Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pasticcio afgano

Pasticcio afgano

di Roberto Zavaglia - 26/10/2006

Gli inglesi, è noto da secoli, la guerra la sanno fare. E’ opportuno ascoltarli con attenzione quando esprimono delle valutazioni sui conflitti in cui sono impegnati. Negli ultimi giorni, gli esponenti dell’esercito britannico non sono stati avari di dichiarazioni sorprendenti. Ha incominciato il capo di Stato Maggiore, Richard Dannat, il quale ha detto, senza troppe perifrasi, che sarebbe ora che le truppe straniere se ne andassero dall’Iraq, poiché sono parte del problema e acuiscono le tensioni. Ed Butler, comandante di un battaglione di paracadutisti in Afghanistan, appena rientrato in patria ha invece duramente criticato le modalità dell’impiego delle truppe nel sud del Paese, mostrandosi pessimista sulla situazione. Infine, mercoledì scorso, David Richards, comandante in capo della Nato in Afghanistan, ha candidamente ammesso che gli occidentali hanno ancora sei mesi di tempo per impedire una rivolta più o meno generalizzata della popolazione.

  Se rimaniamo al solo Afghanistan, verifichiamo che non si tratta di parole dettate da eccessivo pessimismo. In questi giorni, gli inglesi si sono ritirati, dopo averlo difeso strenuamente da attacchi ripetuti, dal distretto di Musa Qala, nella provincia meridionale di Helmand. Si dice che il ritiro sia stato addirittura concordato con i capi dei talebani. Vero o meno, resta il fatto che si trattava di una roccaforte ormai indifendibile. La condizione delle truppe occidentali è difficile non solo sul confine sud con il Pakistan ma anche in quello orientale, nella provincia di Kunar, dove comandano le milizie Hizb-e Islami di Gulbuddin Hekmatyar, il quale dopo essere stato un fiero nemico dei talebani ora si è alleato con loro. In questa zona opera anche quel che resta delle truppe di Al Qaeda che agiscono autonomamente dagli altri gruppi. Secondo alcuni specialisti di questioni afgane, si starebbe creando una situazione simile a quella che precedette l’insurrezione contro gli occupanti sovietici, con tribù e milizie che, progressivamente, mettono da parte le proprie controversie per unirsi contro gli invasori.

  Questo scenario suscita sorpresa nelle opinioni pubbliche occidentali che ne vengono a conoscenza solo oggi, dopo essere state rassicurate, per anni, che la guerra era ormai conclusa. Un conflitto che sembrava risolto velocemente, dopo la relativamente facile presa di Kabul, si dimostra invece ancora pieno di insidie. Una volta di più, la grande stampa non ha fornito un’informazione adeguata, concentrando il fuoco dell’interesse sull’Iraq e accontentandosi delle verità ufficiali delle forze di occupazione. E’ da più di due anni che i giornali indipendenti, come il nostro, e i siti di controinformazione segnalano che la situazione in Afghanistan è tutt’altro che pacificata e che i “progressi politici, sociali ed economici” sono quasi esclusivamente di facciata. Tutto ciò nel silenzio del circuito mediatico internazionale, che si è limitato a osannare la liberazione dal burqa ( tuttora massicciamente usato) e la grande partecipazione democratica dell’elezione di Karzai, il quale è così popolare da controllare, a stento, solo Kabul e la sua periferia. Certamente, come affermano i comandanti inglesi, una parte dei problemi degli occidentali deriva dalla decisione degli Usa di aprire, a poco tempo dalla caduta dei talebani, il  nuovo fronte iracheno.

  Al di la’ dei rilievi operativi, c’è però una questione di carattere generale alla base delle difficoltà di Usa e alleati in Afghanistan. Questa, fra le guerre intraprese negli ultimi anni dagli statunitensi, è stata quella che, inizialmente, ha riscosso maggiore consenso internazionale. Si era a ridosso dell’11 Settembre e una punizione per gli autori della strage sembrava più che meritata. Gli Usa hanno però trasformato la loro ritorsione in qualcosa di più ampio, inserendola nel quadro della pratica del “regime change” e dell’intervento umanitario nei confronti di uno Stato sovrano. La cattura di Bin Laden non sarà stata solo un pretesto, ma è presto passata in secondo piano rispetto all’obiettivo dell’occupazione del Paese per installarvi un regime amico al posto di quello “oscurantista e nemico dei diritti dell’uomo” che lo governava. La missione Enduring Freedom e tutti i successivi aggiustamenti hanno assunto un contorno incerto. Si tratta di un’operazione unilaterale di polizia militare per punire dei terroristi o di una missione internazionale di ingerenza umanitaria o, ancora, di un’azione da parte di un’alleanza militare, la Nato, per occupare un Paese ritenuto strategico?

  La guerra in Afghanistan è stata, in fasi successive, tutto questo e ora lo è simultaneamente. Il crollo del diritto internazionale non ha prodotto nuove regole condivise e, di conseguenza, le tre interpretazioni dell’avventura afgana si prestano a critiche anche da parte di alcuni dei componenti della missione. Anche da ciò nasce la confusione sul campo, con alcuni Stati, come il nostro, che vorrebbero operare solo per il “mantenimento della pace” e la ricostruzione, mentre statunitensi, britannici e canadesi stanno combattendo le battaglia più dure, a sentire le testimonianze dei soldati, dai tempi del conflitto in Corea. Se in questa fase di assenza di regole è, di fatto, chi decide a forgiarne di nuove, bisogna riflettere molto attentamente quando si sceglie di seguire i “decisori” statunitensi. Non ci si venga poi a lamentare, a seguito di un probabile aumento dei nostri caduti, che i “nemici” non seguono, nei confronti delle truppe italiane, le “regole di ingaggio” che abbiamo scelto.