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Israele, niente ritiro se l'Unifil non spara

di Stefano Chiarini - 29/09/2006

 
Scontro per il controllo dei servizi di sicurezza libanesi tra il fronte filo-Usa e quello della resistenza. I ministri sciiti tra poche settimane fuori dal governo?
Stefano Chiarini
L'esercito israeliano, che ancora occupa con circa 5.000 uomini una dozzina di postazioni e villaggi in territorio libanese per una profondità da uno a tre chilometri, ha rimandato di nuovo il ritiro dal Libano chiedendo che le truppe Unifil cambino le loro regole d'ingaggio e inizino al più presto una ricerca attiva dei depositi di armi della resistenza, operino fermi e perquisizioni, aprano il fuoco in caso di presenza vicino a confine di militanti della resistenza ed impediscano con la forza qualsiasi manifestazione di massa al di là della linea di confine. Manifestazioni come quelle di venerdì scorso convocate dalla resistenza islamica e dal Partito Comunista Libanese per protestare contro l'inerzia dell'Onu di fronte al mancato ritiro israeliano dalle zone di Kfar Kila, Markaba, Blida, Maroun al Ras, Rmeish, Ramiyeh, Marwaheen e Yarin, contro lo spostamento in alcuni punti della linea di confine, la distruzione totale di campi e frutteti per una profondità di almeno un chilometro, i lavori per il dirottamento delle sorgenti del Wazzani e le violazioni dello spazio aereo libanese. Se tali manifestazioni dovessero continuare e se le truppe dell'Onu non dovessero intervenire, ha ammonito ieri il capo di stato maggiore israeliano generale Dan Halutz, le truppe di Tel Aviv d'ora in poi apriranno il fuoco contro i dimostranti che dovessero lanciare dei sassi «mettendo in pericolo la vita dei soldati» chiusi nei loro bunker. In ogni caso Israele, ha sostenuto ieri il ministro della difesa, il laburista Amir Peretz, continuerà a sorvolare il Libano con i suoi caccia fino a quando gli Hezbollah non avranno liberato i due soldati israeliani catturati il 12 luglio scorso (al fine di uno scambio con alcuni prigionieri libanesi) e fino a quando non sarà stato «sigillato» il confine tra il Libano e la Siria per bloccare qualsiasi rifornimento di armi alla resistenza. Non solo. Secondo quanto ha scritto ieri il quotidiano israeliano «jerusalem Post» citando una fonte del ministero della difesa, se l'Unifil non dovesse accettare i diktat del governo Olmert, l'esercito di Tel Aviv sarebbe pronto «a rimanere in Libano tutto il tempo che sarà necessario». Una vera provocazione che lo stesso premier libanese filo-Usa Fouad Siniora ha sentito ieri sera la necessità di condannare senza mezzi termini chiedendo un immediato ritiro delle truppe di Tel Aviv anche dalle fattorie di Sheba, enclave libanese occupata nel 1967, e il loro passaggio sotto il controllo dell'Onu. Per tutta risposta Israele ha iniziato a costruire attorno al paese di Gajhar, diviso in due dal confine stabilito dall'Onu, una specie di muro che ingloberà nella parte occupata anche quella ancora sotto controllo libanese.
Intanto le pressioni americane e francesi sul governo libanese perché imponga, con l'aiuto delle forze multinazionali, il disarmo della resistenza stanno spingendo la Repubblica dei cedri verso una nuova drammatica crisi politica dalle conseguenze imprevedibili. La tensione tra le forze filo-Usa, filo-Parigi e filo-saudite del «14 marzo» (la Hariri Inc. le destre falangiste, il leader druso Jumblatt) e il «fronte patriottico» che sostiene la resistenza (i partiti sciiti Amal e Hezbollah, il generale maronita Michel Aoun, i sunniti anti-Hariri, il Partito Comunista) cresce ogni giorno di più e già si parla, dopo il Ramadan, di una possibile uscita dal governo dei ministri sciiti. Da alcuni giorni si è infatti aperta una gravissima crisi istituzionale per il controllo dei servizi segreti provocata dal tentativo del ministro degli interni Ahmad Fatfat (14 marzo) di creare una nuova super-agenzia di intelligence collegata ai servizi americani (sotto la copertura Unifil) che dovrebbe utilizzare e centralizzare le banche dati della «Sicurezza Generale» guidata dal generale Wafic Jezzini considerato vicino alla resistenza. Quest'ultimo ha respinto al mittente l'ordine del ministro e al suo fianco è sceso subito in campo il presidente del parlamento, lo sciita moderato Nabih Berri. Una vicenda questa che se se non si dovesse trovare una soluzione di compromesso potrebbe portare direttamente alla crisi di governo. A gettare altra benzina sul fuoco è arrivata ieri anche il segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, che in un'intervista al Wall Street Journal, ha rivolto un appello perché altri stati della comunità internazionale si uniscano agli Stati Uniti nell'imporre nuove sanzioni alla Siria.