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Un patrimonio da salvare: i dialetti d’Italia

di Lina Calabria Meranda - 31/10/2006

 

Le originali “considerazioni in versi” di una scrittrice calabrese

L’’importanza e la
tutela dei dialetti
non sono un argomento
al quale i mezzi di
comunicazione amino dedicare
molta cura; e tanto meno,
figuriamoci, interessano lo
Stato e, in particolare, i gestori
dei cosiddetti Beni Culturali.
Del resto, quel Ministero è
incapace persino di svegliare
l’Accademia della Crusca
immersa in un letargo che le
fa trascurare il progressivo
imbarbarimento della lingua
italiana. Meno che mai si può
sperare in un interessamento
delle Regioni, in tutt’altre faccende
affaccendate. Un discorso
sulla preservazione dei
dialetti potrebbe, quindi, sembrare
del tutto fuori della realtà.
Ma non lo è affatto, se si
considera che esistono non
poche anime belle intente a
custodire la cultura dialettale
con un delicato amore, privatamente,
in silenziosa modestia.
Certo i dialetti hanno circuiti
ristretti e invalicabili limitazioni
spaziali: diciamo che
soltanto quello napoletano ha
una valenza internazionale e
soltanto il romanesco, grazie
soprattutto a Cesare Pascarella
(“La scoperta dell’America”,
un classico) e a Trilussa, è
riuscito ad entrare persino nelle
scuole. Comunque nessuno
potrà mai negare che tutti i
dialetti della nostra Penisola
sono espressioni di una civiltà
etnica, manifestazioni di un’anima
popolare, e che certe
loro particolarità sembrano
gemme, di una luce e di una
incisività anche psicologica
che la lingua nazionale non
sempre raggiunge. Né si sbaglia
affermando che dai dialetti
si sprigiona pure un’antica,
straordinaria vitalità che li fa
apparire, oggi più che mai,
patrimonio prezioso, se non
proprio un’ancora di salvezza
contro la perdita di identità
che ci minacciano la globalizzazione
e la selvaggia immigrazione
mediorientale e africana.
Una dimostrazione di amore
al dialetto l’ha fornita, di
recente, Lina Calabria Meranda
di Cosenza con un originale
volumetto intitolato “Libere
riflessioni evangeliche in versi”.
Questa signora, che ha
lavorato intensamente, con
mansioni direttive, nel settore
alberghiero, è una donna
moderna ed elegante che con
la sua auto vi sorpassa disinvoltamente
sui tornanti della
Sila e che rafforza la sua fede
religiosa attraverso il Movimento
“Rinascita Cristiana”,
molto più attivo, mi sembra,
della assopita Azione Cattolica.
Da questa fede la signora
cosentina attinge anche l’ispirazione
per una serie di componimenti
evangelici che sono
una primizia assoluta nella letteratura
dialettale. «Un avìa
cumu fari / era nu ntippulu e
nun si putìa azari». Non aveva
come fare, era un “tappo” e
non riusciva ad alzarsi. Si tratta
di Zaccheo che, come racconta
l’evangelista Luca, vuole
vedere Gesù che passa tra la
folla e ci riesce salendo su un
albero. In un altro componimento
appare “la samaritana”,
tratta dal Vangelo
di Giovanni: «Queta queta
va ara funtana. / Cumu
si chiama ? buh, “a samaritana”
». Poi comincia il
colloquio, bellissimo, fra
Gesù e la donna. «Azziccannu
azziccannu / alla
verità stanno arrivannu».
Salendo salendo, stanno
arrivando alla verità. E
alla fine la samaritana
dice: «Iu sugnu na povera
analfabeta / ma sugnu
sicura ca tu si nu Profeta
».
Altri episodi, sulla scorta
di Marco e di Matteo,
hanno cadenze e anche
ingenui stupori che richiamano
alla memoria le
lamentazioni del lontanissimo
Iacopone da Todi. Così Maria
di Magdala che va al sepolcro
di Gesù e lo trova vuoto: «I
signi d’a morte un ci su chiù /
ma adduvi hannu misu u suo
Gesù ?».
Bisogna ammettere che il dialetto
cosentino non ha molti
punti di contatto con la lingua
nazionale, come l’hanno,
invece, soprattutto il romanesco
e il toscano: quello rimane
come racchiuso in una specie
di gelosa, magari anche nobile,
asperità. Non è mai plebeo,
come spesso si compiace
di essere il trasteverino,
ma non è nemmeno
di facile pronunziabilità
per gli estranei.
Le sue locuzioni
sono, peraltro, quelle
stesse che usava nella
vita quotidiana e
nell‘ambito familiare,
che so, il filosofo Bernardino
Telesio; e in
convento, con i confratelli,
il Beato Gioacchino
da Fiore “di spirito
profetico dotato”, e il
grandissimo San Francesco
di Paola, uomo
incolto ma consigliere
cercato e ascoltato perfino
dai re di Francia.
Perciò il volumetto di
Lina Calabria Meranda
sarebbe piaciuto anche ad un
illustre glottologo tedesco,
Gerhard Rohlfs, che negli anni
Trenta insegnava Filologia
romanza all’Università di
Tubinga ma conosceva alla
perfezione tutti i dialetti calabresi.
Il professor Rohlfs percorreva
in lungo e in largo,
con una sua avventurosa automobile,
la punta dello Stivale,
riempiva accuratamente centinaia
di fogli e nelle conversazioni
con gli amici inseriva
spesso colorite espressioni
locali, accomiatandosi sempre
con un cordiale «minni vaiu»,
me ne vado. Pubblicò tre
volumi di un “Dizionario dialettale
della Calabria” e poi
addirittura un ponderoso
Vocabolario calabro-tedesco.
Sono sicuro che Rohlfs avrebbe
gustato le “riflessioni in
versi” di Lina Calabria
Meranda e tradotto subito in
tedesco quella sulla parabola
del proprietario della vigna
che, come riferisce l’evangelista
Matteo, assolda i lavoratori,
dando poi a tutti la stessa
mercede senza tenere conto di
quante ore ognuno di essi ha
lavorato: «Ppi mia u tiempu
unn’ha valuri, / basta ca chillu
ca unu fa u fa cun amuri». Per
me il tempo non ha valore,
basta che ciò che si fa sia fatto
con amore.