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Il Mercato e i falsi profeti

di Nicola Cacace - 29/09/2006

 
L´Italia è il paese europeo che ha privatizzato di più e riflettuto di meno sulle esperienze fatte, con un dibattito dominato da un approccio ideologico. Nel caso di aziende pubbliche in perdita la privatizzazione è obbligata dalle regole di Bruxelles contro gli Aiuti di Stato, mentre nessuna regola europea vieta aziende pubbliche in attivo. Eni e Finmeccanica, le due ultime grandi imprese italiane presenti autorevolmente sul mercato mondiale del petrolio e dell'Hi Tech non corrono alcun pericolo di privatizzazione «obbligata».

Anche nel caso di grandi imprese «strategiche» in crisi nessuna regola vieta che uno Stato intervenga direttamente contando su ritorni economici di lungo periodo come quasi nessun investitore privato ama fare.

È successo positivamente in molti casi, Iberia ed Air France oggi fanno utili e sono state privatizzate senza svendita, sol perché anni fa lo Stato spagnolo e quello francese sono intervenuti con intelligenza salvandole. Intelligenza che, purtroppo, non ha ancora assistito lo Stato italiano nella gestione della crisi Alitalia. E non è che non conti avere compagnie aeree di bandiera. Da quando Alitalia ha cancellato voli transatlantici ed asiatici, le correnti turistiche da Cina ed Americhe verso Francia e Spagna sono aumentate molte volte più che quelle verso l'Italia.

Gli obiettivi di una privatizzazione devono essere almeno tre, favorire consumatori, imprese (concorrenza) e coesione sociale (ridurre i divari economici territoriali è obiettivo anche dell'Ue). Grande attenzione va quindi posta quando si privatizzano le reti, ferroviarie, autostradali, di telecomunicazioni che possono toccare la coesione. Si veda il caso della Gran Bretagna, campione di privatizzazioni sotto la Thatcher, che sta rovinosamente tornando indietro con fatica nelle ferrovie e nella Metropolitana, dove i privati sono scappati con il malloppo accumulato in una ventina d'anni di sfruttamento e una scia record di incidenti senza fare gli investimenti promessi.

In che misura le privatizzazioni fatte in Italia hanno conseguito i tre obiettivi? Assai piccola!

Enel. Oggi gli italiani pagano bollette elettriche più care del 45% rispetto ai concorrenti (mediamente 20 c.mi di euro per Kvh contro gli 11 pagati in Francia e Spagna) e l'Enel è leader europeo di superprofitti. Neanche l'Edf francese, con le decantate centrali nucleari riesce a far meglio. Con l'aggiunta di ripetute minacce di Black Out, insieme all'Inghilterra anch'essa con energia elettrica privatizzata.

Autostrade. Qui la concorrenza non c'entra trattandosi di Monopolio naturale. I consumatori italiani, per carenza di ri-regolamentazione e controlli, hanno le autostrade più scassate d'Europa e pagano pedaggi che, contro ogni logica economica, sono aumentati con l'inflazione senza ridursi con l'aumento di traffico (la formula corretta dovrebbe essere: aumento pedaggi = tasso di inflazione-aumento di traffico). Risultato? Superprofitti per Benetton e compagni (superiori al 30% dei ricavi) che pone la società italiana al vertice degli utili in Europa.

Telecom. La recente vicenda societaria ha messo in evidenza la fragilità di un capitalismo con pochi capitali e poche grandi imprese. Montezemolo giustamente lamenta che «per la produttività siamo al lumicino» (Sole del 26 settembre) ma perché meravigliarsi quando per anni gli investimenti in macchine ed impianti calavano malgrado profitti lordi altissimi (+12,9% l'anno in 10 anni secondo l'indagine Mediobanca)? Tornando a Telecom, mentre la privatizzata spagnola Telefonica contende agli Usa la leadership degli investimenti in America latina il nostro gigante delle Tlc fa profitti solo in Italia, avendo alienato 15 miliardi di euro di Asset esteri e stando per cedere anche l'ultimo, TeleBrasil. I presunti vantaggi per i consumatori italiani sono di difficile valutazione alla luce della congerie di tariffe mutevoli nello spazio e nel tempo. Da una recente offerta «all inclusive» di France Telecom (telefonate interne ed internazionali senza limiti, internet veloce senza limiti, tv interattivo, etc.) per 29,9 euro al mese, si può agevolmente dedurre che, se il progresso tecnico ha consentito riduzioni delle tariffe nel tempo, lo stesso non si è realizzato nello spazio, essendo i prezzi pagati dai consumatori italiani ancora mediamente più alti di quelli pagati in altri paesi. Senza entrare nel calore della polemica in atto tra scorpori, convergenze mancate, neutralità della rete, vendita di Tim, proprietà della rete (il cosiddetto piano Rovati, discutibile ma non scandaloso, contiene la proposta di separare la rete dai servizi, al fine di favorire la concorrenza), una riflessione preoccupata va fatta sulla progressiva riduzione dell´internazionalità delle nostre grandi imprese.

Italianità, falso problema. Il problema non è la proprietà del capitale in se, ma la visione strategica, la Mission del capitalista di turno. L'esperienza mostra che, in generale, il grande compratore tende a «sfruttare» le potenzialità del mercato locale ed a concentrare in patria le funzioni più elevate. Questa tendenza è comune a tutti i paesi europei. A proposito delle privatizzazioni spagnole, così scriveva tempo fa l'autorevole Economist (26.6.04): «Gli obiettivi della privatizzazione delle grandi imprese pubbliche spagnole di elettricità, gas, petrolio, telefoni, banche, sono stati quelli di promuovere imprese forti, legate agli interessi più generali del paese, imprese capaci di entrare nei mercati internazionali e di difendersi facilmente dai Take Over dall'estero». Proprio il contrario di quanto fatto in Italia in molti casi dalle Tlc alle banche. Ad esempio le maggiori banche spagnole, Santander e Bbva (B. di Bilbao) hanno un grado di internazionalizzazione (peso degli impiegati all'estero sul totale) crescente e superiore al 50%, mentre quello delle grandi banche italiane si è dimezzato (dal 10% al 5%) in venti anni, anche sotto l'azione di Bbva e Santander, per anni azionisti di riferimento di Bnl e S. Paolo, con una sola eccezione, Unicredit.

Il problema non è l'italianità in se, ma chiediamoci, si sarebbe salvata la Fiat se, oltre a Melchiorre, non avesse potuto contare sulla «responsabilità» di alcune banche italiane che hanno accettato di convertire massicci crediti in azioni di una società, allora, sull'orlo del baratro?

L'esperienza degli anni novanta mostra che, specie nei servizi a rete, le privatizzazioni senza liberalizzazioni e, soprattutto, rigorose ri-regolamentazioni e controlli statali, finiscono per sostituire monopoli privati a monopoli pubblici, senza benefici per concorrenza e consumatori e alimentando scandalose posizioni di rendita per azionisti di maggioranza, spesso a danno degli stessi azionisti di minoranza. Sulle privatizzazioni fatte e su quelle da fare va condotto a livello tecnico e politico un dibattito serio e non ideolgico. Senza scandalizzarsi, come si fa da troppi pulpiti «interessati» difensori del Mercato, se il governo vigila con attenzione maggiore che in passato, sia pure con qualche difetto di ingenuità, su vicende come Autostrade-Abertis e Telecom. Oggi chi ha a cuore i veri interessi del paese dovrebbe piuttosto scandalizzarsi del contrario.