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Iraq, un drammatico odore di colpo di stato

di Ezio Bonsignore - 07/11/2006

Fonte: paginedidifesa

L'attuale situazione di stallo, con il primo ministro al-Maliki che punta caparbiamente i piedi e gli americani che aumentano la pressione, fa sì che gli screzi, gli incidenti e i battibecchi in Iraq si vadano moltiplicando. Pare che nel giro degli scommettitori di Baghdad ci siano ben pochi giocatori disposti a puntare sul fatto che al-Maliki rimanga ancora al suo posto oltre la fine dell’anno
Le tensioni tra l’amministrazione Usa e il governo iracheno del primo ministro Nuri al-Maliki sono andate via via peggiorando nel corso delle ultime settimane e sembrano essere ormai arrivate al punto di rottura. Sulla grande stampa americana si moltiplicano le indicazioni, i commenti e le ‘soffiate’ secondo cui sarebbe prossimo un colpo di Stato (formalmente ad opera delle forze armate irachene, ma in realtà incoraggiato e guidato dalla CIA) per defenestrare al-Maliki e tutto il suo governo, e sostituirli con un nuovo ‘uomo forte’ con annesso regime che diano migliori garanzie di portare rapidamente a termine quella ‘irachizzazione’ del conflitto da cui ormai dipendono tutte le rimanenti speranze americane non più di arrivare a una vera vittoria, ma quanto meno di ridurre rapidamente il loro impegno diretto nella contro-guerriglia e salvare il salvabile.

Al-Maliki dovrebbe insomma fare la stessa fine del presidente sud-vietnamita Ngo Dinh Diem, che giusto 43 anni fa venne deposto e assassinato in un colpo di Stato pilotato dalla CIA, quando gli americani cominciarono a vederlo come un impaccio alle loro idee circa il modo migliore di condurre la guerra in Vietnam.

Alla radice di queste tensioni, e quindi del fato sinistro che sembra gravare sul capo del Primo ministro iracheno, sta il pressoché totale fallimento della strategia formulata e messa in opera dall’amministrazione Bush per assicurarsi il controllo dell’Iraq (o per “guidare la crescita dell’Iraq verso strutture democratiche e moderne”, fate voi). Questa strategia era basata essenzialmente sul principio di far leva sulla predominanza demografica e sul desiderio di rivalsa delle comunità sciite, che erano sempre state tenute in una posizione di sudditanza quando non perseguitate durante il regime di Saddam Hussein.

Si è quindi iniziato con l’epurare ed emarginare sistematicamente i membri del partito Ba'ath e i sunniti dalle loro tradizionali posizioni di comando e si è poi passati a far formulare e approvare una costituzione, che garantisce un ampio regime di autonomie regionali, e infine a organizzare elezioni, che hanno appunto portato al potere un governo che si regge pressochè esclusivamente sull’appoggio della United Iraqi Alliance (UIA), cioè la coalizione dei partiti sciiti.

Ma questa strategia si é rivelata fallimentare e, anzi, controproducente. La dissoluzione delle forze armate e del Ba'ath è stata un passo falso di proporzioni ciclopiche. La resistenza armata dei vari gruppi più o meno riconducibili a ex-membri del Ba'ath si è dimostrata molto più dura e decisa del previsto, mentre il deliberato favoritismo verso gli sciiti ha portato alla reazione sunnita e a una situazione complessiva che è ormai molto simile a una guerra civile-religiosa, che rende il paese virtualmente incontrollabile, anche a prescindere dalla continua opposizione alla presenza delle truppe di occupazione.

La situazione di quasi-guerra civile ha infatti portato le comunità sciite a organizzare le proprie milizie, che di fatto controllano il loro territorio, ignorando completamente quello che dovrebbe essere il ruolo delle forze governative. Inoltre, i partiti e le comunità sciiti si sono rivelati ben poco riconoscenti verso i loro ‘liberatori’ e semmai guardano verso Teheran, il che, per peggiorare ancora le cose, offre all’Iran delle straordinarie possibilità d’azione sia all’interno del conflitto iracheno sia a livello regionale.

Per cercare di uscire dal ginepraio, l’amministrazione Usa intende compiere un’inversione di rotta di 180° e sta proponendo una cosidetta ‘politica di riconciliazione nazionale’. Questa politica prevede essenzialmente due punti principali: la reintegrazione nel grado e nelle funzioni di buona parte del personale sunnita in precedenza epurato dalle forze armate e dalla amministrazione statale; l’approvazione di una nuova legge, che garantisca la distribuzione dei ricavi derivanti dall’estrazione del petrolio tra tutte le comunità del Paese in proporzione alla loro consistenza demografica e indipendentemente dalle regioni dove si trovano i pozzi.

Questa legge dovrebbe quindi riportare il controllo delle risorse petrolifere sotto le autorità centrali e con ciò rovesciare i piani, previsti nella costituzione irachena, per una sostanziale autonomia regionale (compreso il controllo diretto sulle reserve petrolifere) del nord kurdo e del sud sciita dove sono situati i giacimenti iracheni, mentre il triangolo sunnita ne è privo.

In pratica, gli Stati Uniti sono quindi disposti a riconoscere che la resistenza sunnita ha vinto la guerra e sarebbero intenzionati a raggiungere un accomodamento che resistituisca ai sunniti almeno parte di quanto è stato loro tolto con Iraqi Freedom, in cambio probabilmente del riconoscimento quanto meno tacito della funzione guida di Washington. Insomma, una specie di ritorno al regime di Saddam Hussein, che non chiedeva di meglio che continuare a essere il braccio americano nella regione.

Il problema è che queste misure dovrebbero necessariamente essere messe in atto come decisioni autonome del governo di al-Maliki, che però non può né vuole farlo. Anche ammettendo che i partiti politici sciiti si inducano ad accettare una divisione del potere con i sunniti, pensare di andare a toccare gli interessi petroliferi, che si sono già consolidati, costituisce un vero e proprio anatema. In particolare, cercare di ‘sfilare’ ai kurdi il controllo del ‘loro’ petrolio porterebbe senza dubbio a un’altra guerra civile dentro la guerra civile. E sopratutto, rimettere al loro posto ufficiali e funzionati sunniti scatenerebbe senza dubbio una rivolta aperta all’interno della stessa comunità sciita.

Per questo motivo, gli americani insistono che al-Maliki debba come prima cosa disarmare le milizie sciite, cioè del suo stesso partito e della sua comunità. Nelle aspettative americane questo disarmo dovrebbe comportare essenzialmente una massiccia operazione di rastrellamento a Sadr City (il principale sobborgo sciita di Baghdad, con una popolazione di 2,5 milioni di abitanti) per sciogliere il cosidetto Madhi Army guidato da Muqtada al-Sadr.

Al-Maliki si è sinora nettamemente rifiutato di lanciare un’operazione del genere con le forze di cui dispone o anche solo di approvare formalmente un attacco condotto dalle sole forze americane, e per ottimi motivi: il movimento sadrista è infatti la principale fazione all’interno dell’UIA e una aperta mossa contro Sadr City, oltre a causare un bagno di sangue porterebbe quindi alla immediata caduta del governo.

In questa situazione di stallo, con al-Maliki che punta caparbiamente i piedi e gli Americani che aumentano la pressione, gli screzi, gli incidenti e i battibecchi si sono andati moltiplicando. La crisi ha raggiunto l’apice nel pomeriggio del 26 ottobre, quando al-Maliki ha emesso un comunicato stampa per annunziare di aver “ordinato” alla truppe americane di togliere i blocchi stradali attorno a Sadr City, blocchi che erano stati posti sette giorni prima allo scopo dichiarato di cercare di liberare un soldato americano rapito. Né questo ordine né l’emissione del comunicato stampa erano stati in precedenza concordati con le autorità americane in Iraq, anche se si è poi cercato di presentarlo in questo modo.

La mossa del Primo ministro era dovuta essenzialmente alla disperata necessità di far rientrare subito lo sciopero generale, che era stato dichiarato nella mattinata dal movimeno sadrista e che minacciava di estendersi a macchia d’olio a tutta Baghdad e poi al resto delle zone sciite del Paese.

Gli americani hanno quindi accettato di mandar giù il boccone, i blocchi sono stati tolti e lo sciopero è finito. Ma pare che nel giro degli scommettitori di Baghdad ci siano ben pochi giocatori disposti a puntare sul fatto che al-Maliki rimanga ancora al suo posto oltre la fine dell’anno.



Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (prefazione di Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada), dell'ex ispettore delle Nazioni Unite Scott Ritter.


Fonte: Pagine di Difesa