania, Cina, Turchia.

Nessuno sa con esattezza quali prodotti biologici siano importati in Italia, e in che quantità: la legge obbliga a indicare sull'etichetta la provenienza solo di carne, uova, miele e ortofrutta fresca.
Per tutti gli altri alimenti è sufficiente riportare il nome dell'ultimo trasformatore o confezionatore.
Come spiega Marco Camilli, presidente della Anagribios-Coldiretti: "Dai fagioli all'olio extravergine, sono tantissimi gli alimenti biologici che sulla confezione risultano di produzione italiana, ma costano meno degli altri perché fatti con materie importate, per esempio dall'Argentina o dalla Tunisia".

Dietro il verde di tante etichette bio possono celarsi alimenti coltivati nel Terzo mondo, in condizioni lavorative ignote, e che poi sono stati trasportati per migliaia di chilometri, con un impatto ecologico enorme.
Una contraddizione che i consumatori alla ricerca di standard etici e qualitativi superiori potrebbero non digerire.
Per ora non hanno scelta, visto che il nostro paese non ha ancora adottato un marchio che attesti l'origine nazionale dei prodotti, come hanno già fatto diversi paesi europei.

L'Italia è il primo produttore di alimenti biologici in Europa e il terzo nel mondo.
Ma per via della concorrenza dall'estero non consuma la maggior parte dei suoi prodotti.
"Solamente il 20-25 per cento degli alimenti bio italiani riesce a essere venduto come tale", afferma Camilli: "Il resto finisce nel calderone delle produzioni convenzionali, perché al momento della vendita non si trova l'impianto di trasformazione, il grossista o il commerciante che siano interessati ad acquistare il biologico locale".

Lo stesso vale per le mense scolastiche che, in risposta ai desideri delle famiglie, servono un milione di pasti biologici al giorno.
"Le gare d'appalto si basano unicamente sull'offerta di prezzo", spiega Camilli.
E il prezzo più alto è il vero tallone di Achille dei prodotti bio.
Colpa, in buona parte, della inefficiente distribuzione e delle certificazioni necessarie per ogni passaggio di trasformazione e confezionamento.
Secondo un'indagine del 2005 del Codacons, la frutta e le verdure biologiche vendute direttamente nei mercati romani costano meno persino di quelle convenzionali vendute in negozi e supermercati.

Pur con tutti questi limiti, quella biologica resta l'agricoltura più sicura e controllata che ci sia.
Se non sarà adeguatamente tutelata, perderà il suo ruolo di alternativa ecologica ed etica.

La Ue lo scorso dicembre ha proposto di dare più trasparenza al sistema dei controlli e delle importazioni, e di rendere più semplici e flessibili i parametri del bio.
Ad esempio introducendo un limite di tolleranza dello 0,9 per cento per gli ingredienti Ogm.
Ma gli interessi in gioco sono troppi e i tempi della trasparenza si annunciano lunghi.
Così il vecchio regolamento, per ora, resta in vigore.


Il risparmio si fa eco

di Paola Emilia Cicerone

Il bio è sano, controllato, migliore dal punto di vista nutrizionale. Ma costa più caro, anche quello proposto dalla grande distribuzione di cui si parla in queste pagine. E questo frena  molti consumatori.

Eppure, risparmiare comprando biologico si può. Per spiegare come, arriva in libreria a metà ottobre 'Guida alla spesa biologica', di Rita Imwinkelried e Nicoletta Pennati (Sperling&Kupfer, 460 pagine 12 euro). Ricco di consigli utili, del tipo: "Comprare prodotti regionali e di stagione, senza lasciarsi tentare da ciliegie e pomodori colti acerbi e trasportati per migliaia di chilometri", e soprattutto di indirizzi dove procurarsi frutta, verdura e carne prodotti con agricoltura e allevamenti biologici senza svenarsi.

"Il segreto è andare alla fonte rivolgendosi ai produttori", spiegano le autrici: "Per fortuna, l'Italia è leader mondiale nella produzione di alimenti bio. A volte, è vero, i prodotti dell'agricoltura intensiva costano meno. Ma a parte la qualità, quanto ci costerà domani aver inquinato e impoverito l'ambiente?"

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Prevenzione

I pesticidi più comuni in commercio sono una accertata causa di vari tipi di tumore, malformazioni, problemi di fertilità, disordini psichiatrici e altre malattie. Consumare cibo biologico riduce sensibilmente l'esposizione a queste sostanze.

Secondo uno studio uscito a settembre su 'Environmental health perspectives' e finanziato dalla Environmental protection agency, nelle urine dei bambini si trovano tracce di pesticidi e fitofarmaci, che però scompaiono quasi del tutto se per pochi giorni essi si nutrono esclusivamente di biologico. I vegetali più a rischio di contaminazione, almeno secondo un articolo apparso su 'Businessweek', sono pesche, fragole, mele, spinaci, nettarine, sedano, pere, ciliegie, patate, peperoni, uva e lamponi.
Più puliti sarebbero invece granoturco, avocado, ananas, cavolfiore, mango, piselli dolci, asparagi, cipolle, broccoli, banane, kiwi e papaia.
L'agricoltura biologica, inoltre, evita che molte sostanze nocive si disperdano nell'aria e nelle falde acquifere, ed entrino così nella catena alimentare.
Un problema tornato alla ribalta in questi giorni, dopo che le analisi del dipartimento di Scienze ambientali dell'Università di Siena hanno rilevato nel pesce spada la presenza di vari inquinanti fra cui 15 diversi pesticidi.

Nutrizione

I cibi biologici sono leggermente più ricchi di nutrienti, per esempio vitamina C e minerali.
Ciò sarebbe dovuto, da una parte, alla scelta di varietà vegetali che crescono meno rapidamente ma sono di migliore qualità; dall'altra al fatto che le piante bio, non più difese dai pesticidi, devono produrre da sole le sostanze protettive.

Ambiente

Le fattorie biologiche favoriscono la biodiversità a tutti i livelli, dai batteri nel suolo agli uccelli. Lo ha dimostrato due anni fa una revisione sistematica pubblicata su 'Biological conservation', che ha considerato 76 studi fatti in Europa, Canada,  Nuova Zelanda e Usa.
Inoltre, secondo una ricerca pubblicata su 'Nature' nel 2001, il bio fa risparmiare energia: a parità di meccanizzazione, un frutteto di mele biologiche è più efficiente del 7 per cento.
Al contrario di ciò che si pensa, nel lungo periodo la resa delle coltivazioni bio è equivalente a quella convenzionale, grazie alla migliore qualità del suolo.
Lo dimostrano molti studi, alcuni dei quali raccolti in un libro pubblicato dalla International society of organic agriculture research.



L'espresso, 23 settembre 2005