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Rischio suicidio per il Vecchio continente. L’Europa nel libro di Pietro Barcellona

di Giacomo Schettini - 05/10/2006

 
L’Europa e le sfide del liberismo nel libro di Pietro Barcellona

Il libro di Pietro Barcellona, Il suicidio dell’Europa (Dedalo editrice), è un testo di cultura militante, non nel senso di essere schierato con questa o quella dottrina filosofica o con questo o quell’orientamento politico, ma nel senso di disvelamento (stavo per dire “apocalittico”) di un rischio di una rottura ontologica. Infatti la densissima riflessione di Barcellona si misura con le peculiarità mediterranee ed europee di paradigmi come, niente di meno, la mente, la coscienza, le passioni, la memoria, il tempo, lo spazio, la dimensione sociale e storica che incorporano, di contro, con le tendenze alla neutralizzazione e alla naturalizzazione attraverso cui una parte della tecnica e del pensiero contemporaneo assedia quei paradigmi. I moderni e i contemporanei - soprattutto Cartesio, Hobbes, Galileo, Hegel, Marx, Nietzche, Heidegger e poi Husserl, Luman, Foucault e molti altri - stanno in un serrato faccia a faccia tra di loro e con gli antichi - in particolare Socrate, Aristotele, i Sofisti, Eschilo - e in questo faccia a faccia si ripercorrono le domande estreme, i dubbi esistenziali, le elaborazioni istitutive. La filosofia, la politica, la tragedia furono invenzioni che dovevano sostenere l’uomo di fronte all’angoscia dell’imprevedibile (Emanuele Severino) ovvero istituire - come ritiene Barcellona - spazi dell’elaborazione dell’io distinto dal mondo, del senso comune all’interno della polis, della “misura” come risultato catartico dello scontro irriducibile tra due ragioni (Antigone e Creonte). Il primo frammento di Eraclito ammonisce di “spegnere la dismisura più di qualsiasi altro incendio”. La misura, comunque, non è neutra, non è estranea ai suoi contenuti: vi è una misura dello stato di cose esistenti, della frontiera, dell’oltre.

Ora - nel corso di una transizione di egemonia, come se ne sono verificate poche in molti secoli, quella dell’Olanda sulle città stato, quella dell’impero britannico sull’Olanda e quella degli Stati Uniti sull’impero britannico (Giovanni Arrighi) - l’Europa si trova davanti a scelte che condizioneranno la sua storia: un prevalere della negoziazione separata dei suoi Stati con l’impero atlantico con conseguente perdita di potere contrattuale, oppure la diffusione di governances con una conseguente dipendenza dal Fondo monetario, dalla Banca mondiale, dal Wto.

La linea di frattura su cui si sofferma Barcellona, è quella che riguarda la sfera culturale, antropologica dei fondamenti dell’agire politico e sociale euromediterraneo. La distinzione tra io e mondo, la misura come regolazione dei contrasti (la hubrys si stempera in polemos), le spinte “diaboliche”, cioè alla separazione, possono mettersi addirittura in comunicazione attraverso una tendenza al simbolico. Le coppie oppositive stabiliscono relazioni. E’ così che la migliore tradizione culturale e politica dell’Europa arriva a concepire e a praticare l’uguaglianza come punto di riferimento della libertà. Infatti Gobetti, elaborando la nozione di autonomia, opera questo congiungimento che sarà alla base, arricchito dalle teorie e dalle pratiche ben più radicali dei comunisti e dei socialisti, delle esperienze, grandi e tragiche insieme, del socialismo reale, dello stato sociale, del patto di Bandung (Samir Amin).

Sia detto, tra parentesi, che la categoria di “autonomia gobettiana” rappresentò la chiave con cui Carlo Levi interpretò la civiltà contadina e la stessa storia del mezzogiorno.

Queste invenzioni, queste elaborazioni della società e della storia sono assediate da parte di teorie e pratiche, peraltro proiezioni del neoliberismo e del pensiero unico, che pretendono di oggettivarne e neutralizzarne la sostanza e la funzione. Infatti le neurotecniche, la biopolitica, spostano su un terreno naturalistico e neodeterministico addirittura la mente, le passioni, la coscienza oltre che la dimensione sociale e la storia.

Il capitalismo di nuova generazione sta passando dallo sfruttamento della natura, le cui risorse erroneamente furono ritenute, dall’illuminismo in poi, inesauribili, allo sfruttamento della vita. Sara Ongaro ha scritto nel suo libro Donne e globalizzazione che il corpo della donna sarà il laboratorio, il petrolio delle forme di accumulazione capitalistica del futuro. Insomma siamo di fronte al primato della efficienza a danno dell’efficacia. Siamo di fronte ad una “connessione monetaria” invece che dei sentimenti. Si rincorre il denaro che fa ottanta volte il giro del mondo in un giorno e col denaro si rincorre il successo, ma la rincorsa del successo spesso si lascia dietro la scacco (Serge Latouche) perché le umiliazioni, le frustrazioni rappresentano quasi sempre gli esiti della competizione.

Un sistema guerra-precarietà fa da sfondo a queste tendenze, che stanno mutando anche il rapporto col tempo. Il tempo non è più percepito come la misura delle trasformazioni, come il luogo in cui la memoria ripercorre, elabora, prevede, ma come istante, attimo, presente da consumare. Il sentimento nostalgico, persino tragico, di fronte al “perire dei tempi”, che percorre la grande poesia da Orazio a Leopardi, diventa una manipolazione al fine di rimuovere le nuove forme di alienazione prodotte dalla incapacità di progettare, per quello che è umanamente possibile, la propria vita.

Si pretende di sgomberare le donne e gli uomini dalla storia per trasferirli nel mercato, le cui leggi tutto riducono a una fruizione usa e getta.

E’ possibile una alternativa a questi processi? Bisogna trovarne le vie e i modi. L’organizzazione tecnologica della produzione e dell’esistenza non può porsi come fatale dominio della tecnica. Ritorna la cruciale questione dell’appropriazione privata dei prodotti della tecnica e della scienza (brevetti, procedure, innovazioni di prodotto, al fine di fabbricare beni non energivori e che soddisfino bisogni non indotti dal consumismo) come condizione per riportare la tecnica alla sua dimensione strumentale.

Decisiva per una alternativa resta comunque la democrazia partecipativa. Barcellona, come già Gramsci, sostiene che una trasformazione reale o è molecolare o non è. I processi che portano alla trasformazione debbono comunque essere sostenuti da un progetto, ecco perché non appaiono convincenti le categorie della singolarizzazione e della moltitudine, al di fuori di un orizzonte strategico, pensate da Negri e da Hart.