Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Cina: La globalizzazione ha partorito il suo mostro

Cina: La globalizzazione ha partorito il suo mostro

di Andrea Franzoni - 08/11/2006

 



Il futuro dell'Africa si gioca, come accade da secoli, lontano dal continente nero. Proprio in questi giorni molti leader politici e soprattutto gli occhi dell'opinione pubblica africana sono rivolti infatti verso Pechino, teatro dell'enorme Forum di Cooperazione Cino-Africano che ha l'obiettivo di gettare le basi per un ulteriore intensificarsi delle relazioni politiche e commerciali.

Benché spesso lontana dal dibattito e dalle attenzioni anche dei critici della globalizzazione, la penetrazione cinese in Africa è un fenomeno già concreto e, per di più, destinato a crescere ai ritmi esponenziali dello sviluppo della Repubblica Popolare. L'anima di questa penetrazione si innesta alla perfezione nelle regole del mercato globale, al quale le elite africane sono state abituate da anni di indottrinamento “neo-liberista”, anche se presenta alcune caratteristiche diverse alla strategia occidentale attuale. L'impressione è comunque negativa: il futuro che la Cina propone all'Africa è infatti lo stesso futuro di dipendenza assoluta e di obbedienza, e quindi di grave ingiustizia globale, che le cifre delle agenzie ONU (che segnalano indici di malnutrizione stabili accompagnati da povertà e disuguaglianza in aumento) stanno proprio in questi giorni evidenziando. Lo spostamento del baricentro, inoltre, minaccia di avere ripercussioni anche sullo stile di vita occidentale.

Accusata di “neo-colonialismo” dalla generazione dei globalizzatori occidentali, che da anni plasmano il sistema internazionale di scambi e di potere facendo il buono ed il cattivo tempo (prima grazie ad interventi e sostegni politici diretti a governanti amici, e poi con l'aiuto delle istituzioni internazionali di credito modulando a proprio piacimento il cappio del debito estero), la Cina sta intensificando negli ultimi anni le relazioni con gli stati africani ed ha tutta l'intenzione di aumentare ulteriormente i rapporti commerciali. Al summit di Pechino non mancherà nessuno: dai tradizionali alleati africani agli stati con i quali le relazioni diplomatiche sono azzerate (sono 5, colpevoli di intrattenere rapporti con la provincia ribelle di Taiwan), dagli stati che da decenni ruotano nell'orbita di Washington e della finanza internazionale agli stati ribelli o non-allineati come il Sudan, nessuno dei 53 lascerà la sedia vuota in una Pechino vestita a festa.

La strategia della Cina è semplice: utilizzare l'Africa come serbatoio di materie prime riversando sui mercati locali manufatti a basso costo distruggendo così sul nascere le attività produttive locali e rendendo le nazioni disperatamente povere nonché dipendenti dalla vendita delle stesse risorse (combustibili, minerali) delle quali la Cina ha bisogno. La politica neo-coloniale occidentale ha insomma fatto scuola ed ha, a Pechino, un degno erede che promette di superare il maestro.

La strada che dalla Cina porta all'Africa è spianata

La strada che dalla Cina porta all'Africa è spianata: la povertà (favorita dal sistema iniquo creato dall'occidente) è estrema e rende ogni apparente aiuto indispensabile; le elite economiche africane sono state formate fedeli al dogma neoliberista, convinte della necessità di esportare materie prime e poco attente a istanze come l'indipendenza e l'emancipazione. L'occidente, dal canto suo, sta perdendo il controllo sul sud del mondo e la sua economia pressappoco stagnante lo obbliga a rallentare lasciando spazio alla Cina che già oggi è il terzo investitore nel continente nero. L'approccio dell'occidente è cauto e poco aggressivo anche per un'altra ragione: l'opinione pubblica (per quanto manipolabile) è più sensibile di qualche decennio fa e ciò rende impossibili le violazioni più evidenti dei diritti umani ed il sostegno ai governi più corrotti e più sanguinari, costanti queste degli anni ruggenti della più spietata politica neo-coloniale occidentale. Al contrario la Cina ha un'economia sana ed in grande crescita, la solidità sufficiente per potersi permettere di rischiare e nessuna remora di carattere etico. In più ha la “fedina penale” pulita: mentre l'occidente ha alle spalle i secoli della dominazione coloniale, lo sfruttamento dei conflitti etnici e discriminazioni di tipo razziale la Cina ha una tradizione terzomondista, che deve a Mao, di amicizia, di compassione e di sostegno alle antiche lotte di liberazione.

Successo nel solco della regole della globalizzazione neo-liberista

Le regole del commercio globale, basate sull'assenza di interventi e protezioni statali e plasmate in 60 anni dall'occidente, sono poi ideali per permettere l'invasione dei prodotti cinesi (con conseguente distruzione delle quasi nulle attività manifatturiere locali) e quindi la sudditanza dell'Africa ridotta a serbatoio di materie prime alla mercè dei capricci del mercato internazionale.

La forza della Cina, con la sua enorme ambizione e con il suo mix di dirigismo e di spirito d'impresa, forte di un costo del lavoro imbattibile e di una bilancia commerciale sempre in attivo (grazie alla vocazione all'esportazione), è dirompente e rispetta pienamente le regole che l'occidente ha creato e che, evidentemente, gli si stanno rivoltando contro. Mentre Stati Uniti e Unione Europea si vedono –proprio di fronte all'incontrollabile minaccia cinese- costrette a contraddirsi, pur di salvare un minimo di produzione nazionale, mantenendo quei sussidi, quei dazi e quelle quote che a livello globale spingono per abolire, la Cina non ha alcun timore della globalizzazione neo-liberista.

Alle elite occidentali non rimane che un argomento che, utilizzato da loro, sfuma probabilmente ipocrisia la sua credibilità e la sua incisività: i diritti umani, violati dalla Cina stessa e da molti governi con la quale essa fa affari, e la sostenibilità dei progetti realizzati. Obiezioni, per quanto esatte, ipocrite: buona parte dei prodotti con marchi europei o americani che vediamo sugli scaffali (da decenni) favoriscono il nostro benessere e grandi introiti agli industriali grazie alle medesime “violazioni dei diritti umani” in Cina come in Vietnam, in Indonesia, in Cambogia, in Africa, in Sud America e negli altri grandi campi di schiavitù che la globalizzazione ha saputo creare. Si tratta, insomma, della vecchia storia del bue che dà del cornuto all'asino o, meglio, del bue che da del cornuto al fratello giovane ed esuberante.

Le dinamiche dell'intervento cinese tra favori e non-interferenza

I progetti finanziati dalla Repubblica Popolare sono circa 800, sparsi in 49 stati africani, per un volume di 27 miliardi di dollari. Ciò significa che già ora, in quasi ogni stato africano, ditte cinesi stanno realizzando (con appalti assegnati a ditte cinesi che utilizzano spesso manodopera in buona parte cinese) miniere, impianti di estrazione di minerali e attività produttive ma anche strade, ponti, porti, scuole ed ospedali. Il tutto con la laboriosità cinese, al riparo dalla corruzione, dalle consulenze miliardarie e dai lussi nei quali l'occidente si è specializzato, scavalcando in parte la popolazione locale.

Se da una parte ha necessità di materie prime a prezzi stracciati la Cina ha anche all'apparenza l'intenzione di ingraziarsi la popolazione africana. Non è interessata, ad esempio, a generare profitti spingendo per la privatizzazione di servizi anche essenziali (come invece la “globalizzazione di stampo occidentale”) e per il loro ridimensionamento (in modo da ridurre le uscite dello stato e favorire il pagamento di parte del debito); al contrario si può permettere di investire un minimo anche nel sociale visto che per ora l'unico interesse è rivolto alle risorse naturali. Forte l'impegno per quanto riguarda le infrastrutture: secondo i cinesi aiuteranno alla lunga lo sviluppo economico dell'Africa anche se l'esperienza (sia dei cinesi in patria che degli occidentali in Africa) insegna come, probabilmente, le opere costruite sono necessarie più per le attività cinesi che per la popolazione locale.

Nella gestione del debito, che i paesi africani stanno accumulando, la Cina è poi decisamente più flessibile ed arriva, anzi, ad aiutare con prestiti vantaggiosi gli stati a pagare gli onerosi interessi se non a saldare le pendenze nei confronti degli stati e delle usuraie istituzioni occidentali. Molto importante anche la politica della non-interferenza: se l'occidente continua ad usare il ricatto per imporre la ricetta neo-liberista e palesa, in tempi recenti, remore (che è comunque difficile credere genuine) a trattare con leader accusati di gravi violazioni e di guerre civili, la Cina si limita a fare buoni affari senza immischiarsi nelle vicende nazionali.

Emblematica la vicenda del Sudan: il governo di Khartoum ha stretto alcuni vantaggiosi contratti petroliferi con ditte cinesi facendo un grande smacco a Francia e Stati Uniti. Le quali, oggi, attaccano in ogni sede il governo sudanese (accusandolo delle violazioni dei diritti umani, ad opere di truppe non governative, che tuttavia il governo non si sforza di controllare) che risponde accusando l'occidente di sostenere i ribelli del Chad che mirano al controllo del Darfur.

La politica cinese ha in effetti le caratteristiche dell'impianto neo-coloniale. In cambio delle materie prime, ottenute con tutti i mezzi usati nel presente o nel vicino passato dai maestri occidentali, i cinesi stanno riversando in Africa le loro merci a basso costo prodotte nella madrepatria con i bassissimi costi di produzione che già conosciamo. Questo strozza sul nascere l'industria locale e, con essa, ogni speranza di indipendenza, di emancipazione e di autonomia reale. I paesi africani, infatti, si trovano a dipendere completamente dalle importazioni offrendo in cambio soltanto quelle materie prime che alimenteranno il circolo vizioso. Questa dipendenza, secondo un copione già visto, costringe infine gli stati africani ad accettare condizioni fortemente svantaggiose, veri e propri abusi, pur di poter continuare a intrattenere i necessari –per quanto iniqui- rapporti con la potenza neo-coloniale. Inutile dire come la salvezza dell'Africa potrebbe essere la creazione e la preservazione di un'economia locale votata soprattutto al mercato interno, alternativa comunque eretica e rivoluzionaria nella sua semplicità che nessuna rock-star occidentale né nessun economista di regime osa ipotizzare.

Fase 1: Aspirare la ricchezza dal mercato occidentale

Il mercato preferito dalla Cina è, oggi, l'occidente. Essa non ha interesse, per ora, a creare un solido mercato interno per le merci prodotte: è più conveniente mantenere la società cinese in uno stato di indigenza (preservando così i bassi costi di produzione) e vendere al compratore estero aspirando sempre più ricchezza da concentrare nella burocrazia e nelle élite statali (comprando, per esempio, grandi fette di debite estero statunitense). Lo stesso vale per gli scambi con l'Africa che sono oggi in negativo: la Cina spende più denaro per progetti e importazioni di quanto ne incassa vendendo prodotti. Se la società industriale europea ed americana ebbe la necessità di favorire un benessere nella classe operaia sufficiente a creare una domanda in grado di stimolare l'offerta permettendo all'ingranaggio capitalista di funzionare (si pensi al New Deal), e con esso un miglioramento sostanziale nelle condizioni economiche ma anche nei diritti dei lavoratori, la Cina non ha insomma questa necessità e, finché l'occidente continuerà a essere in grado di acquistare, le condizioni degli operai cinesi (e africani) potranno rimanere pressappoco invariate. Resta da capire per quanto il sistema occidentale, che oggi vive di terziario e che ha sta perdendo ogni contatto con la realtà della produzione, potrà reggere l'invasione cinese creando reddito quasi sul nulla. Quel giorno, probabilmente, il popolo cinese si potrà finalmente godere la supremazia faticosamente conquistata.

Umiltà e autocritica le alternative al probabile declino?

La deregolamentazione e la creazione di un libero mercato globale si sta insomma ritorcendo contro l'occidente. E' la Cina, oggi, la forza che paradossalmente sta emergendo grazie al sistema neo-liberista e che promette, grazie ad esso, di dominare nel futuro la scena mondiale. L'Africa, riunita in questi giorni a Pechino, sta scrivendo la sua ennesima pagina di sudditanza e di dominazione neo-coloniale ma ombre scure si addensano anche sull'occidente, colpevole di aver creato quella macchina infernale che è il dogma economico che regola la globalizzazione attuale.

Per salvarsi l'occidente dovrebbe rinnegare completamente sé stesso e il sistema che ha costruito, lodato e imposto in decenni di sfruttamento. E' necessario insomma salvare il salvabile e provare a creare un sistema nuovo. Umiltà e autocritica, insomma: uno sforzo però forse troppo grande per una civiltà logora, narcisista, distratta e dogmatica che ha prodotto, con le sue stesse mani, quel mostro che la sta divorando.