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I detti di Confucio

di di Moreno Montanari - 03/11/2006

 

Confucio, I detti di Confucio, a cura di Simon Leys.
Milano, Adelphi, 2006, pp. 255, € 25,00 ISBN 88-459-2045-3.

Recensione di Moreno Montanari

Confucio, latinizzazione di K’ung fu tzu, è forse il saggio più noto e meno letto della filosofia cinese. Secondo Simon Leys, curatore di questa nuova edizione per i tipi di Adelphi, “in tutta la storia del mondo nessun libro ha esercitato maggiore influenza, per un periodo di tempo più lungo e su un ampio numerosi persone, di questo volumetto. Dando voce ad un etica umanistica e alla fratellanza universale tra gli uomini, è stato fonte d’ispirazione per tutti i paesi dell’Asia orientale, diventato il fondamento spirituale della civiltà più popolosa e più antica della terra” (p. 17). Ma si tratta anche di uno dei testi più travisati e strumentalizzati politicamente da quella stessa cultura che lo ha adottato, enfatizzandone le frasi nelle quali Confucio invitava a rispettare le autorità costituite e l’ordine sociale, ma passando sotto silenzio i passi nei quali riconosceva il diritto-dovere degli intellettuali di criticare il sovrano e li esortava a rischiare persino la propria vita pur di non compromettersi con un governo che non era giusto: “Quando uno Stato segue la Via (Tao), bisogna mettersi al suo servizio: servire uno Stato che ha smarrito la Via. Ecco cos’è vergognoso” (p. 105).

Il cuore di questo piccolo trattato, redatto dopo la sua morte dai suoi discepoli (Confucio, come Socrate e come il Buddha, suoi contemporanei, non scrisse mai nulla) e composto di venti brevi capitoli, che costituiscono quasi la metà esatta delle pagine di quest’edizione correlata da un’analoga sezione di note e interpretazioni, è l’etica dell’umanità (Ren), di cui la politica è solo un’estensione: “Il governo è sinonimo di rettitudine” (p. 26). Proprio il concetto di Virtù (Ren) ci offre la possibilità di comprendere l’insegnamento dell’antico maestro che, pur considerandosi uomo che si limitava a recuperare gli insegnamenti degli antichi maestri, coloro che, a differenza di lui, avevano davvero inventato qualcosa, non si limitò a tramandarli ma intervenne elaborandoli e rielaborandoli in funzione di quelle che gli sembravano essere le reali esigenze dell’uomo: “Chi dal vaglio dell’antico estrae il nuovo è adatto ad essere insegnate” (p. 43). Così Ren, che originariamente indicava l’atteggiamento virile e marziale di un eroe, acquisì con Confucio un senso etico riferito all’uomo considerato nel complesso delle sue relazioni morali, con gli altri e con sé stesso, così fortemente ribadito da divenire “la pietra angolare dell’umanesimo cinese” (Leys, p. 168). Allo stesso modo l’espressione “gentiluomo” (Junzi), figura simbolo dell’incarnazione della più alta virtù, non indica più, con Confucio, l’appartenenza al più alto rango sociale ma si riferisce a un’aristocrazia puramente etica, spogliata di qualunque connotazione sociale. Ideale di saggezza e di giustizia, solo perché massima incarnazione dell’etica, il gentiluomo “predica solo quel che pratica” (p. 43); “arricchisce il proprio sapere grazie alla letteratura e si disciplina grazie a i riti”; “porta alla luce ciò che c’è di buono nella gente, non quel che c’è di cattivo” (p. 95); “stringe amicizia grazie alla sua cultura e con gli amici sviluppa la sua umanità” (p. 97); “cerca l’armonia, ma non la conformità”; “mostra autorità, ma non arroganza” (p. 103), e ovviamente rispetta i riti (usanze civili, convenzioni morali e comune senso del pudore) e i propri genitori. Mentre prima di Confucio gentiluomini si nasceva ma non si poteva divenire, dopo il suo insegnamento gentiluomo indicò la persona di rettitudine morale caratterizzata dai quei valori ai quali abbiamo qui appena accennato. Il gentiluomo costituisce l’ideale morale e intellettuale a cui ciascuno dovrebbe tendere, pur sapendo che solo pochi sapranno realizzarlo. Ma la possibilità d’incarnarne l’essenza è aperta a tutti, esattamente come l’insegnamento di Confucio, che “si rivolge a tutti, senza distinzione” (p. 118). Si tratta di un insegnamento che si basa anche su un uso eloquente del non detto, proprio della tradizione cinese, e che tiene conto della necessità di conferire spessore e coerenza a quanto s’insegna con la testimonianza della propria vita, e di un sapere dialettico che ricerca interlocutori che possano costringerci a essere critici nei confronti di ciò che crediamo: “Yan Hui non mi è di nessun aiuto, qualsiasi cosa io dica l’approva” (p. 85). Confucio, come Socrate, incarna un ideale di saggezza che è tale specie perché è innanzitutto consapevole di non sapere - “la vera sapienza consiste nel riconoscere di sapere quello che si sa e di non sapere quello che non si sa” (p. 43) - perché ritiene di poter apprendere qualcosa d’importante da chiunque incontri - “mettetemi insieme a due persone a caso, avranno certamente qualcosa da insegnarmi. Le loro qualità mi faranno da modello e i loro difetti mi saranno da ammonimento” (p. 67). Come ha scritto altrove François Jullien, i suoi aforismi e discorsi brevi hanno carattere incitativo, tendono cioè a risvegliare lo spirito del destinatario, e indicativo, perché non spiegano ma si accontentano d’indicare la strada a chi li legge (Il saggio è senza idee, Torino 2002, p. 34) e possono ancora essere da sprono a chiunque abbia la necessaria pazienza per non leggerli superficialmente ricordando, con Nietzsche, che gli aforismi vanno “ruminati” a lungo.

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Prefazione

Introduzione

I detti di Confucio

Note

Indice analitico

L'autore

Confucio nacque in Cina nel 551 a.C. e vi morì nel 479. Fu uno dei principali filosofi cinesi. Cercò senza fortuna un incarico politico dal quale educare il popolo ai valori della virtù etica e dell’umanità. Per duemila anni fu canonizzato “primo e supremo insegnate della Cina”. Il suo compleanno, che cade il 28 settembre, è tuttora celebrato come il giorno degli insegnanti.