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Geopolitica e Migrazioni

di Tiberio Graziani - 14/11/2006

 

“…i processi migratori attuali possono essere meglio giudicati
se si possiede una visione d’insieme di quelli già conclusi
- e quindi ormai storici – e se si conoscono le linee di sviluppo
al termine delle quali stanno i problemi del presente”


K. J. Bade, L’Europa in movimento

Il fenomeno migratorio ha sempre goduto di una vasta letteratura specialistica che ne ha scandagliato, da molteplici prospettive, le diverse cause, i disparati meccanismi e le relative connessioni con vari campi di indagine, che vanno principalmente, tanto per citarne alcuni, dalla etnografia alla antropologia, dall’etnogenesi alla sociologia, dall’economia alla demografia, alla politica, al diritto, alla sicurezza. Oltre la letteratura scientifica, occorre menzionare anche la produzione giornalistica (televisiva e cartacea) che, notevolmente aumentata negli ultimi anni, ha apportato, con rare eccezioni, non poca confusione nelle analisi dell’argomento in questione.

Le analisi e gli studi forniti dall’ampia documentazione rivelano la complessità del problema; ma, pur fornendo diversificati punti di vista e nuovi spunti di ricerca e di riflessione, tendono sostanzialmente a confinare il fenomeno entro i limiti investigativi dell’economia e della sociologia; mancano invece seri studi relativi ai rapporti tra le migrazioni, le differenti modalità dei flussi migratori e la geopolitica.

I pochi lavori che trattano la “geopolitica delle migrazioni” si risolvono, il più delle volte, nella sola descrizione, seppur articolata e ben documentata, delle “rotte” dei flussi migratori e delle dislocazioni delle masse migratorie (1); anche i numerosi studi condotti sulle relazioni tra il fenomeno immigratorio e la questione identitaria, quale elemento cardine dell’analisi geopolitica per quanto concerne gli aspetti relativi alla memoria collettiva di una specifica comunità, preferiscono adottare esclusivamente un taglio sociologico. Infine, per quanto concerne indagini geopolitiche volte a considerare le migrazioni quale elemento dinamico nella formazione delle identità etniche e culturali dei popoli, occorre riferirsi non a studiosi di geopolitica, bensì a storici.

Eppure i fenomeni migratori, quali ne siano le caratteristiche che li contraddistinguono e le cause che li originano (tra cui una parte rilevante è costituita proprio dai mutamenti degli scenari geopolitici), implicano un’intima ed inestricabile relazione con concetti e tematiche che sono alla base di ogni analisi geopolitica, quali, ad esempio e fra gli altri, la geografia fisica, la frontiera, l’identità etnica e culturale, l’espansione dello Stato e il desiderio del territorio. Per fare un solo esempio, già il semplice passaggio di frontiera di una massa di persone - considerevole e relativamente omogenea (per etnia o per condizione economica o per un particolare status, quale, ad esempio, quello di rifugiato politico) - sottintende una peculiarità di tipo geopolitico, in quanto correlata alla “posizione”, alla “morfologia”, alla “identità” del Paese ospitante, nonché alla funzione di quest’ultimo nell’unità geopolitica e geoeconomica di cui esso è parte integrante. I caratteri peninsulare e mediano (in riferimento al Mar Mediterraneo) dell’Italia, ad esempio, connotano il nostro Paese più come un territorio di passaggio che come un “terminale” dei flussi migratori, un vero e proprio ponte fra l’Europa e l’Africa del nord. Sul versante propriamente geopolitico, occorre purtroppo rilevare che l’Italia (e con essa l’Europa), essendo subordinata ai disegni della forza egemone d’oltreoceano, invece di svolgere la naturale e storica funzione di punto di incontro tra gli specifici interessi geopolitici e culturali europei e nordafricani e del Vicino Oriente, costituisce, sotto il profilo geostrategico, un presidio periferico degli USA, una sorta di confine artificioso, la cui natura critica e la funzione ambigua amplificano a dismisura il problema “immigratorio”.

Una questione semantica

Un primo punto da chiarire, in merito al rapporto tra migrazioni e spazio geopolitico, è di ordine semantico. Emigrazione e immigrazione, emigrato e immigrato, sono i lemmi che definiscono lo stesso oggetto (migrazione, migrante) in rapporto al movimento di individui singoli o di intere comunità da una determinata area geografica di origine ad un’altra di arrivo, passaggio o permanenza. Dal punto di vista della riflessione geopolitica, sia per quanto concerne gli aspetti meramente descrittivi di questa particolare scienza, sia per quelli più speculativi tesi a individuare o a teorizzare possibili scenari, è opportuno utilizzare il termine immigrazione, ed il suo correlato emigrazione, per definire il movimento migratorio da una unità geopolitica ad un’altra, mentre con la voce migrazione è preferibile designare lo spostamento all’interno di uno stesso spazio geopolitico e geoeonomico.

Lo spazio geopolitico è, in via di principio, da considerarsi multinazionale e multietnico; l’impero (“il più grande corpo politico conosciuto dall’uomo” secondo Philippe Richardot (2) e la più alta sintesi geopolitica, aggiungiamo noi) ne costituisce una sorta di paradigma, cui è opportuno riferirsi per eventuali analisi geopolitiche, in particolare quando queste hanno come oggetto i rapporti tra gruppi umani differenti (per etnia, religione, cultura) e la loro condivisione di uno stesso spazio geografico. Certo, oggi non siamo più in presenza di imperi, nel senso classico del termine, tutt’al più siamo in presenza di un imperialismo egemone (gli USA), che ne costituisce, nel migliore dei casi, la scimmiottatura; tuttavia, proprio a causa della tendenza unipolare messa in atto da quest’ultimo, osserviamo che il pianeta si sta organizzando per reazione, principalmente tramite alleanze politiche, economiche e talvolta militari, in nuove, estese unità geopolitiche multinazionali (grandi spazi), nelle quali vivono e coabitano popolazioni differenti per costumi, etnia e cultura. Ciò avviene certamente nella parte centro orientale del Vecchio Continente, ad opera della Nazione-perno per eccellenza, la Russia; ma anche nell’America Latina pare affermarsi, per ora confusamente, un fenomeno analogo, centrato sull’asse Venezuela-Argentina–Bolivia.

I comuni interessi geopolitici obbligano le élites di questi nuovi emergenti spazi a ridefinire i rapporti identitari tra le differenti etnie che vi risiedono, ai fini soprattutto della sopravvivenza, funzionalità e coesione interna e inoltre, per contenere le dirompenti logiche concorrenziali, a riconsiderare i rapporti economici su basi tendenzialmente solidariste e comunitarie.

In merito alla questione identitaria, ricordiamo che è con l’affermarsi dell’ideologia dello Stato-nazione, espressasi politicamente con i movimenti nazionalisti e, storicamente, con l’edificazione dello Stato moderno come nuovo edificio giuridico e politico, che si è andata propagando, dapprima nell’area europea (malgrado le pur oggettive e contrastanti realtà), la convinzione della totale omogeneità etnico-culturale delle popolazioni che risiedono entro le frontiere statali. Lo Stato-nazione, come nuova unità geopolitica, a causa della prospettiva “particolaristica” di cui è espressione, attribuirà alla territorializzazione delle identità ed alla identitarizzazione dei territori (F. Thual) un significato speciale ed esclusivo, e concorrerà a rimodulare, in una ottica “moderna”, i concetti di “frontiera” e di “confine della patria”. Nel nuovo contesto “geopolitico” dello Stato-nazione, la percezione in merito alle migrazioni muta: ora coloro che migravano nello spazio, ad esempio, imperiale (mitteleuropeo) dell’Austria-Ungheria, diventano, nei nuovi Stati nazionali, degli “stranieri”, degli “immigrati” da “integrare” o da “espellere”. Parimenti, per fare un altro esempio, nella fase ultima dell’Impero ottomano, quando ormai la classe dirigente ottomana, egemonizzata dai “Giovani Turchi” (Enver Pascià, Taalat Pascià, Atatürk), è pressoché orientata verso la costruzione del futuro stato nazionale turco, accadono i fenomeni di intolleranza “nazionalistica”, che sfoceranno nella migrazione forzata degli Armeni e nella questione dei Curdi, un tempo comunità protette all’interno dell’ecumene imperiale.

Ritornando a quanto si diceva più sopra in relazione alla precisazione semantica, si parlerà dunque di migrazioni, e non di immigrazioni, quando ad esempio ci si riferisce agli spostamenti dei lavoratori meridionali dall’Europa mediterranea verso quella centrale e settentrionale, mentre si parlerà di immigrazione quando ci si riferisce alle migrazioni verso i Paesi dell’emisfero occidentale; egualmente dovrà parlarsi di migrazioni nello spazio mediterraneo (un grande spazio di oltre 450 milioni di abitanti) quando ci si riferirà ai flussi migratori nell’ambito dei paesi rivieraschi.

Il fenomeno migratorio alla luce dei grandi spazi geopolitici

Il chiarimento semantico proposto più sopra non è, evidentemente, fine a se stesso, ma costituisce, a nostro avviso, un punto di partenza per la corretta adozione di un nuovo approccio (geopolitico in questo caso) riguardante il fenomeno migratorio, che, avendo assunto, negli ultimi anni, dimensioni planetarie, necessita di una accurata riflessione interdisciplinare.

Siamo persuasi infatti che un fenomeno sociale di tale portata, come le attuali migrazioni ed immigrazioni, vada studiato anche in riferimento alla geopolitica. Se infatti proviamo a considerare la questione migratoria nel quadro di uno specifico e coeso spazio geopolitico, notiamo che grazie a tale approccio, per le considerazioni fin qui svolte, si aprono nuove prospettive per una gestione razionale del preoccupante fenomeno.

Come esempio, prendiamo in esame il caso delle “immigrazioni” dal nord Africa verso l’Europa. Oggi il Mediterraneo, in rapporto ai flussi migratori, è considerato da molti europei, come acutamente sottolineato da Danilo Zolo e Ferhat Horchani, “semplicemente una frontiera da pattugliare per sbarrare il passo ai migranti clandestini. Ma il Mediterraneo, con i quarantaseimila chilometri di costa e i 450 milioni di persone che abitano le sue sponde, può essere pensato - dovrebbe essere pensato - come un “grande spazio”, una risorsa strategica e un luogo di cooperazione privilegiato” (3).

Uno spazio geopolitico estremamente importante per l’Europa intera, in quanto ne costituisce il versante meridionale ed il collegamento naturale con gli altri due continenti del Vecchio Mondo.

È dunque nella prospettiva della rivalutazione geopolitica del Mediterraneo come “grande spazio” che anche lo specifico fenomeno migratorio dei nostri tempi dovrebbe essere riconsiderato e trovare, pertanto, la sua giusta collocazione. I decisori politici dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo dovrebbero avere a cuore i comuni interessi geopolitici dei Paesi che governano, i quali, volenti o nolenti, costituiscono uno spazio comune, piuttosto che quelli particolaristici. Le varie intese bilaterali volte a contenere il problema migratorio, nonostante la buona volontà che le anima, non riescono nei loro intenti proprio perché esprimono una ambiguità di fondo; una ambiguità che è costituita dal fatto che gli estensori europei non hanno una chiara coscienza geopolitica. Dopo una subordinazione, ormai sessantennale, agli interessi degli occidentali atlantici, le classi dirigenti europee percepiscono se stesse e dunque i Paesi che governano, come parte integrante dell’Occidente, senza alcun rispetto per la realtà oggettiva (geografica), la propria storia e la propria identità.

Le migrazioni come “territorializzazioni”

Il fenomeno migratorio assume in taluni casi, specialmente quando si manifesta come “territorializzazione” extra-etnica (o extra-culturale) di uno spazio inizialmente omogeneo etnicamente (o culturalmente), piena dignità di realtà geopolitica (4). È questo il caso, ad esempio, delle migrazioni che, dall’antichità sino al Medioevo, hanno dato luogo alla formazione delle odierne popolazioni europee (5) ed al loro radicamento territoriale.

Le migrazioni come “territorializzazioni” contrassegnano, in particolare, la geopolitica delle nazioni colonizzatrici e imperialiste, esprimendone in forma compiuta la natura e la dinamica espansionistica. Si pensi ad esempio, in epoca moderna e contemporanea, ai casi delle immigrazioni nelle Americhe, nell’Africa del Sud, in Australia, in Nuova Zelanda e in Israele-Palestina, con le connesse emigrazioni e marginalizzazioni dei gruppi indigeni espropriati (nativi americani nelle Americhe, Zulù e Bantù in Africa, aborigeni in Australia, Maori in Nuova Zelanda, e Palestinesi in Israele-Palestina). Tutte le situazioni citate, - al di là delle cause oggettive e delle motivazioni addotte, nonché delle sovrastrutture ideologiche e religiose impiegate che costituiscono i riferimenti teorici delle azioni espansionistiche e “depredatrici” dei territori altrui -, rappresentano veri e propri processi di territorializzazione attuati tramite politiche migratorie e, in alcuni casi, pratiche schiaviste (migrazione coatta) (6), segregazioniste ed etnocratiche.

Lo schema geopolitico adottato è generalmente caratterizzato dalle tre fasi principali: a) annessione territoriale (conquista), b) immigrazione; c) colonizzazione (territorializzazione e sacralizzazione dello spazio conquistato), cui se ne aggiunge generalmente una quarta, relativa alle politiche di “nazionalizzazione” e “stratificazione” delle minoranze (“nuovi arrivati” o “nativi”).

Un caso classico del ruolo delle migrazioni come territorializzazioni è offerto dalla storia dei coloni anglo-protestanti nell’ambito della formazione degli odierni Stati Uniti; una storia che, costellata da ampliamenti territoriali mediante immigrazione, sospingimento, espulsione e sterminio degli autoctoni, costituirà il paradigma su cui si baseranno in seguito le dottrine geopolitiche della democrazia nordamericana: dalla dottrina Monroe-Adams [1823] al principio del “destino manifesto” [1845] (7), dalla politica del big stick di Theodore Roosevelt [1801-180] a quella del containment di Truman, per arrivare, infine, alla odierna “esportazione della democrazia” dei neocons. Sempre riferendoci agli USA come caso esemplificativo, occorre, in tale contesto, citare anche l’elaborazione dei miti della “frontiera” e della “corsa all’Ovest” quali elementi geopolitici mobilitanti ai fini della costruzione dell’identità della “nazione americana”(8) e quali fattori di richiamo per le rilevanti successive ondate immigratorie. Infine, per quanto riguarda la fase di “nazionalizzazione” delle minoranze, è utile ricordare che tale processo, negli USA, lungi dall’essere ultimato, è continuamente in progress ed è oggi contraddistinto da due opposte concezioni: rispettivamente quella universalistica del melting pot e quella relativistica del salad bowl.

Strategie migratorie e insediamenti etnici

Chi, negli ultimi anni, ha delineato meglio di altri i caratteri del rapporto tra le strategie migratorie delle società colonizzatrici e la geopolitica, è certamente Oren Yiftachel, docente di geografia alla Università Ben Gurion di Negev. Il caso preso in esame da Oren Yiftachel è quello di Israele. Come noto, lo Stato di Israele ha la particolarità di essere un prodotto del sionismo, cioè di una idea; non costituisce, infatti, il risultato dell’evoluzione di una realtà geopolitica preesistente, radicata nel territorio del quale acquisirà la sovranità, come avvenuto in Europa per gli Stati-nazione, oppure come emancipazione di ex-colonie o dominions britannici, come nel caso degli Stati Uniti o dell’India moderna, o di particolari enclaves etniche o di comunità religiose, come nel caso pakistano, bensì trae la sua origine dalla elaborazione di temi sionisti, ove è centrale il ritorno alla biblica “Terra d’Israele”. A tal proposito lo storico israeliano Eli Barnavi, dell’Università di Tel Aviv, ha scritto nella sua ben documentata Storia d’Israele: “Lo stato di Israele è un prodotto del sionismo – raramente un fatto storico è stato legato così strettamente a un’idea, fino a confondersi con essa” (9). L’elaborazione del “ritorno” alla “Terra d’Israele” ha quindi contrassegnato la strategia migratoria del processo di colonizzazione dello Stato israeliano. Scrive Oren Yiftachel, in riferimento alla “frontiera” e al processo migrazione-colonizzazione: "Le società colonizzatrici, come la comunità ebraica in Israele-Palestina, portano avanti una deliberata strategia di migrazione e insediamento etnici che mira ad alterare la struttura etnica del paese. Le società colonizzatrici coloniali hanno tradizionalmente favorito la migrazione europea in altri continenti, e legittimato lo sfruttamento del suolo, della manodopera e delle riserve naturali locali. Altre società colonizzatrici, soprattutto non europee, creano migrazioni e insediamenti interni al fine di modificare l'equilibrio demografico di specifiche regioni. In ogni tipo di società colonizzatrice si sviluppa una «cultura della frontiera», che glorifica e incrementa la colonizzazione ed estende il controllo del gruppo dominante alle regioni vicine“ (10). Il geografo israeliano, inoltre, entrando nel merito della sovrastruttura ideologica che ispira la prassi geopolitica israeliana, sottolinea che “La «frontiera» divenne una icona centrale, e la sua colonizzazione fu considerata uno degli esiti più alti di ogni sionismo. I kibbutzim di frontiera (villaggi rurali comunitari) funsero da modello, e la rinascente lingua ebraica si riempì di immagini positive quali la aliyah lakaraka (letteralmente «ascesa alla terra», vale a dire colonizzazione), geulat karka (redenzione della terra), hityashvut, hitnakhalut (termini biblici positivi per colonizzazione ebraica), kibush hashmamah (conquista del deserto) e hagshamah (alla lettera «compimento», ma nell'accezione di colonizzazione della frontiera)”.

L’insediamento israeliano, e le guerre tra Israele e i Paesi arabi, hanno provocato una consistente diaspora palestinese, in cui oltre 4.300.000 individui hanno lo statuto di rifugiati e vivono nella Striscia di Gaza, nella Sponda occidentale (West Bank, Cisgiordania), Giordania, Libano e Siria (11). Analogamente al caso degli USA sopra citato, anche qui la frontiera assume il classico significato identitario (“La glorificazione della frontiera servì dunque tanto a costruire l'identità nazionale ebraica, quanto a confiscare lo spazio fisico su cui tale identità potesse costruirsi territorialmente”) (12), contribuendo ad alimentare le ben note tensioni tra Tel Aviv, la popolazione palestinese e alcuni degli stati del Vicino Oriente.

Note

1. Vedi, ad esempio, Luigi Di Conte, Eros Moretti, Geopolitica del Mediterraneo, Carocci, Roma, 1999,

2. Philippe Richardot, Les grandes empires. Histoire et géopolitique, Ellipses, Paris 2003, p.5.

3. Ferhat Horchani, Danilo Zolo, premessa a Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde, Jouvence, Roma 2005, p. 7.

4. “L’immigrazione è una realtà geopolitica che può essere definita come un fenomeno di territorializzazione extra-etnica entro un territorio inizialmente omogeneo dal punto di vista etnico” in Aymeric Chauprade, Introduction à l’analyse géopolitique, Ellipses, Paris, 1999, p.110.

5. Walter Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, Viella, Roma 2000; Giuseppe Albertoni, Europa in costruzione: la forza delle identità, la ricerca di unità (secoli IX-XIII). Fatti, documenti, interpretazioni. ITC-ISIG, Trento 2003.

6. Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Bari, 2003; Klaus J. Bade, L’Europa in movimento.: le migrazioni dal settecento ad oggi, Laterza, Bari, 2000.

7. Riguardo al “Destino manifesto”, si veda A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004; si legga, inoltre, l’interessante recensione a questo lavoro di Francesca Rigotti nel sito tsd.unifi.it.

8. Frederik J. Turner, The Frontier in American History (1920). Sul concetto di frontiera vedere Michel Foucher, Fronts et frontières. Un tour du monde géopolitique, Fayard, Paris, 1991.

9. Eli Barnavi, Storia d’Israele. Dalla nascita dello stato all’assassinio di Rabin, Bompiani, Milano, 2005, p.10.

10. Oren Yiftachel, in Parlare col nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto. Edizione italiana a cura di Maria Nadotti, Bollati Boringhieri, Milano, 2003, vedi anche progettonovecento.it)

11. Confronta i dati nel sito dell’ UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) www.un.org.

12. Oren Yiftachel, op.cit.; per il concetto di aliyah, vedi anche Frédéric Encel, François Thual, Géopolitique d'Israël: Dictionnaire pour sortir des fantasmes, Seuil, 2004, p. 21-26. Per quanto concerne la questione demografica in Israele, secondo i dati dell’Ufficio israeliano di statica, negli ultimi sei anni, “la popolazione ebraica in Israele è calata dell'1,8%, mentre il numero dei cittadini arabi israeliani è aumentato dell'1,1 %. La popolazione di Israele oggi, è di poco inferiore ai 7 milioni di persone, 5.313.000 ebrei e 1.377.000 arabi. Il problema demografico è da sempre una delle maggiori preoccupazioni per i governi israeliani che da anni, nel timore di perdere la maggioranza ebraica della popolazione, attuano una politica di immigrazione, facilitando la concessione della cittadinanza agli ebrei provenienti dalla Russia e dall'Etiopia soprattutto”. (Riportato, il 19 settembre 2006, nella pagina web: www.peacereporter.net).