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Il mercato sempre più impiccione

di Riccardo Bellofiore, Massimiliano Tomba - 03/11/2006

 
Nuove precarietà, sfruttamento, rapina dei saperi. E’ il mercato
(più del capitale) a decidere tutto: tempi, modi e organizzazione del lavoro



Nel 1997 uno sciopero dei lavoratori delle poste statunitensi, l’UPS, che riguardava 185.000 lavoratori, paralizzò il colosso postale. Erano, in gran parte, lavoratori precari, part-time e con salari inferiori a quelli dei colleghi “garantiti”. Ottennero però la loro solidarietà, come quella di altri lavoratori e degli utenti: una solidarietà inaspettata. Le stesse relazioni sociali che gli autisti dell’UPS dovevano coltivare con gli utenti si rovesciarono contro l’UPS, diventando rete di solidarietà a favore del lavoratore “cordiale”. La lotta di quei lavoratori investiva non solo le misere figure contrattuali, ma anche la taylorizzazione della circolazione delle merci e delle informazioni. Un punto importante della controversia riguardava il peso dei pacchi trasportati, spesso eccessivo e tale da causare numerosi infortuni. Quello sciopero ci interroga ancora oggi. Ci ricorda la crescente taylorizzazione del lavoro in un mondo che ci viene raccontato come ‘post-fordista’. La sua persistente materialità, anche quando si estenda oltre il luogo classico della fabbrica. La possibile, anche se mai garantita, comunanza di lotta tra figure disomogenee e però soggette ad un meccanismo unico di sfruttamento.

Lo sciopero dell’UPS è una lezione tanto più preziosa e da tenere a mente quando si voglia davvero aggredire il nodo - sociale e politico, prima ancora che teorico - di cosa è cambiato nell’epoca della c. d. ‘globalizzazione’ del capitale e del c. d. lavoro ‘immateriale’. Non vi è nulla di inedito nel fatto che il capitale metta al lavoro i saperi taciti, le capacità relazionali e cognitive del lavoratore. Ognuno sa che senza un intervento attivo del lavoratore la catena di montaggio non avrebbe trasportato un bel nulla. Non sarebbe forse più proficuo interrogarsi sull’occultamento della dimensione comunicativa all’interno della fabbrica moderna da parte della sociologia industriale? L’aspetto ‘comunicativo’, e anche ‘affettivo’, è oggi più in evidenza perché la valorizzazione sempre più richiede una organizzazione capitalistica del trasporto, invade la circolazione imponendole una velocizzazione, scarica i suoi costi e i suoi tempi sul consumo. Le autostrade sulle quali sfrecciano i TIR non sono che il prolungamento dei nastri trasportatori della catena di montaggio: nastri che arrivano fino al lavoratore postale che ci porta le merci in casa, e passano per il telefonista di un call center che cerca di vendercele. Così come lavorano gratis i consumatori della Wal-Mart, valorizzando il capitale, quando raggiungono i supermercati decentrati o trasportano nei megacentri commerciali la merce alla cassa. E si potrebbe continuare.

Sarebbe però sbagliato non vedere i mutamenti profondi nella dinamica capitalistica, che vanno compresi tanto nelle origini, che affondano nell’antagonismo degli anni ‘60 e ‘70, quanto nelle conseguenze drammatiche, in primis sulla conflittualità sociale. Solo l’indagine di queste metamorfosi ci consente di capire davvero la natura della precarietà nella nostra contemporaneità. Un continuismo cieco, così come una lettura dei processi che veda nel lavoro un soggetto sempre e comunque passivo, sono inaccettabili, come lo erano quando il primo operaismo vi reagì.

Va però scongiurato il rischio di ripetere oggi l’errore di ieri: concentrare la propria attenzione solo sulla ‘tendenza’, assolutizzarla, per di più dando una analisi parziale e unilaterale, dunque inaffidabile, della tendenza stessa.

Così avviene in chi, riproponendo le movenze classiche di una filosofia della storia, magari rimodernata nei termini della scuola regolazionista, ritiene che il capitale immateriale abbia preso il posto di quello materiale, o che il lavoro cognitivo sia divenuto immediatamente forza produttiva socializzata autonoma dal capitale. O ancora che la classe si sia dissolta in una moltitudine, articolata e complessa certo, ma di cui il lavoratore cognitivo sarebbe in fondo la figura centrale ed egemone: come lo erano stati, in sequenza, l’operaio di mestiere, l’operaio massa, l’operaio sociale. Su questa strada tutto diviene produzione, e ogni atto vitale di per sé produttivo: il risultato è un olismo del capitale. L’inchiesta e la lotta dentro il lavoro divengono superflue, sostituite da lotte distributive scambiate come immediatamente ‘incompatibili’: quando invece costituiscono il lenitivo che il social-liberismo sa offrire all’inferno sociale odierno.

Dove sta invece la novità dell’epoca, guardata dal punto di vista del lavoro? L’accumulazione più incerta ed instabile, proprio come conseguenza della risposta alle lotte dell’operaio-massa, si struttura ‘a rete’, e pretende che il lavoro, in punti cruciali del ciclo, sia attività ‘intenzionale’, talora dotata di maggiore qualificazione. Dove ciò si dà, è e deve rimanere una autonomia limitata e dipendente. Nel capitalismo hi-tech della rivoluzione della comunicazione e dell’informazione è l’intrusione del ‘mercato’ nella ‘organizzazione’ a garantire questo controllo impersonale sul lavoro: ad accrescere la centralità della produzione, mentre produce la parvenza del contrario. Le unità produttive vengono messe in concorrenza tra di loro: per la disseminazione geografica, per le delocalizzazioni e esternalizzazioni, per l’obbligo delle singole unità produttive dentro le holding di far profitti come se si trattasse di entità separate e indipendenti, per le terzizzazioni e l’in-house outsourcing. Mentre tutto ciò ‘regola’ il lavoro, al tempo stesso richiede che, affinché il denaro e le macchine siano messe a valore, il lavoratore si comporti come autonomo e immateriale anche quando è dipendente e materialissimo. Che faccia del proprio sapere e del proprio volere l’elemento ‘attivo’, ma subordinato, che consente al capitale di riprodursi su scala allargata.

Negli ultimi decenni il progresso tecnologico ha in effetti aperto al capitale la possibilità nuova di disgiungere ‘centralizzazione’ da ‘concentrazione’, contrariamente a quello che era stato un andamento secolarmente parallelo. Mezzi di produzione e lavoratori vengono dispersi. La cooperazione sociale non comporta più necessariamente la collocazione in un luogo unico, ma può essere comandata tecnicamente in luoghi distanti. Il lavoro cambia di natura, in questo senso almeno: che non è più qualcosa da svolgere secondo un ‘piano’, dettato ex ante dall’esterno, qualcosa da eseguire idealmente in modo rigido, all’interno di un contesto produttivo e sociale stabile; è invece innanzitutto un ‘compito’ in un ambiente imprevedibile, da verificare ex post, qualcosa i cui tempi e qualità desiderati vengono imposti al lavoratore dal ‘mercato’ e lui deve assicurarli con ‘flessibilità’.

Il processo non è senza rischi per il capitale, in quanto non solo, come sempre, la subordinazione del lavoratore va ricostituita ciclo dopo ciclo, ma ciò è ancor più vero quando il lavoro deve essere appunto attività ‘intenzionale’. Ma è proprio per questo che la potenza capitalistica dell’integrazione e della subordinazione deve dispiegare il massimo della sua sfida integratrice. Le pratiche antagoniste devono sempre abbattere la barriera dell’interesse allo sfruttamento di altri lavoratori: per difendere il proprio posto, il proprio consumo, la propria pensione. Ed è ancora per questo che, contrariamente alla vulgata corrente, il capitale, oggi più di ieri, si applica a ‘rubare’ il sapere al lavoratore, a codificarlo, a razionalizzarlo, a monitorarlo. La configurazione del lavoro esplode, insomma, proprio mentre il comando capitalistico diviene ancor più totalizzante. Credere che la forza produttiva del lavoro sia sempre indipendente dal capitale, e anzi autonomamente ne spinga lo sviluppo, è per questo una illusione più pericolosa che nel passato.

Pensare che queste dinamiche confinino in una zona residuale il cosiddetto lavoro materiale è, prima ancora che un errore teorico, una svista politica di dimensioni colossali. E non solo perché la gran parte dei lavori sono a basso salario e bassa qualificazione. O perché il lavoro c. d. immateriale è in realtà ben materiale esso stesso, indipendentemente dalla natura della merce prodotta. Chi istituisce una rigida contrapposizione tra pretesi residui ottocenteschi che parlano ancora di fabbriche e salario, e radiosi postfordisti del nuovo lavoro cognitivo, dà una rappresentazione inattendibile e priva di senso del nostro presente, per una ragione ancor più fondamentale: il passaggio alla subordinazione reale del lavoro al capitale e alla estrazione del plusvalore relativo non significa affatto relegare nel passato il prolungamento della giornata lavorativa, la sua intensificazione, l’attacco al salario, l’esclusione e le nuove recinzioni. Al contrario, è proprio il ‘progresso tecnico’ che permette di scatenare contro il lavoro ognuna di queste armi solo apparentemente ‘arretrate’.

Vi è compenetrazione tra le diverse forme di sfruttamento, siano esse assolute o relative. Tra centro e periferia: il lavoro schiavistico e le condizioni di sfruttamento dei quattro quinti del pianeta si intrecciano al lavoro immateriale ed ipertecnologizzato di alcune metropoli occidentali. Ma anche nello stesso centro, dove l’azienda focale, che controlla strategicamente la filiera produttiva, scarica costi e flessibilità sulle aziende a valle, in cerchi concentrici dove frantumazione e precarizzazione del lavoro, tanto nativo quanto migrante, crescono esponenzialmente, in una vera e propria discesa agli inferi. Il fucile del sorvegliante che controlla il grado di intensità del lavoro coatto è tarato sull’intensità del lavoro socialmente necessario, proprio come lo è il lavoro di un programmatore di software.

Nell’epoca del capitalismo globalizzato le diverse forme di sfruttamento vanno intese come assolutamente contemporanee, e tra loro reciprocamente implicantesi. I profitti straordinari prodotti dove vengono introdotte nuove macchine spingono ad allungare ovunque, ma ancor più nelle industrie a bassa tecnologia legate all’impresa che innova, l’orario di lavoro. La delocalizzazione, a sua volta, mette a profitto i differenziali di salario nazionale, e il confine, come regolatore politico dei flussi di forza-lavoro migrante, assume una valenza immediatamente economica. Questi confini non corrispondono tra l’altro sempre ai confini degli Stati-nazione, ma li tagliano e li attraversano delimitando aree a sfruttamento variabili anche dentro uno stesso Stato. La novità è data dal fatto che tali processi avvengano oggi in presenza di un raddoppio dell’offerta di lavoro mondiale. Così, in Cina, la valorizzazione del capitale può sfruttare le nuove tecnologie e produttività per addetto in rapida crescita con salari stabili, mettendo in sincrono il mercato e il processo del lavoro mondiale. Ma se il governo cinese lascia ventilare la possibilità di ‘liberalizzare’ la contrattazione salariale in alcune provincie, a fare la coda per chiedere che ciò non avvenga sono in primo luogo le imprese occidentali.