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Elezioni di mid-term: la fine di un'era e le possibili "esplosive" rentrée

di Giulietto Chiesa - 14/11/2006


L'Impero non svanisce con una elezione di mezzo termine, ma il realismo potrebbe farsi strada. La speranza è tenue ma non va cancellata. L'Europa dovrebbe proporsi a Washington, ora guidata da un presidente sconfitto, come un saggio alleato che non ha più alcuna intenzione di farsi trascinare in altre avventure

Una cosa è certa: gli ultimi due anni della presidenza di George Bush II non potranno essere neanche lontanamente simili ai primi sei. E' finito quello che molti chiamavano il “governo unificato” degli Stati Uniti d'America. Una situazione non inedita della storia americana, ma che sotto questo Bush aveva assunto dimensioni e caratteri straordinari, fortemente lesivi dell'assetto costituzionale democratico di quel paese, quando l'Esecutivo non solo aveva finito per controllare entrambi i rami del Legislativo, ma il Presidente in carica – a cominciare dall'11 settembre 2001 e dall'avvio della cosiddetta “guerra contro il terrorismo internazionale” – aveva dimostrato di ritenersi al di sopra delle leggi e del bilanciamento dei poteri. Per giunta determinato non solo a cambiare l'assetto istituzionale del proprio paese, ma anche a rovesciare tutti i criteri del diritto internazionale.

Questo è un cambio di prospettiva che il mondo intero (quello esterno) ha salutato positivamente. Quasi la fine di un incubo guerriero che si era sistematicamente coniugato in questi anni – all'interno degli USA e in Europa – con continue pressioni per un aumento dei controlli sulla vita dei cittadini, per una moltiplicazione ed estensione delle agenzie di sicurezza e delle loro funzioni. Insomma, con George Bush II noi tutti eravamo divenuti meno sicuri e, di certo, più impauriti e inquieti.

Il problema, adesso, è di capire se il resto del mondo avrà qualche ragione in meno di essere inquieto, oppure se cambierà poco, oppure se non cambierà nulla. Tutte queste varianti sembrano essere valide. Le prime dichiarazioni del presidente sconfitto sono concilianti. Sembra che voglia dialogare, finalmente, con qualcuno. Ma un conto è dialogare da posizioni di forza, è un altro è farlo dopo essere stato ridimensionato pesantemente, come è accaduto in queste elezioni di mezzo, e con i vincitori democratici che hanno preso il controllo di entrambe le camere. A questo dialogo George Bush – sicuramente consigliato da James Baker, che fu consigliere di suo padre – ha già sacrificato Donald Rumsfeld, e non è poco, essendo stato Rumsfeld l'esecutore (l'inventore è stato Dick Cheney) della sconfitta in Irak.

Ma restano sulla scena, e non saranno rimossi, proprio Dick Cheney e Karl Rove, che sono l'anima di Bush e che l'hanno guidato in questi sei anni. E non sono uomini per tutte le stagioni: il dialogo non è il loro forte. Hanno preso il potere per fare la guerra e non pare probabile che adesso si acconcino alla pace. Al contrario io suggerirei agli analisti entusiasti, che già prefigurano la vittoria democratica nel 2008, di mettere nel conto qualche colpo di coda. Da qui alle nuove elezioni presidenziali ci sono ancora due anni e due anni sono molti in politica. Possono accadere ancora tante cose. Per esempio una guerra, che potrebbe essere presentata al paese e al mondo come inevitabile, necessaria, improcrastinabile. La guerra irachena fu preparata in due anni, con una escalation emotiva potente, guidata dai media, interamente fondata sul nulla, piena di menzogne imposte perfino a una Cia e a un pentagono recalcitranti.

Dick Cheney sa bene che i democratici sono molto sensibili al richiamo patriottico, che è il loro tallone d'Achille. Non sarebbe così difficile trascinare anche loro, un'altra volta, nella terza (anzi quarta se ci si mette il Kosovo, che fu opera di Clinton, infatti) guerra dell'Impero: basta che il pericolo per l'Occidente, per la Democrazia , per il Mercato e la Libertà sia sufficientemente ben confezionato e consegnato come un pacco esplosivo nelle mani dell'elettorato.

Io starei dunque bene attento e con la guardia alzata. Basterebbe, per esempio, un bel regalo di Osama bin Laden, o di chi per lui – e non sarebbe né il primo, né il secondo – per rilanciare il terrore, e scatenare una nuova fase della “guerra contro il terrorismo internazionale”.

L'obiettivo, del resto, è già pronto, cucinato a dovere. Non c'è che da servirlo in tavola: è l'Iran, naturalmente. E di fronte ai progressi iraniani, che ci verranno mostrati ad ogni passo dalle nostre televisioni, verso la costruzione della bomba, si troveranno mille voci che chiederanno di fermarlo, a tutti i costi. Chi potrà resistere? E, ove non bastassero i progressi iraniani, perché non usare i bluff di Kim Jong Il per accrescere la paura dei nucleari degli “stati canaglia”?

Certo c'è l'Irak, che non ha una soluzione, e che popola gl'incubi di Bush, oltre che impegnare tutte le forze disponibili a terra. Ma si tratta di una dissuasione relativa. Infatti nessuno, a Washington, ha mai pensato di invadere l'Iran. Nemmeno quel buontempone di Rumsfeld era giunto a tanto. L'ipotesi di un attacco contro l'Iran non prevede in ogni caso scarponi americani a terra. Non ce ne sarebbero a disposizione, in primo luogo, ma anche se ci fossero, non sarebbero ciò che serve. L'Iran non va conquistato, va demolito. Questo pensa Dick Cheney, che ha in mente due idee fisse: demolire per ricostruire (più precisamente per distribuire e distribuirsi appalti di ricostruzione) e destabilizzare per ingigantire le spese per il riarmo americano.

Del resto nemmeno i democratici hanno una soluzione per l'Irak e nulla dice, per ora, che prevedono di ritirarsi, nemmeno a tappe. Quindi un'ipotesi realistica è che i prossimi due anni di guerra vedranno una gestione bipartisan, che significherà per i democratici una nuova compromissione militare, dopo le tre precedenti. Equiparare i democratici a pacifisti è un'esagerazione così evidente che non dovrebbe essere nemmeno immaginata. Liberman, democratico guerriero, è stato rieletto nel suo collegio, a riprova che una parte non secondaria dell'elettorato democratico è pronta a proseguire la guerra. Anche Hillary Clinton lo è.

I temi sociali ed etici non sono il terreno per la bipartisanship, e qui sicuramente ci sarà battaglia. Ma appare improbabile un affondo radicale del Partito Democratico. Il Partito Democratico non è più capace di affondi radicali. Potrà dichiarare (ma solo a mezza voce) che i ricchi devono pagare le tasse e che una certa redistribuzione della ricchezza a favore dei più deboli dovrà essere fatta. Tuttavia il problema di fondo, che neppure i democratici possono affrontare, è quello dell'indebitamento degli Stati Uniti. Affrontarlo significherebbe immaginare un presidente democratico che, una bella mattina del 2007, si affaccia dai teleschermi del paese, a reti unificate, per dire loro che non è più possibile evitare di negoziare, con il resto del mondo, il tenore di vita del ceto medio americano, l'unico che vota, e che bisognerà mettersi d'accordo con le altre “americhe” emergenti, a cominciare dalla Cina e dall'India. Significherebbe dire agli americani di consumare di meno. Ipotesi questa talmente peregrina che l'ho citata solo per far comprendere come il compito dei democratici sia improbo, nelle attuali condizioni.

Cambierà il clima dei rapporti con il resto del mondo, questo pare probabile. Bisognerebbe sfruttare positivamente l'occasione. L'Europa, se volesse, potrebbe svolgere un ruolo cruciale verso la riaffermazione di uno mondo multipolare. Ma a sua volta dovrebbe assecondare il desiderio di cambiamento manifestato dagli elettori americani. E proporsi a Washington, ora guidata da un presidente sconfitto, come un saggio alleato che non ha più alcuna intenzione di farsi trascinare in altre avventure. La Russia anche dovrebbe studiare il modo di assecondare un nuovo clima.. L'Impero non svanisce con una elezione di mezzo termine, ma il realismo potrebbe farsi strada. La speranza è tenue ma non va cancellata.

 

Giulietto Chiesa è tra gli autori dell'antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi.

 

Fonte: GiuliettoChiesa.it