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Il Nicaragua è sandinista

di Siro Asinelli - 08/11/2006




Bisognerà attendere questo pomeriggio perché i risultati siano ufficiali, ma la vittoria del Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) alle elezioni presidenziali nicaraguensi è ormai scontata. E schiacciante, secondo i seggi scrutinati sino a tarda notte, pari al 30% circa degli 11mila 274 totali: Daniel Ortega si starebbe assestando oltre il 40%, mentre il suo principale avversario, il banchiere Eduardo Montealegre, candidato dei conservatori filo Usa di Alianza Liberal (AL), oscilla tra il 30 ed il 32%.
Ortega, leader storico del FSLN, già presidente nel 1984 all’indomani della vittoria sandinista sul dittatore Somoza, sui contras e sui loro addestratori CIA, porta a casa una vittoria annunciata, scandita da alleanze strategiche con una parte della classe dirigente liberista e dall’appoggio di parte del clero – scelte criticate dal candidato ex sandinista del Movimiento Renovador Sandinista (MRS), Edmundo Jarquín, quarto con un 6,98% - , ma soprattutto grazie ad un consenso popolare incontestabile.
Non ci sta lo sconfitto Montealegre ad accettare la disfatta. La legge elettorale prevede la vittoria al primo turno se si oltrepassa la soglia del 40% o, in alternativa, se si ottiene il 35% con 5 punti percentuali di scarto dal secondo. “Non ha vinto nessuno”, ha dichiarato a caldo il candidato di AL, sicuro che “si andrà al secondo turno”. Ma i numeri, a meno di grosse e sospette sorprese, parlano già chiaro. Al punto che in tarda serata, Montealegre ha aggiustato il tiro invocando il fantasma di “irregolarità”: “In una democrazia questo è inaccettabile”. Viene da chiedersi quanto possa definirsi “democratico” uno Stato guidato dal 1990 da una classe dirigente dimentica della lezione popolare sandinista ed asservita al dogma statunitense: un percorso ultraliberista, scandito dalla firma con gli Usa di un Trattato di Libero Commercio a senso unico che non ha fatto altro che inasprire il divario tra ricchezza e povertà, in un Paese in cui la miseria tocca l’80% della popolazione.
Non sorprende che i dubbi sollevati da Montealegre siano stati fatti propri anche dall’amministrazione Usa. L’ambasciatore Usa a Managua, Paul Trivelli, che ha guidato la squadra di osservatori statunitensi, ha dichiarato di essere in possesso di non meglio precisati “rapporti che indicano delle anomalie” nel processo di voto e di scrutinio. La missione a stelle e strisce punta in particolare il dito su presunti ritardi nell’apertura di alcuni seggi, presunta lentezza nel processo di voto e altrettanto presunta chiusura anticipata di alcuni seggi. La valutazione statunitense, in totale dissonanza con le valutazioni espresse dagli osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani, dell’Unione europea, del Consiglio degli Esperti Elettorali Latinoamericani e del Centro ‘Jimmy Carter’, nonché dei 17mila osservatori nazionali, ha suscitato la viva reazione del Consiglio elettorale nicaraguense: “Abbiamo promesso al popolo del Nicaragua elezioni trasparenti e questo è ciò che è accaduto”, ha dichiarato il direttore generale Roberto Rivas.
La contestazione Usa era d’altronde attesa: per tutto ottobre, infatti, Washington ha inviato nel Paese suoi ambasciatori, più o meno ufficiali, al fine di scongiurare una vittoria del FSLN. Dal famigerato ex colonnello Oliver North, al centro dello scandalo Iran-Contras nei primi anni ’80, al segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, passando per il senatore Burton, co autore della legge che ha inasprito le vergognose sanzioni Usa contro Cuba. Tutti hanno lanciato lo stesso messaggio: se dovesse vincere Ortega ci sarebbe un ritorno della violenza. L’avvertimento è stato più che chiaro, con lo stesso ambasciatore Trivelli a parlare di “gravi conseguenze in caso di vittoria sandinista”. Minacce che hanno suscitato il legittimo sdegno non solo delle autorità elettorali nicaraguensi, ma anche degli osservatori internazionali.