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Il valore dei numeri. Francesco Checchi, epidemiologo, spiega lo studio sulla mortalità in Iraq

di Valeria Confalonieri - 26/10/2006

L’11 ottobre sono stati resi noti i risultati di una ricerca sulla mortalità in Iraq, pubblicata sulla rivista medica Lancet, secondo la quale le vittime della guerra sarebbero oltre 600mila (con un possibile margine di errore nella valutazione, che può far variare la cifra da un minimo di 426mila a un massimo di 794mila vittime). PeaceReporter ha chiesto il parere di Francesco Checchi, epidemiologo, attualmente alla London School of Hygiene and Tropical Medicine. Specializzato in medicina tropicale e valutazioni sanitarie nei contesti di crisi, Checchi ha coordinato diversi studi di mortalità, in Angola, Thailandia, Darfur e Uganda. 

Qual è la sua impressione sui risultati della ricerca sulla mortalità in Iraq, pubblicata su Lancet, che riporta oltre 600mila vittime della guerra?
Penso che sia la fonte di informazioni più valida tra quelle attualmente a nostra disposizione, e quindi meritevole della massima attenzione. Riconosco tuttavia alcuni possibili difetti nella metodologia, che potrebbero parzialmente spiegare l’entità sorprendente delle stime. Sebbene le cifre totali abbiano comprensibilmente destato molta attenzione, ci sono altri aspetti dello studio che meritano di essere sottolineati, come la tendenza a un aumento della violenza negli ultimi due anni e una progressiva variazione nel profilo dei decessi, ora più che mai apparentemente dovuti alle forze anti coalizione, e ad armi leggere. Infine, l’aumento della mortalità generale, anche escludendo le cause violente. Nei paesi poveri o con conflitti, condurre un’inchiesta epidemiologica è praticamente la sola opzione praticabile per poter ottenere una stima realistica di qualunque indice sanitario: nel caso dello studio di Lancet, il tasso di mortalità in Iraq prima e dopo l'invasione angloamericana e le cause e circostanze dei decessi. 

Alle famiglie intervistate non è stato richiesto (per motivi di sicurezza dei ricercatori e delle famiglie stesse) di specificare se le vittime erano o non erano combattenti: quale influenza può aver avuto questa mancata distinzione sul differente conteggio rispetto ai dati di Iraq Body Count (circa 50mila morti)?
E’ molto importante sottolineare questa differenza tra le stime dello studio di Lancet e quelle di Iraq Body Count. Quest’ultimo si focalizza sulle vittime civili del conflitto, mentre l’inchiesta su Lancet presenta un numero totale di morti per violenza, chiunque essi siano: civili disarmati, miliziani, poliziotti e soldati iracheni, mercenari o criminali comuni e le loro vittime. Inoltre lo studio presenta il numero di vittime ‘indirette’ del conflitto, cioè legate a un aumento della mortalità generale per le condizioni sanitarie deteriorate. E’ difficile dire quanto questa differenza possa di per sé spiegare l’ovvia disparità tra le due stime (circa 550mila). Basandomi su quanto si può leggere sui giornali, immagino che le forze di sicurezza irachene debbano aver subito perdite ingenti. Delle varie forze ribelli si intuisce ben poco, ma sembra chiaro che anch’esse si espongono a gravi perdite. Del resto, il profilo medio della vittima di violenza secondo lo studio di Lancet è chiaro: prevalentemente uomini di età compresa tra i 15 e i 59 anni (ciononostante, le frequenti uccisioni di anziani, donne e bambini sono anch’esse sconcertanti). Tutto ciò, tuttavia, probabilmente spiega solo in parte la differenza tra le stime altissime di Lancet, e quelle di Iraq Body Count, della stessa Coalizione e delle Nazioni Unite, che ultimamente danno a circa 100 il numero delle vittime quotidiane nella sola Baghdad. E’ naturale rimanere perplessi dinanzi a tali stime, e chiedersi come sia possibile che i media si siano lasciati scappare circa 400 morti al giorno dal 2003 in qua. Ipotizzando che lo studio sia corretto, posso abbozzare qualche spiegazione. Primo, è un dato di fatto che, in ogni conflitto moderno, qualunque sistema di conteggio dei morti basato su resoconti dei media o registri mantenuti dagli obitori si sia successivamente rivelato altamente incompleto e inefficiente. Il lavoro di Iraq Body Count è meritevole e utile; tuttavia, i fondatori stessi del progetto ammettono che il loro sistema probabilmente non capta più della metà delle vittime (civili). Secondo, l’ambito di operazione dei media in Iraq è sempre più ristretto e sembra da tempo concentrarsi quasi esclusivamente sulla sola Baghdad, cioè su circa un quinto della popolazione irachena. Terzo, è probabile che i familiari dei militari o miliziani caduti evitino gli obitori. Quarto, la criminalità comune e il banditismo sembrano imperversare in Iraq. Uno studio delle Nazioni Unite del 2004 stimava già allora che il 37 percento delle famiglie udisse il suono delle armi da fuoco quotidianamente, il 42 percento ogni settimana; il 28 percento si era procurato armi. Secondo l’inchiesta di Lancet, le armi da fuoco sono diventate la causa principale di morte violenta. E’ quindi possibile che una parte importante dei morti rilevati sia composta da vittime di criminalità, casi che difficilmente attirerebbero l’attenzione dei media. 

Qual è il significato di questo tipo di studi di valutazione della  mortalità in contesti di guerra? Che valore può essere dato alle stime riportate?
A mio avviso, principalmente tre valori. Primo: descrivere lo stato sanitario di una popolazione afflitta da conflitto (di cui la mortalità rappresenta l’indice più sensibile), punto di partenza obbligato per qualunque tentativo di migliorare la situazione attraverso interventi politici o umanitari. Secondo: descrivere quantitativamente le conseguenze sanitarie della guerra, fornendo a ciascuno di noi, qualunque sia stata la nostra convinzione iniziale (favorevole o contraria a un intervento armato), informazioni oggettive per poter giudicare, almeno retrospettivamente, la scelta di intervenire militarmente. Terzo: indicare l’entità delle violazioni degli statuti internazionali umanitari in un determinato contesto: è importante sottolineare il dovere legale delle forze occupanti di proteggere la popolazione civile. 

Quale contributo forniscono queste analisi? Non si corre il rischio che vengano archiviate come valutazioni ipotetiche e non verificabili, sminuendo il conteggio dei morti in obitorio e ottenendo così l’effetto opposto?
Esiste questo rischio, ma è dovuto più che altro a una mancata (o celata) comprensione da parte di politici, giornalisti e opinione pubblica dei metodi e dei vantaggi delle stime epidemiologiche. Il conteggio dei morti in obitorio, nel contesto iracheno, può forse servire a evidenziare tendenze o stabilire un minimo comune denominatore tra tutte le stime, ma non può certo essere utilizzato come metodo di determinazione della mortalità totale. Detto questo, è ugualmente importante comprendere i limiti delle inchieste epidemiologiche, inclusa quest’ultima in Iraq, e mantenere un’attitudine scientifica al problema. Il tentativo di misurare l’impatto di questo conflitto, se possibile con metodi più validi ancora, deve assolutamente continuare. Dai governi della Coalizione si dovrebbe pretendere un maggiore impegno affinché tali studi possano essere condotti in condizioni migliori.