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Costantinopoli 1204: lo scontro di civiltà voluto dall’Occidente

di Silvia Ronchey - 30/10/2006


Quando Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona del 12 settembre ha evocato la frase antislamica di un imperatore bizantino, molti avrebbero potuto credere che l’idea della «cattiveria assoluta» di Maometto fosse diffusa nell’Impero cristiano d’oriente, quello che per otto secoli fu a più stretto contatto con l’Islam. Niente di meno vero. Se vogliamo comprendere la realtà di oggi, il cosiddetto «scontro di civiltà», dobbiamo tenere conto che la guerra santa e la disinvoltura nel convertire con la spada, durante il Medioevo, appartenevano più all’immagine degli occidentali che a quella degli islamici. Anzi, spesso Bisanzio si alleò con l’Islam proprio per difendersi dall’aggressione dei crociati e dal proselitismo confessionale dei papi nei Balcani e nella Mitteleuropa. È in funzione antioccidentale che l’alleanza col grande Saladino, ad esempio, fu inaugurata da un imperatore geniale e carismatico come Andronico Comneno, il protagonista maschile de L’Impero perduto. Vita di Anna di Bisanzio di Paolo Cesaretti (Mondadori, 381 pagg., 19 euro). Un libro polifonico, nella cui narrazione si incrociano molte storie, fra cui una straordinaria, tutta femminile: quella di Agnès, figlia del re di Francia, ribattezzata Anna e iniziata adolescente dal sessantenne Andronico, suo sposo, alla superiorità della cultura di Bisanzio. Le vicende romanzesche di questa imperatrice occidentale convertita all’oriente fanno da contrappunto simbolico a quelle, antitetiche, della definitiva frattura tra l’Europa occidentale e quell’oriente europeo che per un millennio fu Bisanzio.

La grande attualità e utilità de L’Impero perduto di Cesaretti sta anzitutto nella sua minuziosa, severa e anti-ideologica ricostruzione di uno scontro di civiltà diverso ma forse più radicale di quello odierno: il conflitto che otto secoli fa portò noi europei a distruggere l’impero che, da un lato, custodiva la culla stessa della nostra civiltà e, dall’altro, costituiva l’indispensabile interfaccia di mediazione e di dialogo con quel mondo asiatico, già allora sempre più islamico, con cui oggi sempre meno riusciamo a comunicare. Si parla di «deviazione» della Quarta crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli, i crociati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, spiega Cesaretti, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica in luogo di quella ortodossa.

L’irruzione del 13 aprile 1204 fu «il più grande saccheggio della storia del mondo», a detta dello stesso storico francese Goffredo di Villehardouin. Anche se Cesaretti getta acqua sul fuoco delle fonti, l’enormità sacrilega della presa di Costantinopoli, la portata simbolica degli atti di profanazione e distruzione dei latini segnano la più grande svolta della storia di Bisanzio e, dunque, del Mediterraneo medievale. Del resto, la ferocia della «guerra santa» di quei «precursori dell’Anticristo» che «portavano la croce cucita sulle spalle» ebbe come testimone oculare, da parte bizantina, il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici: lo storico Niceta Coniata, segretario del basileus allora in trono ma anche suo massimo critico, pensatore politicamente indipendente e non certo corifeo del potere. Proprio come nella celebre definizione di Steven Runciman, i veri «barbari», nelle frasi di Niceta, non sono i musulmani, che anzi i bizantini difendono a spada tratta quando viene dato fuoco alla locale moschea, ma i crociati, che scannano, violentano, depredano, devastano tutto, che portano «abominio e desolazione» nel Sacro Palazzo, sacrilegio e lerciume nella Grande Chiesa, Santa Sofia, di cui fanno a pezzi perfino il portentoso e maestoso altare: «Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e, anche se il suo fianco non è stato trafitto dalla lancia, il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra».

Ma più ancora delle parole di Niceta, e delle molte altre fonti annodate dall’alacre telaio narrativo di Cesaretti, a rendere la tragica primitività del saccheggio crociato di Costantinopoli è un mosaico della chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna. Le sequenze di questa stilizzata cronistoria visiva della Quarta crociata, una delle quali non a caso è proprio la copertina de L’Impero perduto, sembrano murales contemporanei. In questi disegni in bianco e nero, insieme naïf e raffinatissimi, l’unica differenza tra i crociati dalle spade sguainate e le loro vittime - tra i due popoli cresciuti nella stessa fede, nello stesso retaggio culturale, nella stessa tradizione giuridica - è il colore dei cappelli a punta dei bizantini, rosso come il sangue.