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Mito, rito e simbolo nel cristianesimo (1)

di Nicoletta Antonello - 13/11/2006

 

 

 

PREMESSA - Ben lungi dal voler entrare nel merito della dottrina cristiana e della sua evoluzione nel corso della storia del cristianesimo, desidero focalizzare all’interno del cristianesimo stesso alcuni concetti chiave nello studio comparato delle religioni quali mito, rito e simbolo.

Il mito è generalmente una narrazione di gesta compiute agli albori della storia, o meglio, nel “tempo senza tempo” che precede l’inizio della storia, dai cosiddetti “antenati mitici” (siano essi dèi o eroi civilizzatori), con la funzione di spiegare il perché della creazione o di un certo fenomeno all’interno di essa. Nei miti, a mettere in moto la cosmogonia molto spesso è un’uccisione creatrice, ossia il sacrificio di un grande animale (serpente, drago o mostro), di un gigante primordiale o di un dio che si auto-sacrifica scindendosi in più parti, originando la creazione attraverso il passaggio dall’uno al molteplice (dal caos indifferenziato alle forme chiare e distinte della coscienza).

Il rito è la ripetizione gestuale del mito, compiuta singolarmente o collettivamente fin dalle società più arcaiche, generalmente nell’ambito di appositi “spazi sacri” che a livello microcosmico riproducevano la struttura dell’intero universo, ad intervalli periodici regolari (es. l’alba, il capodanno, la primavera, ecc.) o in qualunque momento di crisi o di carestia in cui si avvertisse il bisogno di rigenerare il mondo mediante la messa in moto di una nuova creazione.[2]

Il significato originale del simbolo (dal greco symbállein, “unire, mettere insieme”; contr. diabállein, “disunire, mettere in discordia”, traduzione dall’ebraico satán, “il contraddittore”, l’accusatore nei procedimenti legali, da cui l’italiano diavolo) va cercato nel segno di riconoscimento, generalmente una moneta o un anello, che gli antichi erano soliti tagliare a metà per regalarne una parte ad un amico o ad un ospite; queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, permettevano ai figli delle famiglie amiche di riconoscersi: si trattava dunque di un oggetto che permetteva di riunire due metà un tempo unite da un vincolo di amore o di amicizia e successivamente divise dalle circostanze. Il simbolo religioso è ogni cosa, parola, persona o disegno che rinvia a qualcos’altro da sé, più ampio e ignoto, indefinibile, cui è possibile solo alludere. Il simbolo possiede questa funzione di allusione, unendo così il piano orizzontale umano, naturale, finito, a quello verticale, spirituale e trascendente.

Al fine della comprensione del mito cristiano e del suo patrimonio rituale e simbolico, è impossibile in questa sede analizzare per esteso il contesto, ossia il retroscena socio-culturale e religioso, esistente all’epoca della vicenda umana di Cristo, ma è doveroso almeno sottolinearne la complessità. La rivelazione cristiana, centrata sul “comandamento nuovo” dell’amore (che, vedremo più avanti, non era affatto nuovo, anche se nuovo sarà il fare dell’amore il fulcro della religione, soprattutto grazie all’opera divulgativa di S. Paolo), va ad innestarsi infatti sull’antica legge dei padri, i dieci comandamenti pre-esistenti, quel giudaismo mai realmente rinnegato da Cristo. L’area mediorientale e mediterranea, unificata dalla dominazione romana, brulicava di culti politeisti, di nuove tendenze monoteistiche quali il culto di Mitra e del Sol Invictus,  mentre si diffondevano nuove scienze e filosofie religiose in parte segrete e occulte, quali l’ermetismo e l’alchimia, e sorgevano, come vedremo oltre, i culti “misterici”[3]. Da più fonti si apprende che nei decenni precedenti la nascita di Gesù fosse all’ordine del giorno un diffuso e crescente senso di insofferenza verso i vecchi inadeguati culti ufficiali, non più in grado di attutire ingiustizie sociali ormai intollerabili, e verso quelle classi sacerdotali alleate con l’ambiente politico romano sempre più degradato e corrotto, il tutto assieme a quegli scricchiolii di natura sociale ed economica che dall’interno avrebbero presto gettato le basi per la decadenza dell’impero dopo l’apogeo; la celebre IV egloga di Virgilio, erroneamente interpretata in passato come una profezia cristiana, è la dimostrazione del sentimento di attesa e di speranza per una rigenerazione cosmica riposto nella nascita di un puer, reale o simbolico.[4] Questo accenno storico è indispensabile ad intuire il quadro di incontri e scontri politici, commerciali e quindi culturali di un’area, quella del bacino mediterraneo e del Medioriente, relativamente ristretta, unificata prima dalle conquiste di Alessandro Magno e poi dalla dominazione romana: ogni culto, filosofia o corrente di pensiero in questo contesto non poteva che essere frutto di forti interscambi e sincretismi.

L’altra grossa questione di cui tener conto è quella delle gnosi, pre-esistenti e poi sincroniche al cristianesimo. Con la parola gnosis (“conoscenza”) si designava originariamente una corrente colta ed esoterica all’interno di una religione ufficiale, cui pochi eletti accedevano mediante un’iniziazione spirituale avendo così accesso a segreti riguardanti la natura del mondo celeste e quindi il destino dell’anima dopo la morte; la salvezza dell’anima individuale sembra collocarsi al centro degli insegnamenti gnostici. Fin dai primi decenni di vita del cristianesimo, doveva esistere una gnosi cristiana, com’era esistita, e ancora probabilmente sopravviveva, una gnosi ebraica. Essendo una pratica cultuale segreta, la gnosi cristiana subì inevitabilmente l’influsso delle altre filosofie religiose occulte dell’epoca, segrete e non, quali l’ermetismo, il platonismo, le dottrine dualistiche iraniche (dalle quali si originerà il manicheismo), l’orfismo e il pitagorismo, che a loro volta avevano attinto dall’India concetti quali la ciclicità del destino umano e la reincarnazione dell’anima.[5] Ben presto si intromise tra le comunità cristiane lo spauracchio dell’eresia, definita a posteriori gnosticismo, anch’esso assai difficile da inquadrare sia per il pluralismo di maestri e di differenziazioni locali, sia per l’essenza pressoché totale, eccetto che per pochi frammenti, di una tradizione diretta dei testi. Ciò che conta, in questa sede, è sottolineare che in un contesto di segretezza e pluralismo come quello delle gnosi, la distinzione tra gnosi ufficiale e degenerazione gnosticista non può che essere stata fatta in un periodo successivo. Non dobbiamo scordare, infatti, che fino all’editto di Costantino (313 d.C.) anche il cristianesimo “ufficiale” era considerato religio illicita, e a periodi di tolleranza da parte dell’impero si alternavano periodi di persecuzione in cui i fedeli erano costretti ad incontrarsi in uno stretto regime di segretezza, ed era pertanto impossibile monitorare tutti i gruppi di incontro e di preghiera cristiani, e stabilire cosa fosse ortodosso e cosa non lo fosse, semplicemente perché il confine tra ortodossia ed eresia non poteva ancora essere delineato in modo netto. Caso esemplare fu la vicenda di Valentino, considerato il primo grande maestro gnosticista. Nel Vangelo di Verità, Valentino narra il mito della frammentazione del Pleroma, l’Uno cosmico primordiale di natura divina luminosa, divisosi per ragioni di tensioni interne fra i propri eoni (qui non riassumibili in poche parole), con la conseguente caduta di alcune particelle di luce successivamente intrappolate nella materia, creazione del Demiurgo, e la necessità di un’opera di recupero e di reintegrazione nel Pleroma di tali scintille divine ad opera del Salvatore, ragion per cui il mito viene riassunto con la formula “il Dio che salva se stesso”. Ebbene, nel 160 d.C. Valentino fu sull’orlo di essere eletto vescovo di Roma, e fu solo in seguito alla delusione per non aver ricevuto tale incarico, e alla sua conseguente rottura con la Chiesa, che egli fu accusato di tradimento e bollato come eretico. In molti si sono chiesti che cristianesimo (cioè che tipo di ortodossia cristiana) si sarebbe affermato se invece Valentino fosse stato eletto vescovo. La vecchia interpretazione del Vangelo di Verità, basata sulla rigida dottrina della predestinazione, per cui secondo Valentino esisterebbero tre categorie di uomini, pneumatici (salvati a priori, in quanto possessori del pneuma, il frammento di luce divina), ilici (dannati, in quanto puramente materiali) e psichici (detentori della psiché, l’anima o mente, dal destino non ben chiaro), è stata radicalmente rivista da alcuni esegeti degli ultimi anni. Secondo l’ottica interpretativa di Norelli, ad esempio, con pneumatici, ilici e psichici Valentino non avrebbe affatto alluso a tre categorie di uomini, ma a tre condizioni umane: psichico è l’uomo allo stadio iniziale, prima dell’azione salvifica di Dio, che diviene pneumatico se in grado di accogliere la scintilla divina della grazia, ilico se non in grado.[6] Questa dottrina, se interpretata correttamente, si basa sul concetto di salvezza determinata dalla capacità o meno dell’uomo di accogliere la grazia, e non differisce di molto dal pensiero di S. Paolo, che differentemente dalla dottrina della salvezza mediante le opere di S. Pietro (influenzato dalla mentalità concreta, hic et nunc romana), divulgava la speranza di salvezza fondata sulla fede nella grazia de Dio, e non è un caso che Paolo venga da taluni definito gnostico. Era Valentino più vicino all’ortodossia o era Paolo più vicino all’eresia? Il backgound qui rapidamente riassunto dovrebbe bastare a far capire che le linee di confine tra ortodossia ed eresia dovevano essere estremamente flessibili.

 

MITO - Premetto che parlando di “mito” non intendo assolutamente pormi in opposizione alla verità storica: storia e leggenda si intrecciano nel mito, e non voglio inoltrarmi nella controversa separazione tra fatti realmente accaduti e fatti solo immaginati, ma soltanto evidenziare i significati che il mito comunica. Definisco mito la vicenda umana di Cristo perché si tratta a tutti gli effetti di un racconto di creazione mediante sacrificio: dalla morte di Cristo in croce, attraverso la cancellazione dell’ancestrale colpa di Adamo, si instaura la nuova era di un’umanità rigenerata dal peccato e indissolubilmente legata al suo Dio. I passaggi salienti del mito cristiano sono infatti rintracciabili nelle vite di altri salvatori, messia o dèi incarnati, che chiamerò alla maniera junghiana “eroi”, per indicare l’archetipo del protagonista della struttura di incarnazione-morte-rinascita che è alla base di questi miti iniziatici.

Incarnazione. Avviene generalmente quando l’umanità attraversa un periodo di crisi e di decadenza, e il Dio, mosso da compassione, scende sulla terra per portare una rivelazione in grado di aiutare e redimere il proprio creato: così, ad esempio, in India, dove -secondo il Mahabarata- Visnu si incarna in Krisna, o in Persia, dove Mitra si incarna nel Re-Salvatore; allo stesso modo, nella tradizione giudaico-cristiana, Gesù di Nazareth è l’incarnazione del lato misericordioso e soccorrevole di Jahvè.

Il paradosso della Madre. Per mezzo dello Spirito santo Jahvè si incarna nel grembo della vergine Maria. Va specificato che agli albori della Chiesa l’accento non era posto tanto sull’aspetto morale della verginità, che solo nei secoli avvenire sarebbe diventato un modello di castità e purezza, quanto piuttosto sul paradosso, sulla coincidentia oppositorum madre-vergine. Nella prospettiva metafisica (confluita poi nella tradizione alchemica), la Madre è vergine in quanto “materia prima”, ma dal punto di vista mitologico le fonti di tale ambivalenza vanno probabilmente ricercate nella cultura greca, che com’è noto influenzò moltissimo il cristianesimo delle origini. Le dèe greche erano spesso caratterizzate dalla partenogenesi, ed erano pertanto madri e vergini. Era, arcaica dèa della terra, della fecondità e del matrimonio, ogni anno dopo un parto ritrovava la propria verginità bagnandosi ad una fonte; successivamente, Artemide, cacciatrice e protettrice di bestie feroci, considerata vergine e insensibile al matrimonio, presentava talvolta caratteristiche di nutrice e veniva invocata come Locheia, dèa protettrice del parto; Atena, anch’essa vergine e bellicosa, uscita dalla testa di Zeus già con la corazza da guerra addosso, è contemporanea ed adorata nelle stesse aree di Afrodite, dèa dell’amore, della sessualità e del desiderio, e le due figure quindi possono essere considerate come due parti complementari della stessa dèa.[7] Alcuni mistici cristiani medievali, come i tedeschi Eckhart e Tauler, interpretarono la verginità di Maria in chiave spirituale, come purezza interiore, tabula rasa mentale, svuotamento di ogni falso contenuto per accogliere la venuta di Dio nel sé: l’utero vuoto della Madre diviene l’anima del mistico, nella quale Dio nasce (la “grotta del cuore”, da una predica di Tauler). La metafisica sottolinea invece che la Madre è vergine in quanto materia prima. Ma prima di ogni livello interpretativo mistico o metafisico, la verginità della Madre è da sempre l’espediente mitico per indicare l’assenza di un padre terreno, ossia la provenienza per metà divina dell’eroe. Dall’arcaica ierogamia Cielo-Terra, i linguaggi si evolvono fino a parlare non di unione celeste tra un dio e una dèa, che originerebbe semplicemente un terzo dio, ma tra un dio e una donna mortale. Così, gli eroi civilizzatori greci (es. Prometeo) erano figli di un dio e di una ninfa mortale; anche il Re-Salvatore persiano era figlio di Mitra e di una donna, e lo stesso vale per Dioniso, figlio di Zeus e di una donna solo successivamente accolta nell’Olimpo (come sarà poi Maria assunta in cielo). Lo schema della natività dell’eroe, uomo e Dio, nel quale si unificano la sfera terrena e la sfera celeste, può essere definita empiricamente una struttura archetipica, presente in culture reciprocamente lontane nel tempo e nello spazio. Solo per citare un esempio, la memoria collettiva coreana narra il mito della nascita dell’antenato mitico locale, il primo re di Corea, figlio del Cielo e di un animale terreno, un orso, che dopo aver subito una prova iniziatica viene trasformato in donna, la prima femmina della stirpe coreana.

Elementi della natività. Il mitraismo, religione monoteista originaria della Persia, conobbe grande popolarità nei decenni che precedettero la nascita di Cristo e anche parallelamente alla prima diffusione del cristianesimo, e per un periodo fu praticato anche a Roma.[8] Gesù, secondo le fonti storiche, nasce nella stalla della locanda dove Maria e Giuseppe non avevano trovato posto per la notte, una volta recatisi a Betlemme per il censimento, ma spesso, dall’arte paleocristiana alla più recente arte del presepe, la scena della natività si svolge in una grotta. Una stella cometa funge da guida per i magi, che dalla Persia giungono fino al luogo dove giace il fanciullo divino, ed alcune fonti astrologiche citano l’effettivo avvistamento di un asteroide  in occasione dell’equinozio primaverile negli anni della presunta nascita di Cristo. La data del Natale cristiano è fissata convenzionalmente al 25 dicembre, mentre le profezie annunciavano la nascita di un bambino nel segno dei Pesci e pertanto in prossimità dell’equinozio primaverile. Tra l’altro, le fonti astrologiche (a posteriori) e alcune profezie (a priori) parlano anche di una congiunzione delle orbite di Giove e Saturno nello stesso periodo e nello stesso segno dei Pesci, che acquisisce risonanza cosmica se solo si pensa all’importanza al tempo attribuita al comportamento degli astri e soprattutto alla valenza simbolica dei due pianeti in questione: l’intersecarsi delle orbite di Giove, pianeta benevolo, e Saturno, la “stella nera”, portatore di sfortuna e disgrazia, è una manifestazione cosmica dell’archetipo della coincidenza degli opposti nel segno del Messia. Il bue e l’asino tradizionalmente collocati nella stalla acquisiscono un valore simbolico se si pensa che l’asino era considerato animale saturnino.[9] La nascita in dicembre non ha pertanto origini ebraiche. E’ il Re-Salvatore mitraico, assimilato al sole, a nascere in una grotta, segnalata dalla presenza di una cometa, il 25 dicembre. La data probabilmente è mutuata dalle culture tribali dell’Artico o delle tundre ad esso sottostanti (attraverso migrazioni di nomadi nelle steppe dell’Eurasia?), dove in prossimità del solstizio invernale (22 dicembre circa) il Sole non oltrepassa la linea dell’orizzonte e nell’immaginario collettivo tale scomparsa è vissuta in modo drammatico come morte del Dio e conseguente letargo della vita; tra il 24 e il 25 dicembre si celebra la rinascita del sole e la risurrezione della vita, grazie ai primi minuti di luce dopo il solstizio.

Infanzia prodigiosa. Come il Salvatore mitraico, anche Cristo è annunciato dai profeti. Il Dio che si incarna sceglie di nascere bambino, di sperimentare a tutti gli effetti la condizione umana di fragilità e vulnerabilità, e la sua vita è minacciata fin dalla fase neonatale: il neonato Mitra sopravvive per poco al fulmine dal quale viene colpito, Gesù è costretto a fuggire in Egitto con la famiglia per evitare la morte voluta da Erode; l’Apocalisse riporta l’immagine suggestiva della Madre in preda alle doglie e di un grande drago che aspetta la nascita del bambino per divorarlo, e solo in extremis il bambino viene rapito verso il cielo e salvato dalle fauci della morte. Sia Mitra che Gesù, come tutti gli eroi, sono inoltre “orfani di padre” e vengono cresciuti da un padre adottivo; fin da piccoli manifestano poteri miracolosi e hanno la fama di bambini-prodigio (es. nei Vangeli Apocrifi).

Elementi della vita. Ne citerò solo alcuni, rintracciabilissimi anche in altre vicende di eroi. La vita di Gesù è caratterizzata fin dalla prima infanzia dall’elemento del viaggio; a 12 anni discute con i sacerdoti nel tempio, mentre la madre preoccupata lo cerca ovunque. Da Siddharta a Gesù di Nazareth, ogni eroe-salvatore ripercorre l’archetipo di Abramo, cui Dio ordina di uscire dalla propria terra. Gesù ripropone il comando ai propri apostoli, suggerendo loro di lasciare casa e famiglia per seguirlo nel cammino. Questo recidere il cordone ombelicale con la propria madre non significa rinnegare le proprie origini (Maria seguirà Gesù ovunque e gli sarà accanto al momento della morte), ma evitare la nostalgia del mondo infantile materno, le tendenze regressive bloccanti che impedirebbero il normale sviluppo dell’io come individuo e, nel caso dell’eroe, la sua missione iniziatica. Anche Gesù, come Siddharta tentato dal demone Mara subito dopo il digiuno, subisce la sua prima prova iniziatica durante i quaranta giorni di isolamento e digiuno nel deserto: le tentazioni di Satana consistono nella stimolazione di quelle che sono le naturali passioni della natura umana, quali la fame e il desiderio di potere (nella variante buddhista anche la sessualità: Mara si trasforma in fanciulle incantevoli), ma l’eroe non cede alla propria egoità e non si lascia distogliere dal proprio compito di salvezza universale. Gesù diviene così uno dei tanti “maestri ellenici”, quei predicatori erranti che all’epoca si dichiaravano annunciatori di rivelazioni, ossia portatori di nuove dottrine di salvezza, e che spesso erano seguiti da folte folle, soprattutto per le proprie virtù carismatiche; egli, come molti altri, possiede proprietà taumaturgiche (non solo guarisce i malati, ma addirittura resuscita i morti) ed esorcistiche (sono celebri gli episodi evangelici della guarigione di indemoniati). Ma la prova iniziatica più dura sembra essere, nella storia delle religioni, la vittoria sul sonno, la veglia di Cristo nel giardino del Getsemani la notte prima dell’arresto (anche agli apostoli viene chiesto di vegliare, ma essi falliscono, cedendo alla stanchezza), secondo Eliade mutuata dall’epopea dell’eroe babilonese Gilgames, al quale venne richiesta un’analoga prova al fine di conquistare l’erba della vita.[10]

Morte esemplare. Storicamente, com’è noto, la spiegazione della morte di Cristo va ricercata nella repressione della rivolta anti-romana in Giudea; tra l’altro, egli viene crocifisso in mezzo a due “ladroni”, termine col quale probabilmente si designavano proprio gli agitatori di folle, i capi -veri o presunti- che davano voce a questa diffusa insofferenza. Ma per comprendere il significato simbolico della morte, dobbiamo ricordare l’usanza ebraica del capro espiatorio, l’animale sacrificato e poi condiviso nel banchetto rituale per ristabilire o rinnovare il patto di alleanza tra Dio e il suo popolo, soprattutto dopo un tradimento o una colpa da parte di quest’ultimo. Allo stesso modo, il sacrificio di Cristo risana i rapporti tra Dio e uomini mediante la cancellazione della colpa ancestrale; è egli stesso a dare tale chiarificazione nelle celebri parole pronunciate durante l’ultima cena, che diventeranno il cuore della liturgia cattolica: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi. Questo è il mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.”

Risurrezione. La morte esemplare è la mortificatio che nei miti iniziatici precede la risurrezione a nuova vita (nel linguaggio metaforico alchemico, la nigredo che precede l’albedo). Così, dopo tre giorni di esperienza infera -archetipo che ricorda i tre giorni di Jona nel ventre della balena- Cristo risorge in un corpo glorificato. Se la morte era stata l’espiazione del peccato originale, la risurrezione è a tutti gli effetti il riscatto di Adamo: il primo uomo con il proprio errore aveva corrotto il mondo e instaurato la morte (fallimento iniziatico), il salvatore cancella l’errore, sperimenta la morte per poi sconfiggerla, instaurando una nuova era per una nuova umanità risanata dalla colpa. La leggenda dei semplici narra inoltre che la croce di Cristo fu piantata sul colle sotto del quale si trovava la tomba di Adamo, e questo dimostra la continuità tra le due figure mitiche. Sul significato simbolico-universale della risurrezione, vastissimo se non inesauribile, torneremo più avanti.

La missione. Con le apparizioni di Gesù risorto e la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, inizia la diffusione del messaggio cristiano e nasce la Chiesa, dove molto presto la corrente “ellenista”, progressista e divulgatrice, pregna di un forte spirito missionario, ha la meglio su quella “ebraica”, più legalista e conservatrice, e pertanto meno propensa alla divulgazione. Per capire quali fossero le caratteristiche di questo spirito ellenista, è bene ricordare che quando Alessandro Magno morì a Babilonia nel 323 a.C., egli aveva già unificato con le proprie conquiste buona parte del mediterraneo e dell’Asia Minore, spingendosi addirittura fino in India, e creando così un ponte commerciale e culturale indelebile tra l’Occidente e l’Oriente allora conosciuti. In questo contesto di interscambio, andava sempre più diffondendosi tra le classi medie una tendenza universalista e cosmopolita, unita al gusto del viaggio e alla credenza della fondamentale unità del genere umano (poiché tutti gli uomini sono dotati di anima), quindi ad uno spirito di fratellanza, di filantropia, in ultima analisi di amore per il prossimo e di pratica della saggezza come possibilità di realizzazione dell’imago dei in vita. Tutti questi elementi confluiscono nel cristianesimo contribuendo non di poco a determinarne la dottrina e lo spirito missionario. Naturalmente questo quadro ottimistico presenta anche un rovescio della medaglia: la crescita economica, se da un lato si faceva portatrice dell’espansione culturale alla base del cosmopolitismo, dall’altro dava origine a grandi città e grandi periferie che anche in area mediterranea (come secoli prima era avvenuto nella Valle dell’Indo) vedevano nascere il fenomeno della massificazione. La salvaguardia dell’individuo sembra diventare ben presto una preoccupazione basilare: la ritrattistica greca non a caso raggiunge il suo apice in epoca ellenistica, e le religioni hanno ora il compito di elaborare nuove dottrine esoteriche in grado di garantire la salvezza post mortem dell’anima individuale; il platonismo conosce infatti grande fortuna e vengono elaborate in più luoghi nuove sintesi, notificate successivamente con il nome di “misteri”.[11]

 

SIMBOLO - Dedichiamo ora un rapido sguardo alla simbologia cristiana nel rito come nello spazio sacro. Risulta chiaro che il simbolo per eccellenza della religione cristiana è il Cristo, “l’unto” da Dio e come tale uomo e Dio, l’incarnazione (in metafisica la manifestazione) del Padre (il Non Manifestato) nel grembo della Madre (la Materia), il punto d’incontro unificatore dell’asse divino verticale e del piano terreno orizzontale. Cristo è l’agente creativo, il Logos eternamente presente in Dio Padre: “Al principio c’era colui che è la Parola. Egli era con Dio; egli era Dio. Egli era al principio con Dio. Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui Dio non ha creato nulla.” (Giovanni 1, 1-3). In quest’ottica il simbolo del Cristo andrebbe tenuto distinto dalla figura storica di Gesu’ di Nazaret.[12]

Le immagini rappresentative del simbolo cristiano sono molteplici e soggette a innumerevoli variazioni nello spazio e nel tempo. Ne citeremo alcune. Per brevità, trascureremo la serie di animali che compaiono nell’arte paleocristiana e medievale (dai mosaici bizantini alle prime chiese romaniche fino alle cattedrali gotiche) ma che oggi tendono a scomparire come immagini di culto: ricordiamo solo la colomba (immagine dello Spirito Santo e successivamente di riconciliazione tra uomo e Dio, quindi di pace), l’agnello (Cristo come capro espiatorio del sacrificio), l’ariete (la controparte aggressiva che allude all’ambivalenza simbolica del Cristo stesso), l’aquila (la sua intelligenza intuitiva) e molti altri.

La croce. In essa confluisce la simbologia pre-cristiana dell’albero cosmico, asse del mondo e immagine di rigenerazione periodica (risurrezione) della natura.[13] Nel cristianesimo delle origini la croce svela il mistero della salvezza, il sacrificio di Cristo che riscatta la colpa ancestrale di Adamo: la tradizione dei Semplici vuole che essa fosse piantata sulla sommità del monte in cui Adamo fu sepolto, marcando così l’idea di continuità non solo tra l’albero e la croce stessa, ma soprattutto tra la prima e la seconda creazione per mezzo dei due “antenati mitici”, il primo fallimentare e pertanto mortale, il secondo vittorioso e glorificato nel suo corpo di risurrezione. Sia nella tradizione ebraica che in quella greca, inoltre, la croce è una delle rappresentazioni grafiche di congiunzione astrologica degli opposti. E’ degno di nota il fatto che i Magi, esperti astrologi, all’apparizione di una costellazione straordinaria associarono immediatamente l’intuizione di una nascita altrettanto straordinaria. In un commento ebraico a Daniele del XIV secolo a.C., si preannunciava già la venuta del Messia nel segno dei Pesci, parallelamente all’equinozio primaverile, nel momento in cui l’orbita solare e quella terrestre, cioè l’eclittica e l’equatore, si congiungono nel punto dell’equinozio primaverile, formando la cosiddetta “croce di S. Andrea”, raffigurata dalla lettera chi e vista da Platone come l’immagine dell’unione tra le due parti dell’Anima Mundi. Ovviamente, da questo concetto platonico a quello cristiano di unione della sfera umana con quella divina nella figura di Cristo, il passo è breve. La frase di Simone Weil : “La croce è obliqua, ma è pur sempre una croce” lascia intendere la profezia, o meglio, la speranza greca di un simbolo redentore quale il Messia.[14] Ma c’è un’altra congiunzione planetaria simultanea alla nascita di Cristo, molto importante questa volta per il mondo ebraico, e cioè quella di Giove e Saturno, il pianeta benefico portatore di fortuna e fecondità, e la cosiddetta “stella nera”, la dimora del diavolo, associata nel medioevo allo scorpione, al serpente e agli uccelli notturni. L’intersezione delle due orbite è il simbolo unificante tra i poli opposti del bene e del male, della luce e dell’oscurità. Secondo Jung, Cristo, prima che figura storica, sembra essere dunque un archetipo a-temporale che ciclicamente, in corrispondenza delle congiunzioni, si manifesta attraverso le epoche, specialmente nei momenti delle grandi svolte storiche che modificano il destino dell’umanità. [15] Varianti della croce greca di S. Andrea sono la croce così come trasmessa dalle fonti storiche, con l’asse verticale più lungo di quello orizzontale, la croce a braccia perpendicolari uguali, la più diffusa in epoca cristiana, talvolta uncinata, il tau e l’ankh, simbolo egizio della vita. Le braccia ad uncino imprimono alla croce un movimento rotatorio, immagine del moto perfetto e di avvicinamento progressivo al centro; è riscontrabile non solo nell’arte cristiana medievale, ma in numerose altre tradizioni religiose, dai templi hindu ai disegni di alcune tribù indigene nordamericane.

Il pesce. E’ stata ampiamente dibattuta da molti autori la sincronicità tra la nascita di Cristo e l’inizio dell’eone astrologico dei Pesci. Il punto equinoziale primaverile, nel periodo della nascita di Cristo, per effetto del fenomeno naturale della precessione degli equinozi, si è spostato infatti dalla costellazione dell’Ariete a quella dei Pesci.[16] Il pesce, animale acquatico, porta con sé tutta l’ambivalenza sacrale dell’acqua: morte e rinascita, maschile (fallo) e femminile (madre), mostro marino divoratore e cibo per gli uomini, ecc.[17] Nell’iconografia cristiana, a confermare l’ambitendenza del simbolo, i pesci sono spesso due, antitetici: il più grande nell’atto di generare o divorare il più piccolo; talvolta, su alcune monete romane, uno verticale e l’altro orizzontale, perpendicolari o addirittura intersecati a mo’ di croce, a rappresentare l’intersezione tra il bene e il male nella totalità del creato (secondo l’interpretazione junghiana, Cristo e Satana nel gioco della dualità e complementarità cosmica).[18]

Il sole e la stella. Il sole è l’immagine di tutti gli eroi-salvatori (Buddha, Mitra, Cristo...) e degli imperatori divini, mediatori tra uomini e dèi (sovrani delle civiltà pre-colombiane, faraoni egizi, imperatori romani come Cesare Augusto e così via, fino al noto Re Sole), nel loro destino iniziatico di morte e rinascita. Secondo l’interpretazione astrologica, i dodici apostoli di Cristo rappresenterebbero le dodici apparenti posizioni del sole nella fascia dello zodiaco. Anche la stella è un’immagine dell’eroe-salvatore (come recita la liturgia mitraica: “Sono una stella che compie il suo cammino con voi”[19]) e al tempo stesso la guida che conduce a lui i fedeli (ricordiamo la cometa che indica ai magi e ai pastori il luogo della natività nel mito mitraico e poi cristiano). Anche la Madre di Cristo è talora invocata come stella matutina, guida e punto di orientamento dei naviganti notturni.[20]

L’ostia e il calice. Accenneremo alla complessità di significati del pane eucaristico nel paragrafo dedicato al rito. Anche il calice gode di un ricco simbolismo. La sua forma suggerisce quella dell’utero materno, rinvia cioè all’ambivalente mondo conio della nascita, morte e risurrezione: ricordiamo il vas delle Litanie Lauretane, che richiama il krater gnostico e ripreso poi nel crogiuolo delle trasformazioni alchemiche, e naturalmente la celebre leggenda medievale del Santo Graal, la coppa in cui Cristo avrebbe bevuto durante l’ultima e cena (la magia della trasmutazione del vino in sangue) e dove il sangue del crocifisso sarebbe poi stato raccolto: la coppa in cui il sangue sarebbe confluito alimenta così la fede dei semplici, le cui leggende esaltavano le virtù taumaturgiche delle piante alimentate dal gocciolare del sangue ai piedi della croce, e la sublima in speranza nella guarigione per eccellenza, ossia la salvezza dell’anima, la vita eterna. Il calice, come la grotta, porta inevitabilmente a prendere in esame, anche se in breve, il mistero del vuoto, argomento inesauribile e perennemente carico di quella luminosità in grado di suscitare nel fruitore attrazione irrefrenabile e terrore al tempo stesso (horror vacui). Il concetto di vuoto compare nella maggior parte delle tradizioni mistiche di tutto il mondo ad indicare il vuoto di attributi della divinità e l’indefinibilità dell’esperienza di contemplazione ed unione con la stessa (nella tradizione cristiana ricordiamo, tra i molti, lo “svuotarsi di immagini” negli esercizi di S. Ignazio, il “Nada Nada” gridato da S. Giovanni della Croce per definire Dio, o la teologia negativa dello Pseudo-Dionigi). Nelle filosofie religiose orientali, in particolare di matrice buddista (es. la dottrina della “vacuità universale” di Nagarjuna), il vuoto e il silenzio svelano il sottile concetto di anatta, la non-sostanzialità dell’ego individuale di ogni cosa, la cui identità di singolo è vacua, poiché interdipendente, cioè strettamente correlata al resto dell’universo, ed è proprio questa relazione a conferire l’identità. Nella mistica cristiana invece prevale il concetto di vuoto come contenitore, utero, Madre del mondo, principio creativo della vita, o meglio, Dio nel suo aspetto creatore della materia, ossia il Padre nell’atto di manifestarsi nella sua controparte ctonia: la terra, il concavo del cosmo, passivo nel senso di ricettivo, accettante. Le due interpretazioni, orientale ed occidentale, non possono che essere complementari. Infatti, è proprio la vacuità che conferisce all’utero simbolico il potere di generare il pieno, di ricevere e dare la vita: il vuoto permette lo scambio ed è quindi la premessa dell’interdipendenza tra le parti cosmiche. Come nel mito cristiano l’utero della Madre riceve il seme divino e partorisce il Cristo, così il vaso alchemico riceve l’input dall’alchimista e, mediante la trasmutazione della sostanza arcana in esso contenuta, produce il Lapis[21]; allo stesso modo, il mistico cristiano “svuota” la propria anima (la rende “vergine”) invitando Dio a venire, ri-nascere, in essa.[22]

 

Anche l’archetipo della Madre, grembo dell’incarnazione e quindi della rigenerazione del Dio padre per mezzo del Figlio, e come tale indispensabile ricettacolo della creazione, vanta molteplici immagini simboliche. Il fatto che Maria, madre di Gesù, sia l’espressione cristiana dell’arcaico culto della Madre Terra è confermato dall’osservazione di società tribali solo di recente convertite al cristianesimo che immediatamente e spontaneamente sovrappongono e identificano le due figure. Evitando di affrontare tali sincretismi, difficili da definire per vastità e complessità, e rimanendo in ambito prettamente cristiano, le immagini più significative del culto mariano si trovano forse nelle Litanie Lauretane[23], tutt’oggi recitate dai fedeli alla conclusione del Rosario. L’ambivalenza Virgo-Mater è già stata analizzata nel paragrafo dedicato al mito (cfr: Il paradosso della Madre). Le litanie descrivono poi Maria come Vas e Turris, simbolicamente utero e fallo, dimensione ctonia femminile e asse verticale maschile, e come tale coincidentia oppositorum di materia e spirito, umano e divino.[24] L’androginia simbolica sembra caratterizzare le molte dèe pre-cristiane dell’amore e della guerra, dispensatrici di vita, conforto, benevolenza, guarigione (da cui gli aspetti benevoli della Madre cristiana invocata dai fedeli come ausilium, consolatrix, rifugium, causa laetitiae, ecc.), e al tempo stesso imprevedibili portatrici di morte, talvolta psicopompe (janua coeli). L’invocazione “Porta del Cielo” introduce inoltre quello che è forse l’aspetto principale del culto mariano cattolico, ossia la funzione di Maria quale intermediatrice fra gli uomini e il Dio dei cieli, che nella storia delle società patriarcali corre spesso il rischio di diventare astratto perché lontano dalle vicissitudini terrene (Deus otiosus): per non venire sostituito da altri dèi più vicini, Egli deve trovare degli espedienti per avvicinarsi alle creature soddisfacendo così i loro bisogni devozionali; è un fenomeno che Eliade definisce “caduta progressiva verso il concreto.

 

RITO - Il patrimonio rituale cristiano più ricco è quello conservato dal cattolicesimo. Non mi voglio soffermare sulla descrizione strutturale e semantica dei sette sacramenti cattolici, riti che contengono al proprio interno una miriade di gesti rituali; mi limiterò solo ad un cenno, approfondendo invece il al centro della liturgia cristiana, ripetuto almeno una volta ogni sette giorni dal praticante, e cioè l’Eucaristia.

Se il mito si svolge nel tempo sacro, il luogo del rito è lo spazio sacro. Dalle società arcaiche alle più recenti architetture delle religioni monoteiste, esso presenta uno schema archetipico che racchiude nel proprio centro l’ “ombelico” della terra, cioè la casa del Dio, il luogo della ierofania, il punto dal quale viene emanata e riassorbita la creazione nei cicli di produzione e distruzione del cosmo. Il centro è attraversato dall’axis mundi, che unifica i tre livelli cosmici (cielo, terra, inferi), ed è protetto da una soglia (recinto o mostro custode) in grado di separare il sacro dal profano, l’ordina dal caos, gli eletti (co-partecipi della condizione divina del centro) dai non-eletti. Nella chiesa paleocristiana e medievale, e ovviamente non è mia intenzione soffermarmi sulla differenza di stili artistici e architettonici così ricca e varia nei secoli di medioevo europeo, una prima soglia è costituita dalla porta principale corredata dalla bacinella per il segno della croce (l’abluzione rituale a scopo di purificazione prima del rito è assai comune nelle religioni), e successivamente una balaustra e un certo numero di scalini dividono le navate dal vero e proprio spazio sacro, il presbiterio, che nel suo centro contiene il tabernacolo, dov’è custodito il “corpo di Cristo”, attraversato dall’asse che in epoca cristiana abbandona l’immagine tradizionale dell’albero e assume quella della croce. Sarebbe interessante una comparazione tra lo spazio sacro cristiano e quello di molte altre religioni, anche orientali: basti pensare allo schema dello stupa buddhista, in cui è presente un centro, originariamente contenente le reliquie di un santo (arhat), attraversato dalla colonna sacra (yasti) e protetto da una balaustra (vedika); inoltre, i quattro portoni (torana) orientati secondo i quattro punti cardinali ricordano l’antichissimo archetipo spaziale della terra quadrata ricoperta dal cielo come una volta o cupola a “uovo” (anda). Schemi simili sono individuabili nel caitya (il santuario buddhista scavato nella roccia) e nel tempio hindu.[25] E’ interessante tuttavia notare i diversi modi di accesso al centro, basati su differenti concezioni del tempo, ciclico per gli orientali, generalmente progressivo e lineare per gli occidentali: il fedele buddhista si avvicinerà dunque al centro mediante una peregrinazione rituale circolare a ridosso della vedika, che mima l’apparente moto del sole attorno alla terra, mentre il cristiano accederà all’Eucaristia mediante un graduale approssimarsi lineare all’altare, ossia una fila regolare nella navata centrale.

Ogni sacramento cattolico, sebbene possa ormai apparire superato e insensato agli occhi dell’uomo post-moderno, è frutto di un’evoluzione ed ha quindi una sua precisa ragione d’essere.

Il Battesimo è l’espressione cristiana degli arcaici rituali di iniziazione mediante la simbologia di morte e rinascita: il ritorno all’acqua, arché per eccellenza, “scioglie” e “ricrea”, e in questo modo muore l’anonima creatura marcata dal peccato originale e nasce il figlio di Dio, al quale viene assegnato un nome e che quindi diviene membro vivo della comunità di fedeli, come nelle iniziazioni tribali moriva la larva e nasceva l’eletto, l’uomo, il membro della tribù.

Il Sacerdozio, com’è noto, esiste fin dai tempi arcaici, dove assistiamo al binomio sciamano/stregone, il primo buono (“medicine man”), il secondo sempre impegnato nel compito malefico di tramare fatture contro alcuni membri della società; a volte sono la stessa persona, a volte no.

Anche il Matrimonio è un rito arcaico quanto l’uomo: ripetizione della ierogamia primordiale Cielo/Terra (nella tradizione giudaico-cristiana: Jahvè/Israele e successivamente Cristo/Chiesa), il Matrimonio è una sorta di “recinto”, una limitazione rituale della forza numinosa, perché irrefrenabile, della sessualità.

La Confermazione, ripetizione simbolica della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è la premessa per la missione di propagazione della fede cristiana e quindi la sopravvivenza ed espansione della Chiesa.

La psicologia del profondo ha sottolineato la valenza terapeutica della Confessione come espiazione di quello che Jung definì “il segreto patogeno”, ossia una colpa, vera o comunque vissuta come tale dal fedele, che se non confessata e condivisa si somatizzerebbe in sintomi nevrotici o condizionerebbe in modo negativo le scelte e quindi l’andamento della vita. L’espediente cattolico del perdono divino concesso grazie all’intermediazione umana del sacerdote si rivela dunque salvifico per la salute mentale, e a questo proposito Jung osserva la maggiore incidenza delle nevrosi nelle comunità protestanti in cui la Confessione è inesistente e dove “l’uomo è lasciato solo dinnanzi a Dio” e arriva ad attribuire al confessore il ruolo che nella società post-moderna desacralizzata sarà dello psicoterapeuta, spianando la strada a feconde riflessioni sulla necessità di collaborazione tra le due figure nel mondo occidentale contemporaneo.[26]

Se l’aspetto psicologico della Confessione è innegabile, non dobbiamo trascurare il suo valore rituale di “soglia”, di preparazione al sacramento centrale, il cuore del culto cristiano, L’Eucaristia, che il praticante ripete obbligatoriamente ogni sette giorni nella messa, a meno che non abbia trascurato il suddetto aspetto preliminare di purificazione. Capire razionalmente il senso dell’Eucaristia non solo è impossibile, ma costituirebbe un tentativo di sminuirne il mistero; è possibile invece accedere al significato per via intuitiva, ma per arrivare a ciò il rito va osservato nel suo contesto. L’antico rito del sacrificio (umano e poi animale) riproduceva a livello microcosmico o simbolico il mito della “cosmogonia mediante uccisione creatrice”, assai diffuso nel mediterraneo e nel vicino oriente, fino all’India, e manifesto in diverse varianti: l’eroe uccide il mostro o gigante primordiale, dal cui corpo smembrato escono tutte le forme dell’universo (es. il babilonese Marduk contro Tiamat, il persiano Mitra contro il Toro, ecc.), oppure è il Dio stesso che si autoframmenta, e la creazione avviene quindi mediante scissione dell’Uno nel molteplice, per ragioni di desiderio (es. il mito vedico di Purusa) o per tensioni interne alle componenti dell’Uno stesso (es. la frammentazione della luce del Pleroma nel mito valentiniano). Va inquadrato in quest’ottica anche il rito ebraico del “capro espiatorio”, con il banchetto che ne seguiva e che aveva lo scopo di celebrare, o meglio rinnovare, il patto di alleanza tra Dio e Israele. L’archetipo del sacrificio era presente anche nelle religioni misteriche ellenististe, sorte, come accennato, in reazione al fenomeno crescente della massificazione sociale e in alternativa ai culti popolari e ufficiali politeisti, e che prima e contemporaneamente alla predicazione di Cristo conobbero grande diffusione nell’area mediterranea. I misteri erano caratterizzati, seppur con le ovvie differenze di culto, dal comune schema dell’iniziazione spirituale, ossia l’accesso di pochi abili adepti alla conoscenza esoterica (che per il suo carettere di segretezza e di chiusura ai non adepti veniva detta appunto “mistero”) la cui conseguenza più evidente per l’eletto era la promessa di salvezza, ossia l’immortalità dell’anima individuale. Nati come culti sincretici, sintesi di esoterismi babilonesi, giudaici, greco-romani ed egizi, i misteri spesso erano caratterizzati da una sessualità orgiastica (es. i misteri di Dioniso, con il culto del fallo, dove la disinibizione necessaria all’orgia era data dal vino) o da sacrifici cruenti (spesso gli adepti praticavano il rito completamente ricoperti del sangue di un animale precedente sacrificato; nei misteri di Attis e Cibele, inoltre, pare che l’adepto, nell’imitatio dei, si autoevirasse offrendo i propri genitali alla dèa Cibele). I motivi di tali comportamenti estremi vanno ricercati nella struttura di fondo alla base del mito, e dunque del rito, di ogni mistero (ad esclusione del mitraismo): morte del dio incarnato e successiva risurrezione, generalmente mediante smembramento e ricomposizione, scissione e reintegrazione, concetti che erano anche alla base dei “segreti della natura” dell’ermetismo e che poi sarebbero confluiti nell’alchimia. Sia lo smembramento che la ricomposizione del dio avvengono per mano della dèa, madre e sposa del dio stesso (es. Cibele madre-sposa di Attis, Iside madre-sposa di Osiride: sposa del dio celeste e madre del dio incarnato, ma il primo e il secondo sono uno), e questo ribadisce la funzione ambivalente delle grandi dèe, portatrici di vita e di morte, di amore e di guerra, raccogliendo l’eredità dell’arcaica Madre Terra nella sua doppia caratteristica di utero e tomba, compositrice e decompositrice, alfa ed omega delle proprie creature. Inizialmente anche il cristianesimo viene classificato come mistero dai sacerdoti ufficiali romani, e le similitudini effettivamente non mancano. La vicenda terrena di Cristo, ripetuta nel rito dell’Eucaristia, dispiega infatti lo stesso schema archetipico di morte e risurrezione, e si tratta a tutti gli effetti di una morte violenta, di uno smembramento, basti pensare ad elementi quali la corona di spine, le frustate, la spartizione delle vesti, la crudeltà della via crucis, che culmina con la crocifissione di mani e piedi e il costato trafitto dalla lancia; alla morte infame sulla croce segue poi, secondo il mito, la risurrezione della carne accompagnata dalle apparizioni del corpo “ricomposto” e glorificato. In cosa dunque si differenzia il culto cristiano dagli altri misteri dell’epoca? L’enorme novità apportata dal cristianesimo nella storia delle religioni mediterranee è la simbolizzazione. La violenza del mito non viene ripetuta nel rito, perché il sacrificio viene simbolizzato: la carne è sostituita dal pane, il sangue dal vino, lo smembramento del corpo è sostituito dallo spezzare il pane, l’omofagia (o il pasto di un animale sostituto) dall’eucaristia, l’autoevirazione del sacerdote dal voto di castità. In questo va ricercato il successo, malgrado i molteplici ostacoli (rivalità di culto, persecuzioni, ecc.) della religione cristiana a discapito delle altre, moltissime, all’epoca presenti in Europa e nel vicino oriente. Jung ad esempio, per spiegare il consenso così vasto incontrato dal cristianesimo in breve tempo, pone l’accento sulla non-violenza del culto, elemento nuovo reso possibile dalla simbolizzazione del sacrificio, che era esattamente ciò di cui l’umanità aveva bisogno per elevarsi dai residui di barbarie; anche il mitraismo era un culto non violento, ma sembra che le donne non potessero accedervi, cosa ormai considerata inaccettabile. Eliade definisce la vicenda umana di Cristo una ierofania “suprema” in quanto “ultima”: non viene più richiesta al fedele infatti alcuna uccisione rituale, il sacrificio di Cristo è definitivo e sufficiente anche per la salvezza delle generazioni che verranno, ed è lo stesso Cristo a focalizzare il concetto durante l’ultima cena, con le celebri parole che nella liturgia cristiana segnano il momento della consacrazione: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo (....) questo è il mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me [corsivo mio].” Se il vantaggio cosmico dello smembrare il dio è una rigenerazione totale mediante ri-creazione, messa in atto dalla ripetizione  dell’uccisione creatrice primordiale, è doveroso non perdere di vista il valore simbolico del mangiare il dio smembrato: offrendosi in sacrificio, il Dio cristiano sceglie l’uomo come proprio ricettacolo, casa e contenitore; l’anima umana, introiettando l’essenza del Dio, si fa partecipe della condizione divina e realizza con la pratica dell’Eucaristia l’imago dei in vita. Il significato psicologico della nutrizione, il primo tra gli istinti, e dei risvolti mistici del “nutrirsi di Dio”, è materia di studio della psicologia del profondo.

A questo punto, definita la forza della novità che costituisce la grandezza del cristianesimo e sembra marcarne il trionfo, soddisfacendo esigenze psicologiche comuni a tutti gli esseri umani, dobbiamo tener presente che nello studio comparato delle religioni le sorprese non mancano. Abbiamo visto che il dio che offre il proprio figlio (se stesso fatto uomo) in sacrificio venendo smembrato e mangiato da pochi eletti è uno schema ricorrente in diversi contesti precristiani. Ma un parallelo sorprendente di simbolizzazione non-violenta del sacrificio, lontanissimo nel tempo e nello spazio dal contesto cristiano, è il teoqualo azteco, ed è ancora una volta l’occhio di Jung ad individuarlo e commentarlo: i primi missionari cristiani giunti in America Latina rimasero sbigottiti, per la sua evidente somiglianza con il rito cristiano, dell’usanza degli Aztechi (popolo che, com’è noto, in tempo di guerra non esitava a praticare i sacrifici umani, suscitando nelle menti degli antropologi le più svariate teorie interpretative) di mangiare il corpo del dio simboleggiato da una specie di focaccia ottenuta con la triturazione dei semi di papavero.[27]

I riti religiosi di tutti i tempi hanno espresso con linguaggi e gesti differenti il processo di rinascita interiore che trascende i limiti terreni (egoici) realizzando così l’imago dei nell’uomo; l’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo è l’espressione cristiana di questo archetipo.

 

  

BIBLIOGRAFIA