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Santoro è bollito, largo alle facce nuove (Massimo Fini)

di Massimo Fini e Carlo Passera - 12/10/2006

 Massimo Fini, “finalmente” Michele Santoro è tornato in tv, con risultati peraltro deludenti. Tanti commenti si possono fare alla vicenda, e anche questo: visto da destra (ma non necessariamente) vi sono epurati di serie A, che prima o poi si pigliano la loro rivincita, ed epurati di serie B, condannati al perenne oblio.
«Come ben sai, non si va in televisione - ed è molto difficile rimanervi - se non si appartiene a una delle due greppie, quella di sinistra o quella di destra. Quando comandano gli uni vengono epurati gli altri, a parte qualche martire solitario che viene sempre graziato; cambia il colore del potere e si ribaltano semplicemente le vittime. È una lottizzazione che esiste dagli anni Settanta, quando venne promulgata la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, e non lascia alcuno spazio per voci diverse da quelle schierate all’interno della diade Cdl-Unione. Il problema di fondo è che i partiti, organizzazioni private, occupano la televisione pubblica italiana gestendola come pare a loro».
Peraltro il ritorno di Santoro è stato un flop.
«Questo è un segnale interessante: un giornalista, come un magistrato, dovrebbe fare solo il suo mestiere; se lo abbandona, magari per buttarsi in politica, non dovrebbe ritornare sui propri passi. Dunque credo che l’insuccesso di Santoro sia sostanzialmente un segnale positivo».
L’impressione è che Santoro si sia avvicinato al proprio ritorno in tv come un “sopravvissuto di un’altra epoca”: ha tentato di riportare indietro le lancette del tempo (all’Anno Zero, appunto), mentre un altro anchorman come Giovanni Floris, sempre di sinistra ma televisivamente “nato” durante il quinquennio Cdl, col rinnovato successo del suo Ballarò pare maggiormente in grado di rappresentare l’attualità politica odierna.
«Questo significa un’altra cosa: la tradizionale inamovibilità di chi conduce i principali programmi di informazione ha bloccato per anni l’emergere di risorse nuove, pur sempre all’interno della logica perversa che abbiamo appena descritto. Per quanti anni abbiamo avuto Santoro, e per quanti anni lo avremo ora? Da quanto tempo dobbiamo sorbirci Bruno Vespa? Il ricambio dov’è?».
Servono giovani leve.
«Giovani o meno giovani, non è una questione anagrafica: Indro Montanelli aveva 80 anni ma comunque diceva cose interessanti. Servono però idee nuove, personaggi non ammuffiti. Ma tutto va ricondotto al problema iniziale: se manca un vero confronto e si agisce in sostanziale regime di monopolio - o duopolio, poco cambia, per cui energie diverse fanno fatica a entrare, o non entrano in assoluto».
Mi sembra venga spontaneo il confronto tra il mondo del giornalismo e quello della politica. Il secondo da tempo è in mano a una gerontocrazia senza futuro, il primo a sua volta è dominato da vecchie cariatidi, oppure da una “lobby cinquantenne” di amici degli amici, ex movimentisti negli anni Settanta, che hanno sponsorizzato a vicenda le rispettive carriere. In qualsiasi caso situazioni “chiuse” al vento della novità (e della meritocrazia).
«Nella carta stampata emerge un dato strutturale negativo, seppur meno clamoroso di quello che si riscontra in ambito televisivo: la pluralità delle testate è fittizia, quelle che contano davvero sono pochissime e i partiti vi hanno messo direttamente o indirettamente le mani sempre a partire dagli anni Settanta. Allora lo facevano con i comitati di redazione politicizzati (composti rigorosamente da un comunista, un socialista e un cattolico), oggi in altro modo, ma con i medesimi risultati. In questo schema come possono emergere nuove figure? Intanto vale il principio che un giornalista, se assunto, non può essere licenziato...».
Non ti pare giusto?
«In questa situazione è anche giusto: il licenziamento di un giornalista, là dove il libero mercato è limitatissimo, significherebbe in sostanza mandarlo a spasso, che sia o no un bravo professionista ma magari “scomodo”. Come si vede, l’anomalia che si riscontra nelle tv e tra la carta stampata è del tutto simile: manca il confronto, la pluralità di voci».
Tu sei un nemico del libero mercato, eppure lo invochi nel campo dell’informazione!
«In questo campo non solo è utile, ma risulta addirittura decisivo per garantire un sistema democratico. Se avessimo un solo organo di informazione (in tv ci siamo vicini) saremmo in un regime dittatoriale».
Ovvio: il libero mercato delle informazioni (e delle idee, e della conoscenza) è funzionale alla democrazia.
«Proprio così, non c’è dubbio, né vedo una strada alternativa. La cosa curiosa è questa: in una società liberale e liberista in ogni campo e dove il libero mercato spadroneggia con conseguenze pesanti per la vita dei cittadini, l’unico settore dove questo manca è quello nel quale è indiscutibile ci debba essere davvero. Eppure è proprio dal confronto tra le idee che un Paese può arricchirsi politicamente e culturalmente; la mancanza di idee spinge invece alla stessa fine che ha fatto l’Unione Sovietica».
Parlavamo prima di un Montanelli ottantenne ma dalle idee “fresche” e, all’opposto, di tanti giornalisti “bolliti”. Non so se vada inserito nella prima o nella seconda categoria (ho un sospetto), di certo tra gli “epurati di Sofia” - ossia i personaggi tv cacciati dalla Rai in seguito al diktat del neo-premier Silvio Berlusconi - vi fu anche Enzo Biagi. Proprio in questi giorni esce con un suo nuovo libro che dall’esperienza televisiva de Il Fatto prende l’abbrivio. Cosa ne pensi?
«Non siamo noi a dover decidere chi sia bollito o meno, chi sia bravo e chi invece un cane: deve essere l’insieme dell’opinione pubblica, che compra un giornale e vede una trasmissione oppure preferisce fare altro. È chiaro che se non c’è piena libertà di scelta e di offerta il meccanismo non funziona e si creano graduatorie del tutto arbitrarie. Prendiamo appunto Il Fatto: faceva buoni ascolti, ma non sappiamo dire se un programma analogo, condotto da un volto nuovo, avrebbe fatto meglio o peggio».
Al di là dei casi singoli, che giudizio dai delle “epurazioni” di allora e dell’atteggiamento degli epurati, divenuti martiri osannati al punto da acquisire in popolarità (mentre vi sono ostracizzati da sempre, come Oliviero Beha e tu stesso, che rimangono perennemente in panchina)?
«Lo abbiamo detto più volte: il sistema oligopolista pone di fronte a due aberrazioni. La prima è quella relativa alla mancanza di una pluralità di opinioni; la seconda è quella in base alla quale divengono martiri personaggi che in realtà sono stati cacciati - ad esempio dal piccolo schermo - in base alla stessa logica che ce li aveva portati. Erano là perché spalleggiati da qualche partito e sono stati cancellati dal palinsesto perché invisi a quell’altro partito che ha scalzato il primo dal potere. Come scandalizzarsi di un meccanismo del quale si è usufruito abbondantemente? Facciamo un esempio: Clemente Mimun. Ora grida allo scandalo perché gli è stata tolta la poltrona di direttore del Tg1, per motivi politici. Ma sempre per motivi politici aveva ottenuto quella carica! I suoi meriti professionali non sono stati presi in considerazione ora, ma non erano stati sostanzialmente presi in considerazione neanche allora».
Mimun tra l’altro ha fama di essere molto bravo.
«Non lo so, non lo posso giudicare: quelli come lui è come se corressero da soli. Fare 10’’ e 4 sui cento metri può essere un buon tempo, ma se gareggi con chi fa 9’’ e 97 la figuraccia è garantita».
Non è che gli epurati di sinistra fanno comunque più notizia e scalpore di quelli di destra?
«Sì, la sinistra riesce ancora ad esercitare una prevalente influenza ideologica sul Paese. Però c’è anche un altro motivo: quella fazione ha storicamente meglio preparato i propri uomini, mentre la destra non l’ha fatto. Usciamo un attimo dall’ambito televisivo: la sinistra almeno per alcuni anni ci ha dato intellettuali di un certo interesse mentre la destra, una volta tornata all’onor del mondo, non ha partorito un bel niente».
Traduciamo brutalmente, tornando all’ambito televisivo. Esiste un “soccorso rosso” che interviene prontamente, ma ci sono anche ragioni oggettive se la cacciata di Michele Santoro fa scalpore e invece quella di Giovanni Masotti molto meno...
«È proprio così. Negli anni 1992-94 si ruppe l’egemonia della sinistra nell’ambito della cultura e dunque la destra avrebbe dovuto avviare una propria politica in questo campo, sulla scorta dell’insegnamento in base al quale è necessario copiare ciò che l’avversario fa di buono. Invece non si è visto nulla. L’esempio più clamoroso - ma risaliamo indietro nel tempo - è quello di Pier Paolo Pasolini».
In che senso?
«Pasolini venne “regalato” alla cultura di sinistra pur non essendo affatto un intellettuale di quell’ambito. A leggere il suo pensiero era anzi profondamente reazionario, a mio giudizio in termini assolutamente positivi. Ma una destra culturale non esisteva o era rarissima, c’era solo un’ala cattolica con personaggi come Ermanno Olmi o Pupi Avati: dunque Pasolini - che doveva anche “scontare” la sua omosessualità - si trovò in qualche modo costretto a dialogare e poi farsi coinvolgere dall’intellighentzia “progressista”».
Hai toccato il punto della sua omosessualità: gli provocò parecchi problemi anche col Pci, venne espulso dal partito.
«Certo, Pasolini come minimo era “totalmente anomalo” e si schierò a sinistra perché non c’era altro posto dove stare».
Una volta tu mi raccontasti delle difficoltà del tuo “essere epurato” di lungo corso...
«Stop. Non ho nessuna voglia di fare il “censurato” a tempo pieno, di fare il martire e di sfruttarne i relativi vantaggi d’immagine. Ritengo di avere alle spalle un’opera di qualche valore e su questo voglio essere giudicato».
Non giochi la carta-martirio.
«No, perché non mi sembra che una persona si qualifichi in base al fatto che sia stato epurato o meno. La posizione che vedo come la più simile alla mia è quella di Daniele Luttazzi».
Ossia?
Lui ha pagato personalmente e pesantemente: era un bravo personaggio televisivo e rimane tutt’ora emarginato, né mi pare si parli molto di lui».
Fa teatro.
«Certo e so che ha successo, il che non è per nulla semplice. Ma mi sembra sia rimasto molto isolato, lo trovo un personaggio anomalo».
Sullo sfondo della nostra discussione c’è un tema ancor più “pesante”: il rapporto tra media e potere, in Italia ma direi in tutte le democrazie avanzate. L’impressione è che la capacità della stampa (e del giornalismo televisivo) di far le pulci al sistema politico ed economico vada man mano riducendosi.
«Ovvio, perché il sistema acquisisce sempre più il controllo dei mezzi di informazione».
Lo scandalo Watergate distrusse un presidente come Richard Nixon che, lo abbiamo ricordato in altre occasioni, fu tra i migliori della storia statunitense. Ma al di là del merito, la sensazione è che oggi nemmeno il quarto potere Usa - tradizionalmente forte - avrebbe più la forza di allestire un’operazione di tale portata.
«Quel che posso dire è che la stampa americana resta mediamente tra le più libere del mondo, coerentemente coi principi di quella democrazia. Di sicuro la situazione si è fatta difficile, ma vediamo personaggi fortemente antagonisti - come Noam Chomsky, come Gore Vidal, come è stata Susan Sontag - che mantengono le posizioni. Piuttosto, è preoccupante e significativa un’altra cosa: il ministero Usa alla sicurezza ha varato un programma di monitoraggio delle opinioni anti-americane su tutti i media del mondo, ad esclusione di quelli statunitensi, perché là la legge vieta questo tipo di controllo. Insomma: la libertà di stampa resta un valore intangibile sul suolo yankee, ma diventa invece qualcosa che si può tranquillamente calpestare altrove... Aggiungo che oltre al monitoraggio - già un’intimidazione di per sé - questo programma spiega che, in casi estremi, potranno essere prese “misure preventive”».
Bombarderanno qualche redazione!
«Già, alla luce della dottrina Bush tale definizione fa un po’ venire i brividi. Bombarderanno le redazioni ostili o rapiranno i giornalisti scomodi, facendo fare loro la fine di Abu Omar? All’esterno gli Usa sono diventati un Paese estremamente inquietante, mentre al loro interno restano nonostante tutto una democrazia abbastanza coerente con se stessa. Ecco perché, se loro nei confronti del resto del mondo perseguono senza troppi scrupoli i loro interessi, noi dovremmo imparare a perseguire i nostri, invece di rimanere sempre a ruota».
Forse è anche per queste opinioni che non puoi tornare in tv...
«Beh: si paga il non appartenere a una banda. Oggi più che nella Prima Repubblica, perché allora c’erano almeno molti interstizi, mentre ora tutto è rigidamente connotato dalla logica bipolare, che pure è falsa perché gli uni e gli altri sono sostanzialmente la stessa cosa».
Fare il “terzista” è dunque impossibile. A meno di non essere amici di Paolo Mieli.
«Solo perché quelli della sua banda non sono veri terzisti ma semplici “bilancisti”: stanno con l’uno o con l’altro a seconda della convenienza, appoggiando il più forte. È la posizione più conveniente, ma anche più schifosa. Almeno i faziosi veri ci mettono la faccia e possono essere giudicati...».
Dunque, gioco della torre: chi butti tra Paolo Mieli e Emilio Fede?
«Sicuramente Mieli».