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Questa è la solita “sinistra delle tasse” (intervista a Massimo Fini)

di Carlo Passera e Massimo Fini - 26/10/2006

Massimo Fini, tra i punti della legge finanziaria che più vengono contestati vi è il sostanziale, ennesimo aumento della tassazione, in un Paese dove il livello delle imposte è già alto e, per contro, non garantisce affatto servizi decenti. Perché siamo condannati a pagare senza avere reali benefici?
«È una distorsione crescente, sento che alcuni vogliono portare l’aliquota al 45 per cento per i redditi oltre i 150mila euro, alti senza però essere stellari... Questa esosa tassazione coniugata all’insufficienza dei servizi è una caratteristica della quale l’Italia gode - si fa per dire - da anni. Ho avuto una fidanzata italiana che però abitava in Svizzera; io e lei guadagnavamo più o meno la stessa cifra, solo che io pagavo il 40 per cento di tasse e in cambio dovevo accontentarmi dei pessimi servizi italiani, lei il 22 per cento e sfruttava quelli elvetici. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona».
Cosa non funziona?
«A differenza di quanto accade negli Stati Uniti, dove sono severissimi nei confronti degli evasori, in Italia c’è tanta gente che non paga nulla o quasi. Ciò costringe ad alzare le aliquote a carico di quei poveracci che sono tartassati davvero. Non è l’unico elemento, però: bisognerebbe ad esempio chiarire perché i servizi non sono minimamente all’altezza di introiti fiscali comunque importanti...».
L’eterna questione degli sprechi e dell’assistenzialismo.
«È chiaro che una parte notevole degli introiti viene utilizzata a fini assistenziali, per procurarsi consenso. Del resto, anche tralasciando il classico assistenzialismo nei confronti del Meridione del quale siamo abituati a parlare, penso alle tante casse integrazione “a perdere”, rinnovate per anni e anni fino a divenire eterne e senza che l’operaio abbia alcun interesse a interrompere tale circolo vizioso. Chi paga tutto ciò? Noi cittadini, ovviamente».
Questo “inceppa” anche il meccanismo democratico. La politica può infatti contare sul voto fedele di ampie minoranze (foraggiate dall’assistenzialismo) per resistere alla reazione di coloro che, sempre più torchiati, vorrebbero invece modificare il meccanismo.
«È evidente che il sistema assistenzialista funziona per molti, così gli altri non sono in grado di cambiarlo o meglio di esprimere una classe politica in grado di riformarlo davvero. È anche vero che a questo punto è difficile modificare le cose: dovrebbe essere un processo graduale, necessariamente lento, ma non si capisce neppure da dove poter iniziare; d’altra parte non si può agire radicalmente, perché la situazione è così incancrenita che si rischierebbe di gettare sul lastrico milioni di persone e ciò non è socialmente accettabile. Eppoi i partiti si mantengono proprio grazie a queste clientele, quindi stiamo chiedendo loro decisioni che in realtà non prenderanno mai. Così, se non si riduce l’evasione fiscale né si colpiscono gli sprechi e l’assistenzialismo, rimangono solo due strade da percorrere: o innalzare ulteriormente la pressione dell’erario, oppure ridurre i già scarni servizi forniti al cittadino».
In genere si sceglie, a parole, una terza via: lo sviluppo.
«E se lo sviluppo non c’è?».
Appunto. Con l’ultima Finanziaria assistiamo al classico cane che si morde la coda: viene aumentata la tassazione per avere risorse da destinare (a parole) allo sviluppo, d’altra parte quest’ultimo è frenato dalla stessa accresciuta pressione fiscale.
«Così facendo non si produce sviluppo e anzi si amplifica l’iniquità di fondo tra coloro che pagano le tasse e coloro che le evadono, tra coloro che lavorano e coloro che si fanno mantenere. Spesso poi i profili si sovrappongono: nel senso che chi si fa mantenere neanche paga le imposte. Ma, come ripeto, è quasi impensabile che la situazione possa essere modificata; i partiti su questo clientelismo hanno vissuto e vivono da decenni».
Però c’è una certa differenza tra schieramenti, in Italia e in generale nel mondo occidentale. In genere la destra punta a uno Stato più snello e a diminuire la tassazione, mentre la sinistra a mantenere alto il livello dei servizi. L’Unione nostrana pare molto affezionata a questi ultimi, anche se sono di livello pessimo: in qualsiasi caso alimenta il luogo comune che la vuole sempre pronta a torchiare il cittadino con nuovi e odiosi balzelli.
«Come sempre è “la sinistra delle tasse” perché non vuole incidere sul welfare, assistenziale o meno che questo sia. Dall’altra parte abbiamo la destra anti-tasse e pro-evasione, come Silvio Berlusconi ha spiegato una volta apertamente. Ci vorrebbe qualcosa che non sia né l’uno né l’altro: lo Stato più leggero va benissimo, ma una volta fissate poche regole e una tassazione contenuta non si può tollerare alcuno “sgarro” da parte degli imprenditori».
Tu dici “da parte degli imprenditori”, ma mi sembra che si sia davvero ingenerosi nei confronti di questa categoria. L’attuale maggioranza politica alimenta il luogo comune dei “Brambilla del Nord” che non pagano le imposte, quando in realtà mantengono la baracca e il tasso di evasione fiscale del Meridione è triplo rispetto a quello del Settentrione.
«C’è una questione teorica che riguarda la figura dell’imprenditore in quanto tale. L’economista Werner Sombart all’inizio del Novecento spiegava che lo Stato nell’economia aveva lasciato maglie così larghe da consentire all’imprenditore di non dover violare le regole. Può darsi che tali maglie si siano poi un poco ristrette, ma è anche vero che gli imprenditori le leggi le hanno sempre violate, quasi si sentissero autorizzati a tutto in un mondo dove l’economia è al centro del sistema. Lo disse tanti anni fa anche Enrico Cuccia, gli si poteva credere: “Non ho mai visto un bilancio che non sia falso”. La corruzione della Guardia di Finanza è poi generalizzata... Insomma, hai ragione tu quando difendi i “Brambilla del Nord”; ma teniamo anche conto di quanto ho appena detto».
Insisto: Veneto e Lombardia sono le regioni che producono, pagano le tasse e mantengono il sistema; ora vengono non solo colpite ma anche colpevolizzate. Non c’è un poco di “vendetta politica” in tutto questo? Si è anche parlato di “odio di classe”...
«Non credo si tratti di questo, bensì dell’incapacità o impossibilità di sbaraccare la parte assistenziale del welfare, così il governo va a pescare dove ci sono i quattrini. Nessuna vendetta politica vale la spesa di andare poi a perdere le prossime elezioni: ma è questo che accadrà, se andranno avanti così. Se avessero potuto non tassare senza incidere sul loro sistema clientelare lo avrebbero sicuramente fatto».
È legittima la protesta dei ceti produttivi del Nord? In fondo possono innalzare il grido “no taxation without representation”: non hanno paladini al governo e le loro istanze sono rappresentate poco o nulla.
«La rivolta fiscale, se la fa uno solo ci lascia le penne. Se la fanno in molti, ma nascostamente, è semplice evasione fiscale, dunque una truffa ai danni di quelli che per convinzione o per costrizione devono pagare. È dunque ammissibile solo nella misura in cui la compisse una parte consistente del Paese, ma in modo aperto, dichiarato».
Tu neghi la possibilità del singolo cittadino alla rivolta, o perlomeno alla disobbedienza civile. È un limite teorico, nel senso che trovi una rivolta legittima solo se supportata da una moltitudine, oppure pratico, funzionale, poiché la ribellione di uno solo è destinata a schiantarsi immediatamente?
«È un limite funzionale, il diritto è anche del singolo, solo che verrebbe subito stritolato. C’è un’unica condizione di base: la rivolta è legittima se dichiarata».
In Italia - e in generale nel mondo occidentale - siamo ancora capaci di ribellarci? O il sistema ci anestetizza in un meccanismo democratico (che tu giudichi finto), tanto da toglierci la voglia, la capacità, le energie per disobbedire?
«Io mi auguro che la rivolta sia ancora possibile, ma credo che sia molto improbabile in sistemi molto astutamente articolati come la liberaldemocrazia. L’ho scritto: siamo vittime di un meccanismo sofisticato».
Divago un attimo, ma non troppo, a proposito del sistema democratico come “truffa sofisticata”. Da secoli si rivendica il principio “nessuna tassazione senza rappresentanza”, varrebbe forse anche l’inverso “nessuna rappresentanza senza tassazione”. Eppure il nostro attuale governo si regge grazie al voto di parlamentari residenti all’estero...
«Questo è vero, è stato un errore della destra che era convinta di guadagnarci voti, invece ne hanno approfittato gli altri. Di certo non ha senso che persone inconsapevoli dell’Italia odierna siano decisive per gli equilibri parlamentari. Piuttosto ha più senso dare il voto agli immigrati, dopo un certo numero di anni che pagano le tasse qui da noi».
Per chiudere sul tema del rapporto tra cittadino e Stato visto come presenza sgradita: come sai a Vicenza è stato fischiato l’inno di Mameli, alimentando parecchie polemiche. È legittima questa contestazione nei confronti di un simbolo che si vorrebbe comune, ma che evidentemente non viene percepito da tutti come tale? E che senso hanno oggi i simboli di Stati-nazione sempre più privi di una propria funzione e scavalcati da un lato dal global, dall’altro dalla riscoperta del local?
«I fischi sono stra-legittimi, il reato di vilipendio alla bandiera è tipicamente liberticida, fascista. Non dovrebbe esistere in democrazia, così come tutti i reati di opinione, che invece aumentano, qualcuno vorrebbe addirittura introdurre il reato di “minacce di fatwa”: ridicolo. Da un punto di vista contenutistico, inoltre, gli Stati nazionali nel mondo globalizzato hanno perso gran parte della loro funzione e del loro appeal. In generale è ormai difficile riconoscersi in un Paese, perché tutti gli elementi sono mischiati e si è persa identità. Un poco resiste in posti come l’Inghilterra, perché ci si può ancora dire orgogliosi di essere inglesi. Ma da noi? L’Italia fa abbastanza schifo... I nostri momenti di gloria risalgono al Quattrocento, al Cinquecento: sono insomma un po’ troppo lontani».
Perdipiù quella era un’Italia estremamente policentrica.
«Esatto, era la Penisola dei Granducati e dei Comuni. La storia dell’Italia unita si è rivelata un fallimento».
Insomma: se ne vada questo Stato italiano, con i propri costosi apparati, con le proprie fameliche clientele e anche con la propria inutile fanfara.
«Sì, sarebbe l’ideale, anche perché ormai lo Stato non può che essere oppressivo. Secoli fa era molto meno presente, poteva essere feroce in molte sue espressioni ma era più discreto, appariva ogni tanto, non dava niente però non chiedeva neppure nulla. Le famose decime rappresentavano in realtà solo il 3-4%, oggi siamo a una tassazione del 45%, vien voglia di tornare subito al Medioevo! Inoltre quei popoli, a torto o a ragione, credevano davvero ai propri governanti, al re, lo spiega anche un padre della liberaldemocrazia come Alexis de Tocqueville. Ora invece dobbiamo obbedire a un potere nel quale non crediamo affatto e che anzi disprezziamo: e d’altra parte come aver stima di Romano Prodi, Pierferdinando Casini e compagnia cantante? Bisogna fare grandi sforzi di fantasia per supporre che Piero Fassino abbia diritto di comandarci! Ma questo, ripeto, non è una questione solo italiana: sono i limiti della modernità».