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Vietato sognare. Il declino dell'intellettuale

di Carlo Gambescia - 31/10/2006

 

Angelo Panebianco ieri si lamentava sul Corriere della Sera di una scuola italiana con troppi insegnanti e priva di “qualità”.
Ma perché non parlare di cultura? E magari anche del rapporto tra politica e cultura?
Quel che oggi manca nel dibattito politico-culturale è la forza delle idee. La capacità di progettare e sognare. Il politico si è trasformato in tecnocrate. Oppure in esecutore di ordini di un potere che si trova altrove: nelle mani di finanzieri, banchieri e grande industria monopolistica. L’intellettuale, a sua volta, si è tramutato in una specie di intrattenitore. O al massimo in garante dell’ordine esistente.
Da questo punto di vista, è perciò inutile parlare in termini culturali di destra e sinistra. In passato l’intellettuale di sinistra era per la rivoluzione, e quello di destra per l’ordine. Si dirà, ecco i soliti stereotipi. Giusto. Perché poi fu compito dei processi storici reali mescolare le carte. Si pensi alla rivoluzione conservatrice tedesca: destra e sinistra, in alcuni casi fondendosi, finirono per schierarsi dalla parte della rivoluzione, o comunque, di un ordine sociale, capace, almeno per alcuni sognatori poi isolati o messi in prigione, di coniugare modernità e tradizione. La politica, insomma, mostrava di credere nella cultura e nella capacità di poter trasformare i sogni in realtà, puntando sulle idee forti. Si pensi ai comunisti rivoluzionari russi, che all’indomani della presa del Palazzo d’Inverno erano assolutamente convinti di poter abolire il denaro…
Certo, come mostra la storia del Novecento, il mix poltica-cultura ha dato vita a sintesi esplosive. E i sognatori, a destra come a sinistra, hanno dovuto fare i conti con il drago totalitario. Di qui nel secondo dopoguerra il giusto e doveroso mea culpa, ma anche un avvilente calo di tensione culturale e politica. Di più: a poco a poco, il capitalismo, con i suoi pervasivi meccanismi mediatici ha conquistato politica e cultura. L’intellettuale si è trasformato nel fiore all’occhiello da esibire ai congressi dei partiti. O peggio in giullare televisivo… E il politico in organizzatore del consenso al sistema nel suo insieme.
La decadenza della politica si è così coniugata alla decadenza della cultura. E insieme le due decadenze hanno prodotto la fine di ogni progettualità.
Pertanto, oggi, ha poco senso parlare di funzione della cultura. Del resto nella società occidentale governata da una visione economicista del mondo (non conta quel che sei ma quel che vali in termini economici (di professione, di reddito, successo, e così via), per ora, non può esservi alcuno spazio per cambiare le regole del gioco e neppure per provare a riformularne di nuove: è vietato sognare. Lo stesso discorso vale per la politica. Se conta la quantità, che senso può avere proporre a livello politico discorsi su una diversa qualità della vita? O peggio ancora, della scuola, come fa Panebianco? Quando in realtà anche la scuola riflette meccanicamente una visione "quantitativa" del mondo: lavorista e consumista… Il problema non sono gli insegnanti ( o comunque non solo) ma la pessima qualità culturale di quel che si insegna e trasmette ai ragazzi…
In questo quadro disastroso parlare di destra o sinistra è inutile. Un paio di esempi.
I politici ancora prima di essere eletti, vanno subito a prostrarsi ai piedi del potere bancocratico e finanziario di Wall Street. “Mercato! Mercato. Il Mercato prima di ogni cosa!”, dichiarano entusiasti, da Berlusconi a D’Alema…
Gli intellettuali, o presunti tali, a loro volta, fanno a gara per essere pubblicati dagli editori più importanti, ma, ovviamente, anche più vincolati all’industria culturale. Un settore che, a sua volta, è nelle mani di quelle banche (la grande editoria vive di fidi e anticipi bancari), davanti alle quali i politici sono i primi a genuflettersi.
E così il cerchio si chiude. Ma non per Panebianco… Che vuole licenziare solo gli insegnanti.