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Le culture non esistono. Critica dell'autoevidenza negli studi interculturali

di Wim van Binsbergen* - 16/11/2006

Fonte: shikanda

 

1. Le "culture" nella società contemporanea

Fin dalla fine dal diciottesimo secolo dell'era cristiana, nelle accademie occidentali e, di riflesso, nell'intera società nord-atlantica, il concetto di "cultura" è diventato progressivamente così ovvio e autoevidente2 da assumere quasi una natura trascendentale; sotto questo aspetto, dunque, esso è giunto ad essere qualcosa di simile allo spazio, al tempo, alla causalità, alla sostanza –che, nella filosofia di Kant, sono le categorie basilari utilizzate dal pensiero umano non derivate dalla percezione sensoriale3. Nel momento in cui la società in genere fa propria una tale visione, si giunge a pretendere che il concetto di "cultura" comporti istanze di totalità, di unicità, di integrità [integration], di delimitazione e di non performatività. Secondo questa concezione, un essere umano in ogni istante della sua vita è caratterizzato non da una pluralità di "orientamenti culturali" che interagiscono e coesistono contemporaneamente, ma solo da una "cultura": in questa "cultura" egli vive la sua intera vita come se non avesse opzioni, come se le distinte caratteristiche, che lo individuano in quanto appartenente a quella cultura, nel manifestarle, non fossero condizionate da una certa "ostentatezza" e da un calcolo strategico degli effetti sul suo ambiente sociale –caratteristiche, cioè, non condizionate da performatività. La pretesa che una tale presunta cultura unitaria costituisca un intero integrato, deriva da due tipi di considerazione:

che si mostra evidente solo sul fondamento dei propri preconcetti e delle proprie auto-rappresentazioni.

- il presupposto comune secondo cui, nel momento in cui si parla di individui umani, tutto ciò che è definito come culturale rappresenta un attributo di una personalità individuale (nella sua presunta integrità e completezza).

- la "cultura" produce un mondo sensato, cioè produce l'illusione di una autoevidenza che esiste solo in virtù del fatto che nessuna condizione di limite e di confine circa tale autoevidenza si impone nella coscienza del portatore di quella cultura. Al fine di mantenere quella illusione di autoevidenza, di un universo autoevidente contenuto in una "cultura" e da essa implicato, la "cultura" stessa deve essere olistica (cioè, funzionale ad essere una totalità, un intero) e, conseguentemente, deve essere intollerante della diversità.

1 Si tratta di una selezione di alcuni passaggi di un testo più lungo pubblicato in VAN BINSBERGEN, W.M.J., 2002, ‘’Cultures do not exist’: Exploding self-evidences in the investigation of interculturality’’, Quest—Philosophical Discussions: An International African Journal of Philosophy, 1999: 37-144 e nel sito web: www.shikanda.net/african_religion/. L'articolo è basato sul discorso pronunciato da W. Van Binsbergen alla cerimonia d'inaugurazione della cattedra di Filosofia Interculturale alla Facoltà di Filosofia dell'Erasmus Universiteit di Rotterdam, Paesi Bassi. La traduzione è di Stefano Bellanda.

2 Il termine self-evident, comunemente tradotto con 'ovvio', compare in relazione anche al problema dell'identità e del (self). Abbiamo preferito, dunque, mantenere questo riferimento rendendo con 'autoevidenza', nel senso di qualcosa

3 Kant 1983c.

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In ultima analisi, siamo qui di fronte a una implicita pretesa di universalità da parte dell'individuo per la sua "cultura". Questo meccanismo era già stato riconosciuto da Kant, quando affermava che chiunque consideri qualcosa bello, dia per scontato che ciò sia bello per ognuno4.

Oltre a quanto detto, un concetto unitario di "cultura" implica il presupposto (e qui troviamo il legame con l'etnicità) secondo cui questa particolare "cultura" può essere adeguatamente denotata per mezzo di un etnonimico: "cultura olandese", "cultura cinese", "la cultura degli Nkoya zambesi, degli Yoruba nigeriani, degli Zulu sudafricani", e così via. Questo presupposto riproduce un'immagine classica che gli antropologi hanno apertamente scardinato ma che ancora circola ampiamente negli ambienti esterni all'antropologia: l'immagine di un'Africa come un fastoso mosaico abborracciato di "culture" fondamentalmente differenti, ognuna delle quali costituisce una totalità confinata e integrata. Il fatto è che tale concezione di "cultura" non si limita ad essere semplicemente una categoria descrittiva della situazione umana: nella cultura pubblica contemporanea l'uso del concetto di "cultura" viene sempre più associato a giudizi etici e politici che giudicano se una persona mostra avere rispetto nei confronti della "cultura" di un altro.

Che cosa significa se qualcuno insiste sul fatto che gli altri dovrebbero mostrare rispetto per la sua "cultura"? Significa, più o meno, quanto segue. Consideriamo una concreta situazione di interazione, nella quale un particolare individuo cerca di dar voce alle sue rivendicazioni per contrastare una scarsità di risorse (come, ad esempio, il prestigio, il diritto di voto, un permesso di soggiorno, l'accesso al mercato degli alloggi, l'istruzione, l'occupazione, tutte quelle libertà indicizzate nei vari cataloghi dei diritti umani). In una tale situazione quell'individuo si appellerà, senza dubbio, ad un'idea precisa già accolta dall'opinione pubblica, e ricorrente nelle pratiche e nelle regole della burocrazia e della

4 Kant 1983b; Cfr. anche Kimmerle & Oosterling 2000; il mio contributo in questo libro esamina l'estetica kantiana alla luce di un esempio empirico relativo all'Africa.

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politica. Questa è l'idea secondo cui una persona, non per sua propria libera scelta ma per un fattore che determina la sua più interiore essenza e totalità, rappresenta non solo un universale essere umano, ma anche una modalità specifica di "essere umano" (denotato dall'elemento culturale, o etnico), una modalità che egli condivide solo con un piccolo (per lo più piccolo) sottoinsieme dell'umanità, sul fondamento di una storia che ha in comune con gli altri membri di quel sottoinsieme, una modalità espressa in pratiche specifiche di quel sottoinsieme, acquisite attraverso processi di apprendimento (ad esempio, il parlare una lingua comune).

In questa insistenza sul rispetto, numerosi elementi eterogenei vengono a raggrupparsi nel modo più sorprendente: il concetto di totalità, l'essenzialismo, il pluralismo, la definizione e la strutturazione dello spazio pubblico come multiculturale, le strategie politiche e la performatività. La rivendicazione del rispetto esprime una concezione per la quale la "cultura" rappresenta un totale coinvolgimento dell'individuo e ne viene a costituire l'essenza. La "cultura" diventa l'identità primaria; e, come altre forme di identità, legittima se stessa per mezzo della costruzione di un soggetto che pretende, per dirla con Lutero: "qui mi trovo e non ho scelta." In vista del suo interesse, l'individuo in questione può esortare gli altri a rispettare la sua "cultura" solo se egli stesso prende una distanza dalla sua esistenza culturale, oggettivandola e rendendola un argomento di conversazione. Una tale distanziazione ci rende consapevoli, da una parte, dell'alterità culturale ed etnica dell'altro, e dall'altra, della natura contingente e accidentale della propria identità culturale ed etnica, un po' come se fosse possibile passare a piacimento da un'identità all'altra5.

Ciò conferisce un doppio livello di performatività alla rivendicazione di rispetto: sulla base di quella consapevole distanziazione dal proprio Sé, tale rivendicazione diventa esplicitamente performativa all'interno dello spazio pubblico6, in quanto il Sé ha voluto l'effetto che la rivendicazione

5 Cfr. Mall 1995, p. 92.

6 Propriamente lo spazio delle "politiche del riconoscimento"; cfr. Taylor 1992.

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produce sulle altre persone, in quanto il Sé ha reso effettivo quell'effetto, lo ha percepito, lo ha valutato. Nel mondo contemporaneo la persuasiva istanza pubblica dell'autenticità e dell'integrità (istanza, in se stessa, performativa dunque inerentemente "autolesionistica", [frustrante nei confronti del Sé, self-defeating]) è indispensabile al fine di condurre al successo le rivendicazioni di identità strategica – al fine, cioè, di raggiungere il riconoscimento.

La rivendicazione del rispetto visualizza una tipica contraddizione della società nord-atlantica postmoderna: se è introdotta, in modo strategico e performativo, nell'arena pubblica, allora non le è più concesso di essere discussa esplicitamente in termini di strategia e performatività; al contrario, l'opinione pubblica, le pressioni che fanno capo al politically correct (cioè, l'etichetta sociale), e perfino le leggi che regolano la società a livello formale (la legislazione contro la discriminazione) conducono a una situazione in cui le espressioni formulate nell'arena pubblica fanno esplicitamente riferimento a termini di "autenticità". Il concetto di "cultura" (declinato nella forma plurale, "culture") incarna questa contraddizione. Non è un segno di malafede. Al contrario, questa contraddizione è una tra le inevitabili condizioni che impone la contemporaneità. Costituendo se stessa attraverso il riferimento alla "cultura", l'autoidentità è sempre e inevitabilmente collocata in un campo magnetico tra autoevidenza e performatività. Perciò il concetto di "cultura" offre alla contemporaneità una soluzione per il perenne problema della società: come mediare la tensione tra individuo e comunità? Questo rende la "cultura" uno dei principali concetti che forniscono autorità e legittimità [empowering concept] agli attori politici dei nostri tempi, all'interno dell'arena pubblica a livello locale, nazionale e globale.

Ciò che rende estremamente desiderabile un tale concetto di "cultura" è sostanzialmente la sua capacità di comprendere e camuffare contraddizioni.

I lettori esperti di scienze sociali, in questi tempi caratterizzati dal post-marxismo, potrebbero farmi notare che io mi sto riferendo a una concezione formale e profondamente astratta della società, e che tratto di

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qualsiasi istituzione, o relazione, o situazione, o evento sociale, non come una struttura o un flusso di persone e di oggetti concreti, ma come un affastellamento di contraddizioni. Un lettore di formazione filosofica, tuttavia, dovrebbe avvertire un campanello d'allarme di fronte a una tale lettura di tipo sociologico. La contraddizione come modello di pensiero, infatti, è appannaggio delle dialettiche e possiede uno splendido pedegree nella corrente principale della filosofia. I filosofi (con l'eccezione dei post-strutturalisti e dei marxisti) sono ancora inclini a considerare l'articolazione delle contraddizioni non come essenzialmente fine a se stessa (come invece sarebbe per un antropologo che descrive la struttura formalmente astratta di un rito in termini di contraddizioni tra generazioni, generi, modi di produzione, concezioni del potere, legittimità, ecc…), ma come un punto d'appoggio per procedere nel corso della "trebbiatura razionale" di queste contraddizioni: una trebbiatura condotta se non nella forma di una sintesi di tipo hegeliano, almeno con l'eleganza della prosa accademica.

Che cosa ha a che fare il concetto di "cultura" con le contraddizioni sociali? Esso offre la possibilità di definire un'identità principale all'interno della quale le molte identità di una persona, come interprete di molti ruoli sociali, possono essere ri-organizzate in una struttura gerarchizzata; una struttura che relega la maggior parte di queste identità a uno stato di secondarietà, inessenzialità, invisibilità, ma che, nello stesso tempo, riafferma (in modo che, a mio giudizio, è artificiale ed estremamente performativo) l'identità culturale come l'essenza più profonda di una persona. Questa identità definirebbe non solo un aspetto parziale della vita di un individuo, non solo uno degli specifici ruoli, ma l'intero mondo della vita, le cui parti si assemblano in una totalità di senso e hanno organicamente il loro posto all'interno dell'insieme: il risultato è una situazione in cui il soggetto può rapportarsi al mondo come se quello stesso soggetto fosse un intero monolitico, e così può trovare senso e ordine in quel mondo. La consapevolezza di questa identità primaria e olistica non è innata ma viene esplicitamente a strutturarsi nella comunicazione sociale (in altre parole, è appresa). La comunicazione sociale si incentra per lo più su ciò che più si custodisce di un'esperienza

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storica collettiva e su selezionate caratteristiche di distinzione culturale; spesso, dunque, anche la mobilitazione etnica e culturale di un élite è parte del processo attraverso cui si costruisce un'identità culturale di questo tipo.

Inoltre, gli attori sociali coinvolti giungono a rappresentarsi tale costruzione non come una creazione umana deliberata di qualcosa che prima non c'era, ma come una mera presa di consapevolezza di qualcosa che ipoteticamente sarebbe da sempre l'intima e profonda essenza di un individuo. Tale costruzione è in linea con le rappresentazioni collettive che dominano nella modernità: il soggetto (unificato, individuale, non divisibile) e la sua identità. La "cultura", come termine universalmente accettato nella società nord-atlantica, è un meccanismo di pensiero che serve a metabolizzare in termini soggettivi la frammentazione, la disintegrazione e la performatività della esperienza moderna in qualcosa di unitario, coerente e autentico. Dunque, in qualche modo, viene salvata l'illusione dell'autoevidenza e dell'integrità anche nell'epoca postmoderna, nella quale ognuno riconosce che nulla più è autoevidente e nulla possiede la caratteristica dell'integrità.

Insistendo su un'alterità essenziale e autentica, e operando una dissimulazione della performatività, questo concetto di "cultura" ci incastra in un enorme problema sociale: da' per scontato, quasi rallegrandosene, che sussista una presunta differenza assoluta, che si ipotizza esistere tra una pluralità di posizioni, fino a congelare lo spazio pubblico in un labirinto insidioso di contraddizioni, dove l'opposizione tra inconciliabili può condurre a una sorta di duello all'ultimo sangue. Nella società contemporanea, la vivibilità sta peggiorando di giorno in giorno: per un certo verso, ciò è attribuibile alla tendenza a costruire nuove fortezze culturali sempre meno espugnabili. Solo qualche decina d'anni fa, il relativismo culturale era semplicemente un'espressione della critica al colonialismo e all'imperialismo occidentali, contro l'egemonia dell'Europa e contro l'eurocentrismo7. Ora invece il relativismo rischia di

7 Per una formulazione classica del relativismo, cfr. Herskovits 1973; Nowell-Smith 1971; Rudolph 1968; Tennekes 1971. Sotto molti aspetti, la problematica

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diventare un incubo: una licenza per ridurre la società contemporanea a un'irrimediabile situazione di stallo di posizioni tra le quali, sul piano teoretico, non è più possibile alcuna comunicazione, in cui non è possibile identificazione o riconciliazione e non è possibile comunità. In questo scenario, la violenza rimane l'unica via d'uscita. Come ha giustamente osservato il filosofo cinese Vincent Shen8, questo continuo insistere sulla inconciliabilità delle differenze (nonostante posizioni filosofiche di tutto rispetto, già a partire da Nietzsche) non è certo la strategia migliore per garantire la sopravvivenza del mondo moderno: affinché per noi sia possibile affrontare il futuro, abbiamo bisogno di dialogo, di scambio e di compromesso tra le posizioni che sono state occupate nel nome della "cultura". La filosofia interculturale non è altro che una ricerca sulle possibilità che sussistono intorno a questo problema. La filosofia interculturale, perciò, possiede una funzione profetica, non nel senso derivato della predizione del futuro, ma nel senso biblico originario: senza essere interpellato, il profeta annuncia alla società contemporanea le malattie, le difficoltà e le alternative che la riguardano, ma, contemporaneamente, invoca la necessità di un valore trascendente.

del relativismo culturale è un'immagine speculare della problematica dell'intercultura; la questione, però, è troppo ampia per fornire una parola definitiva a riguardo in un contesto così limitato. Una interessante ricerca è stata svolta da Procée 1991. Attorno a Gellner si è formato un importante gruppo di studiosi critici nei confronti del relativismo culturale (cfr. Aya 1996, Boudon 1996, Gellner 1996. Si legga, inoltre lo scambio di opinioni tra Geertz e Gellner in Geertz 1995; Gellner 1995 e Geertz 1984).

2. Retrospettiva storica del concetto di "cultura" in antropologia culturale e in filosofia.

2.1. La cultura nell'antropologia culturale

8 Shen, in preparazione.

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Qual è l'origine di questo concetto di "cultura"? Il concetto di "cultura" ha una storia variegata ma, nel suo significato più comune, esso è la vulgata [popularization] di un concetto proveniente dall'antropologia culturale, nella forma che coniò Tylor, non prima del 1871, nel suo Primitive Culture9. Tylor definisce la "cultura" come:

"quella totalità complessa [complex whole] che include conoscenza, credenze, arte, aspetti morali, leggi, comportamenti e tutti gli altri usi e costumi acquisiti da un uomo in quanto membro di una società."

Un secolo prima, Herder10 circoscriveva la "cultura" solo alle più elevate forme di produzione acquisite dall'uomo, che avevano rilevanza pubblica (religione, arte, scienza, ordinamenti politici). Il merito di Herder, tuttavia, fu quello di aver attribuito anche alle popolazioni al di fuori dell'Europa un certo livello di "cultura", mostrandosi, sotto questo aspetto, sorprendentemente anti-etnocentrico.11 L'importante passo in avanti di Tylor fu quello di andare oltre il limite della "alta cultura" e di includere, nella sua definizione, tutto ciò che non viene dato all'uomo dalla natura ma che gli pertiene in quanto membro di un gruppo umano.

Ma quella di Tylor non fu l'ultima parola sulla questione. Dal 1900 in poi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, l'osservazione partecipata su

9 Tylor 1871.

10 Herder, s. d.

11 Questo certo non lo scagiona dall'accusa di razzismo, accusa che in dibattiti recenti è stata sollevata non solo nei confronti di Herder ma anche di Kant (in riferimento alle sue opere antropologiche non critiche) e di altri autori dell'Illuminismo; cfr. Eze 1996, 1997; Bernal 1987; Rose 1990; Kant 1983d. Tuttavia, queste considerazioni vanno di pari passo con la strenua difesa dei filosofi illuministi in quanto capisaldi dell'universalismo e della tolleranza (Palter 1996; Norton 1996: Jenkyns 1996). La verità è che questi scrittori furono figli di un epoca spiccatamente razzista, e di ciò non hanno colpa. Eppure, nonostante ciò, essi furono spesso in grado di pensare al di là di questi limiti (mi riferisco alla maggior parte degli scritti di Herder e alle opere critiche di Kant ).

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lunga durata, portata avanti avendo ottimo controllo della lingua locale, emerge come il principale strumento di analisi empirica nell'antropologia culturale. Ciò significa che, per la prima volta, uno studioso aveva a disposizione dati contemporanei, abbondanti e convincenti, su cui basare un'analisi a partire da distinzioni e significati validi all'interno della visione della popolazione che veniva studiata - un'analisi emica nel senso della coppia concettuale emico-etico, introdotta da Pike negli anni cinquanta.

La coppia concettuale di emico ed etico esprime la distinzione tra una strutturazione interna di un orientamento culturale per come questo emerge in modo consapevole nei portatori di tale orientamento e, dall'altra parte, una strutturazione imposta da fuori. L'etico non ha nulla a che vedere con l'etica, nel senso di una filosofia del giudizio delle azioni umane nei termini di bene e male. La terminologia di Pike è basata su un'analogia linguistica. In linguistica ci si può approcciare alla descrizione dei suoni linguistici [speech sounds] a partire da due prospettive complementari: quella della fonetica (da qui –etico), che fornisce una descrizione puramente esterna, basata su parametri anatomici e fisici, e che si concentra sulle vibrazioni d'aria che determinano questi suoni linguistici; e la prospettiva della fonologia, la cui unità base di studio è il fonema (perciò fonemico, da qui –emico), e cioè l'unità minima di suono linguistico effettivamente distinta dai parlanti di un particolare linguaggio, i quali si basano sulle caratteristiche distintive di quel suono linguistico. Le caratteristiche fonetiche di un effettivo suono linguistico sono soggette a un'infinita variazione che può essere registrata da un qualsiasi osservatore o da un qualsiasi apparato acustico, senza tener conto della competenza circa il particolare linguaggio in questione. Al contrario, ogni linguaggio parlato possiede una gamma di fonemi molto limitata (normalmente qualche decina). I parlanti classificano l'infinita varietà di suoni linguistici prodotti effettivamente in relazione agli elementi appartenenti a questa gamma di fonemi riconoscibili; ciò

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permette di determinare quali parole o frasi, consistenti di parecchi fonemi, vengono utilizzate in una particolare situazione12.

In questo modo Pike ha fornito un modello di riferimento per i due livelli dell'istanza analitica dell'antropologia classica (caratterizzata dall'essere sia etica che emica), istanza emersa a partire dagli anni '20 del XX sec. grazie a precursori del calibro di Malinowski, Evans-Pritchard, Fortes, Griaule e Leiris. Prima di questa evoluzione, l'antropologia è stata dominata da analisi svolte attraverso l'imposizione di schemi analitici (approccio etico), come l'evoluzionismo, il diffusionismo, il materialismo, le teorie che si riferivano a fasi determinate e universali dello sviluppo estetico, ecc… La nascita del metodo del lavoro sul campo fondato su una prospettiva emica ha determinato una radicale contrazione dell'orizzonte empirico di una particolare ricerca. L'analisi emica richiedeva l'apprendimento di un nuovo linguaggio e una permanenza di anni sul luogo. Un tale investimento di risorse, e l'analisi che ne conseguiva, poteva realizzarsi solo all'interno di un orizzonte spaziale e temporale molto angusto: l'orizzonte che l'operatore sul campo poteva coprire con la sua propria azione individuale –un'area di al massimo poche migliaia di chilometri quadrati, ma normalmente assai più piccola, lungo un periodo di tempo limitato al lavoro sul campo, tanto che la trascrizione dei dati veniva congelata all'interno dello stereotipo del "presente etnografico". Per l'antropologia culturale erano finiti i giorni della ricerca di connessioni su vasta scala nello spazio e nel tempo. La monografia etnografica diventò il formato standard per la produzione di conoscenza in antropologia, tanto che si tendeva a identificare l'etnografo e il suo libro con il nome del gruppo studiato, con un etnonimico. Si consolidò l'idea che ogni monografia di questo tipo equivalesse alla descrizione di "una cultura". In questo senso avrebbero dovuto esserci tante "culture" quante erano le monografie etnografiche, e ogni "cultura" avrebbe dovuto essere concepita sul modello descritto nel libro:

12 Headland, Pike & Harris 1990, cfr. Harris 1969, il capitolo 20, pp. 568-604, questo libro di Harris è stato profondamente criticato da Burling 1969 e Müller 1983.

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delimitata, integra al suo interno, compatta e unica – una totalità [a whole] che bene viene descritta dal termine "olistico". Il compito dell'antropologo diventava quello di penetrare all'interno di "un'altra cultura"13 come se questa fosse una fortezza quasi inespugnabile (come se fosse, cioè, una forma di esistenza umana totalizzante, delimitata, integra e non performativa). Fino a tempi non troppo lontani, questa visione ha rappresentato il pathos e la retorica del lavoro sul campo e dell'etnografia. Da quel momento in poi, non solo la nostra visione dei continenti fuori dell'Europa, ma anche l'individuale carriera di un antropologo, dovevano pensarsi in base allo standard della monografia etnografica. Il relativismo culturale divenne il termine operativo per il rispetto dovuto dagli antropologi, e dal mondo intero, nei confronti del "trionfo delle alterità distinte", che emergeva in relazione al lavoro sul campo.

Non c'è dubbio che un tale fenomeno aveva a che fare con il modo in cui, nella società nord-atlantica, i singoli antropologi si collocavano all'interno del mercato accademico della conoscenza interculturale: come monopolisti che spacciavano la loro conoscenza di nicchia sulla cultura reificata dove avevano svolto un individuale lavoro sul campo.

Il relativismo culturale fu istigato dalla prassi del lavoro sul campo anche in un altro modo. Da un lato questo lavoro, essendo un'attività emica, pretende il massimo livello di intersoggettività tra il ricercatore [fieldworker] e la popolazione ospite; ma dall'altro lato esso rimane un'esperienza unica e isolata che si pone sostanzialmente al di fuori di ogni valutazione critica esterna e quindi contribuisce scarsamente a formare tra i colleghi un'intersoggettività fondata su astratti modelli di riferimento circa la cultura che è oggetto di ricerca: tali astrazioni sono compiute analiticamente dal di fuori e sono quindi di tipo etico. Il dogma del relativismo culturale ha offerto una rete di salvataggio di fronte a questo dilemma metodologico: sotto l'egida del relativismo culturale diventava ideologicamente impossibile esprimere dubbi, nella cerchia degli antropologi di professione, circa le specifiche asserzioni di un

13 Cfr. Beattie 1964.

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etnografo; i ricercatori, infatti, non disponevano di una prolungata esperienza personale nel contesto etnografico locale studiato, e dunque un dubbio di questa natura poteva fondarsi solo su una estrapolazione etica di connessioni che erano state interpolate in un'altra "cultura" dagli etnografi che avevano condotto analisi specifiche di tipo emico in questa "cultura"… Da qui in avanti, l'attitudine professionale degli antropologi sarebbe diventata quella di "scansarsi" (avoidance)14 il più possibile all'interno dell'Università, evitando qualsiasi occasione di comunicazione intradisciplinare tra colleghi, e ciò si combinava bene con il mito di una comunicazione sul campo talmente illimitata da fornire la presunzione di un sapere assolutamente valido sulla cultura locale studiata in quel campo. Ulteriori ricerche antropologiche, svolte sulla medesima comunità da differenti operatori, hanno dimostrato15 come questo dilemma metodologico è di fatto insolubile, uno "stato delle cose" che pone severi dubbi sulla pretesa dell'antropologia di proporsi al pari di una disciplina scientifica.

In Olanda all'inizio degli anni '60, chiunque intraprendesse gli studi universitari di antropologia culturale doveva ancora imparare la definizione o le definizioni di cultura come dei termini puramente tecnici, lontani dall'ovvio significato comune16 che lo studente aveva appreso alla scuola secondaria. Ma nel corso degli ultimi quarant'anni, il concetto di cultura si è diffuso in modo così globale (nelle varie lingue indo-europee

14 Uso deliberatamente il termine "avoidance" che, in antropologia designa tecnicamente un comportamento molto specifico, che si esprime nell'"evitare l'incontro", tipico di individui che appartengono a categorie sociali tra le quali sussiste una forte tensione strutturale, come ad es. tra genero e suocera.

15 Van Beek 1991; Kloos 1987; Lewis 1951; Harris 1969.

16 Quanto sia stato veloce il processo di appropriazione sociale del concetto di "cultura" negli ultimi decenni è reso evidente confrontandosi, per esempio, con la definizione proposta dal Shorter Oxford Dictionary del 1978, in cui "cultura" ricorre solo nel senso di venerazione religiosa (attestato per la prima volta in inglese nel 1483), di agricoltura (1626) e di attività di civilizzazione (1510, 1805); cfr. Little c. s. 1978 s. v. "culture".

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occidentali, ma anche al di fuori di queste) da diventare uno dei termini, tra i più frequenti e scontati, utilizzati per indicare il mondo contemporaneo, la sua varietà e, in particolar modo, i suoi conflitti. Il concetto di cultura è stato trasformato da termine tecnico accademico a un concetto autoevidente, un luogo comune [common societal] che, oggigiorno, è sulla bocca praticamente di ogni attore sociale, indipendentemente dalla sua classe o livello di istruzione. Nella società nord-atlantica degli ultimi venticinque anni, questa trasformazione è intimamente collegata alla crescita della popolazione migrante che si faceva notare sia per origine geografica che per tratti somatici. Un altro fattore importante di questa trasformazione è stata la globalizzazione culturale dei nostri giorni, risultato delle nuove tecniche di comunicazione e informazione, tecniche che, tra l'altro, hanno reso possibili spostamenti frequenti e su grandi distanze. Mai come oggi è evidente che nessuna situazione culturale è omogenea, che nessuna cultura sussiste nell'isolamento, e che una presunta specificità culturale può verificarsi solo in virtù del mantenimento del confine locale e parrocchiale rispetto a uno scenario globale in cui, sotto gli occhi di tutti, in loco, si moltiplica la disponibilità delle alternative culturali.

2.2. La cultura in filosofia

Anche i filosofi oggi usano frequentemente il concetto di "cultura"; è perfino uno degli elementi lessicali che costituiscono l'espressione "filosofia interculturale" (l'insegnamento che io tengo a Rotterdam si occupa proprio dei fondamenti di tale espressione). E' interessante notare la diffusa tendenza dei filosofi (che normalmente sono molto critici nell'uso che fanno dei concetti) a dare per scontati e autoevidenti concetti come "cultura", "specificità culturale" e "intercultura" –come se la

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condizione umana non potesse essere pensata altrimenti che in termini di una pluralità (di un "multiverso") di culture.17

Quella che segue è una definizione possibile, forse perfino ovvia, di "filosofia interculturale", la quale rimane così vicina all'uso del linguaggio ordinario da far completamente proprio l'intero bagaglio semantico del termine "cultura", come concetto pre-scientifico della società, usato da un qualsiasi attore sociale [general actors] nel mondo moderno:

prendendo come punto di partenza l'esistenza di una pluralità di culture reciprocamente distinte che convivono l'una accanto all'altra, la filosofia interculturale ricerca le condizioni sotto le quali può sussistere uno scambio tra due o più differenti "culture", in particolar modo uno scambio tra alcuni aspetti come la produzione di conoscenza da parte di una cultura circa un'altra, la tolleranza o l'intolleranza, il conflitto o la cooperazione in campo economico, sociale e politico18

In termini più specifici rispetto alla definizione appena fornita, potremmo concepire la filosofia interculturale come la ricerca di una posizione filosofica intermedia nella quale questa branca del pensiero filosofico tenta di sottrarsi alle determinazioni che si presume derivino da una specifica "cultura" distinta. Quella che segue è stata la via maestra lungo la quale i filosofi hanno cercato di realizzare questa fuga: si rendono esplicite le peculiari tradizioni di pensiero di alcune culture e, conseguentemente, si esplorano le possibilità di una contaminazione reciproca tra queste stesse tradizioni di pensiero. In ciò l'importante non è che la filosofia chiami in causa pratiche interculturali nelle quali sono coinvolti studiosi esterni alla filosofia, quanto piuttosto la pratica

17 Alcuni esempi, tra innumerevoli, sono: Appiah 1992; Copleston 1980; Gyegye 1997; Kimmerle 1994a; Mall 1995; Sogolo 1998; l'ultimo articolo è un estratto da Sologo 1993.

18 Mall 1995, p. 1; cfr. Mall 1993.

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filosofica in sé. Il punto focale che viene problematizzato non è il fatto (o l'illusione; si veda la parte finale di questo ragionamento) di una comunicazione attraverso i confini culturali, ma quello di una comparazione dei contenuti concettuali tra le due sponde –come se la comunicazione interculturale in se stessa fosse un dato scontato. Sul caposaldo della filosofia "non-occidentale" o "comparativa", si è spesso dato avvio a filosofie interculturali di questo tipo, a mio giudizio, però, in modo prematuro, in quanto il nucleo concettuale di "intercultura" (cioè il fatto, le condizioni e gli effetti della comunicazione attraverso i confini culturali) non è stato sufficientemente analizzato circa il suo statuto. E' come se si concentrassero tutti gli sforzi nel tentativo di determinare la striatura risultante dall'incrocio di una zebra con una giraffa, senza chiedersi in primo luogo se un tale incrocio possa mai produrre qualche discendente.

Dunque anche in questo specifico approccio all'intercultura tipico della "filosofia comparativa", i filosofi sogliono ricavare i loro indizi a partire da un concetto di "cultura" olistico per natura, assumendo un'identità culturale dell'esistenza opposta a qualsiasi forma di performatività; questa idea coincide con il concetto di "cultura" accettato dalla società, il quale, a causa delle sue contraddizioni strutturali, è direttamente collegato alle relazioni di potere sociale e alle mistificazioni ideologiche. In questo modo il filosofo rischia di diventare il portavoce asservito alla sua società, proprio nel momento in cui cerca di pensare altrimenti rispetto a una definita struttura sociale, applicando una prospettiva comparativa. Una reale analisi filosofica, al contrario, consisterebbe nel tentativo di evidenziare come i termini in uso siano diventati autoevidenti e scontati, al fine di rimpiazzare questi ultimi –grazie a buone ed esplicite argomentazioni- con altri termini disposti a offrire visioni innovative, in quanto separati dalla trama societaria del potere e della ideologia; termini come i neologismi, per esempio, che in primo luogo non hanno quel tipo di radicamento sociale.

Nello stesso momento, però, è ben comprensibile perché proprio i filosofi dell'intercultura hanno preso in prestito il concetto di "cultura" dall'antropologia culturale. Ora cercheremo di comprenderne le ragioni.

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2.3 La critica dei filosofi all'etnocentrismo filosofico e all'eurocentrismo.

In primo luogo il concetto di "cultura", e il relativismo culturale che esso implica, offrivano ai filosofi la possibilità di prendere una distanza critica rispetto all'eurocentrismo19 e all'etnocentrismo che caratterizzava la corrente principale della filosofia occidentale da Hegel fino a Rorty e i filosofi post-strutturalisti francesi. L'etnocentrismo di Hegel e il suo disprezzo per l'Africa è già stato documentato in modo esauriente.20 L'etnocentrismo di Rorty è evidente, cosciente, l'autore non cerca di nasconderlo21. Secondo Rattansi22, i post-strutturalisti francesi, come Lyotard, Derrida, Foucault, sono a un passo da una nuova forma di etnocentrismo. Non di meno, però, lo stesso Rattansi risulta ampiamente ispirato dal loro lavoro rispetto alla sua teoria del razzismo post-coloniale, del femminismo e dell'egemonia nord-atlantica. Foucault ha viaggiato in lungo e in largo, ha partecipato ad appuntamenti intercontinentali (o comunque veniva spesso preso in considerazione per questi), ma, nonostante ciò, nella sua analisi filosofica e storica (con l'eccezione della sua nota sulla rivoluzione iraniana del 1978) si è limitato quasi solo all'area nord-atlantica; ciò, comunque, non gli ha impedito di essere un

19 A partire dal XIX secolo (dell'era nord-atlantica, l'autoevidenza della cosiddetta Era Volgare [Common Era] è una pretesa egemonica che deve essere decostruita) l'eurocentrismo ha assunto una variante nord-atlantica che comprende non solo l'Europa occidentale ma anche il Nord America.

20 Hegel 1992; circa alcune prese di distanza critica dal punto di vista della filosofia interculturale contemporanea vedi Kimmerle 1993, e anche Eze 1996, 1997.

21 Passaggi particolarmente rilevanti in Rorty 1997.

22 Rattansi 1994.

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profondo ispiratore di pensatori appartenenti ad orizzonti identitari esterni a quest'area, come è evidente nel breve saggio di Mudimbe, The invention of Africa, del 1988 –libro senza dubbio foucaultiano, anche se fa esclusivo riferimento al primo Foucault, senza prendere in considerazione lo sviluppo dei lavori successivi agli anni '60.23 Ai filosofi francesi menzionati da Rattansi, dobbiamo aggiungere Deleuze e Guattari. Nella loro opera, si fa spesso riferimento all'Altro esotico, con il suo fascino tutto stereotipato, semplicemente per creare maggior contrasto con la determinazione dell'orientamento culturale post-moderno della società nord-atlantica, in cui essi stessi vivono. Nello stesso tempo, però, la questione intellettuale della "diversità culturale", la cui portata è indubbiamente mondiale, appare in una forma generalmente domestica e addomesticata, il cui unico riferimento era il modo in cui la Francia era diventata una società multiculturale, nel corso degli ultimi decenni. Eppure anche a Deleuze e a Guattari dobbiamo riconoscere ciò che Rattansi ha riconosciuto ai filosofi post-strutturalisti francesi che egli ha preso in considerazione: le loro opere contengono in nuce il punto di partenza per una teorizzazione non etnocentrica del processo di globalizzazione, e di quelli di trasformazione dell'identità e del senso.24

Ma questi sono solo segnali di un mutamento di rotta. Fino a poco tempo fa il filosofo occidentale dava implicitamente per scontato che ci fosse un solo contesto sociale e culturale autoevidente (quello nord-atlantico) e un solo linguaggio autoevidente (il suo). Specialmente nel XX secolo si è manifestato un vastissimo dispiegamento di forze nel tentativo di dare una veste filosoficamente articolata al linguaggio e all'identità socio-culturale. Ancora oggi, però, la ricerca filosofica nell'ambito dell'interazione tra due, o più, contesti socio-culturali, due, o più, linguaggi, sta solo muovendo i primi passi. Non solo l'intercultura ma

23 Mudimbe 1988, 1992a; cfr. il mio studio dettagliato su Mudimbe in van Binsbergen 2001.

24 Deleuze & Guattari 1972, 1991; Guattari 1992; Oosterling & Thisse 1998; van Binsbergen 1999.

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anche la questione dell'interlinguismo sono settori relativamente sottosviluppati all'interno della corrente principale della filosofia occidentale. Il XX secolo è stato testimone di una copiosa proliferazione di approcci alla filosofia del linguaggio.25 Tuttavia, anche all'interno di questo ambito ci si è limitati al proprio linguaggio: e ciò è un'espressione di quell'etnocentrismo filosofico che considera la società nord-atlantica, la "cultura" e l'esperienza storica di questa, come se fossero fenomeni autoevidenti, come se fossero la norma universale. Sono stati relativamente sporadici gli approcci filosofici all'interlinguismo (in relazione, ad esempio, al problema della traduzione di un linguaggio in un altro, o a quello della rappresentazione etnografica dei concetti e delle rappresentazioni inseriti in differenti orizzonti culturali)26; ma la cosa più grave è che non viene riconosciuto il ruolo primario che spetterebbe a questi approcci all'interno della corrente principale della filosofia27. Nella nostra era segnata dalla globalizzazione, i problemi della comunicazione attraverso i confini linguistici e culturali hanno raggiunto una rilevanza vitale dal punto di vista politico, economico, sociale e artistico. Tutta una serie di questioni fondamentali (penso alla sopravvivenza degli uomini nel loro ambiente, al tentativo di allontanare lo spettro di una Terza, e probabilmente Ultima, Guerra Mondiale nella forma di uno scontro tra razze, al problema dell'etnicità, alla definizione di concetti fondamentali come libertà, verità, legittimità, personalità, alla questione del sovrannaturale, al predominio economico, all'ineguaglianza tra Nord e

25 Per una retrospettiva autorevole si veda Hale & Wright 1999.

26 Cf. Hookway 1993; Quine 1960, 1970, 1990; Gadamer 1967; Volosinov 1973; anche la nota polemica tra Searle e Derrida in Searle 1977, 1983; Derrida 1988; cfr. Hadreas n.d.

27 Perciò è significativo che, su cinque capitoli di "teorie attraverso la recensione di traduzioni contemporanee", il testo di Genzler del 1993, solo un capitolo è stato dedicato a teorie filosofiche chiaramente di stampo decostruzionista -à la Derrida-, mentre la maggior parte delle riflessioni su questo fondamentale campo di ricerca proveniva da teorici della cultura, antropologi e accademici di lettere.

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Sud del mondo) dipendono, per un margine essenziale, dagli sforzi dell'umanità volti a migliorare la comunicazione interculturale e linguistica: ciò si configura come una meta futura in vista della quale la filosofia ha il compito di consegnare modelli di pensiero. Ancora una volta devo ricordare al lettore la missione profetica della filosofia interculturale.

Nello stesso momento è bene realizzare che, attualmente, non solo la pratica antropologica ma anche quella filosofica si basano sulla tacita assunzione secondo la quale è possibile produrre traduzioni adeguate – e ciò nonostante vi siano teorie filosofiche, come ad esempio quella di Quine, che fanno emergere il carattere di indeterminatezza della traduzione. I filosofi contemporanei, compresi quelli più asserragliati sul fronte occidentale, si affidano all'insegnamento di un gran numero di predecessori che dal canto loro scrivevano in greco, latino, italiano, arabo, ebraico, francese, inglese, tedesco, spagnolo, russo, polacco, danese, olandese, afrikaner… Eppure la maggior parte dei filosofi padroneggia solo uno o due o tre di queste lingue a un livello di competenza sufficiente per svolgere un discorso filosofico o una ricerca autonoma nell'ambito della storia della filosofia. E', cioè, una pratica esplicitamente accettata che perfino i filosofi di professione consultino in traduzione la maggior parte dei testi filosofici di rilievo. Attualmente, nella filosofia occidentale, si ha a che fare solo con due grandi famiglie linguistiche, quella indo-europea e quella afroasiatica (che comprende la sottofamiglia semitica e, dunque, l'arabo e l'ebraico); in filosofia interculturale il problema è essenzialmente più complesso, dacché il suo ambito abbraccia tutte28 le lingue del mondo, sia quelle correnti che quelle scomparse.29 E' importante sottolineare come i filosofi, nella loro

28 Raju 1966.

29 Di fronte a una tale diversità globale, ci si meraviglia nel vedere come il termine "interculturale" venga spesso usato in riferimento agli scambi linguistici tra tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, italiani, olandesi, portoghesi e scandinavi all'interno dell'Unione Europea – come se queste lingue potessero ancora

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pratica quotidiana, manifestino sempre una fiducia incondizionata e autoevidente nella possibilità, per loro e per gli altri, di un'interlingua– con buona pace di Quine. Ciò, di primo acchito, non li fa apparire come le migliori guide pronte a condurci tra i meandri dell'interlingua come aspetto dell'intercultura.

rappresentare in modo legittimo le linee di confine di altrettante "culture" distinte; da parte mia preferisco intendere questo caso come una pluralità di forme linguistiche, intimamente collegate a realtà locali, all'interno dell'unico ordine della civiltà nord-atlantica, la quale raccoglie tutte queste realtà, all'inizio del terzo millennio dell'Era Volgare [Common Era].

Probabilmente l'etnocentrismo della filosofia moderna è più che altro solo una comprensibile semplificazione, e non certo la manifestazione di un sinistro complotto contro il Sud del mondo: all'interno di un unico linguaggio, di un unico orientamento culturale, quasi tutti i problemi filosofici diventano profondamente aporetici – come un fiume dall'alveo profondo ed esteso che nessuno riesce a guadare (tanto meno con mezzi dappoco…). Eppure l'esperienza centrale del mondo contemporaneo è proprio la relazione tra una pluralità di interazioni [intermeshing plurality] e la dirotta identitaria dei gruppi umani all'interno di confini apparentemente inaccessibili. Alla luce di ciò, diventa sempre più inaccettabile questa tendenza della filosofia contemporanea di ridurre il suo campo problematico ad un solo linguaggio e ad una sola cultura.

2.4. Cultura e differenza

In larga misura anche il secondo motivo per cui i filosofi hanno fatto proprio il concetto tyloriano di "cultura" è di natura filosofica30: è la convergenza del concetto di cultura con la creazione, da parte di post-strutturalisti come Derrida, Lyotard, Deleuze e Guattari, di un sofisticato

30 Sono grato a Heinz Kimmerle e Henk Oosterling per avermi segnalato delle grosse imprecisioni contenute in una precedente versione di questo paragrafo.

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apparato concettuale che permettesse di pensare e maneggiare la differenza. Qui il fascino logocentrico per le contraddizioni tra opposti [binary contradictions], fascino che aveva irretito il pensiero occidentale dai presocratici fino a Hegel, Marx e gli strutturalisti del XX secolo come Lévi-Strauss, improvvisamente appariva sotto una luce differente e critica. Il post-strutturalismo era una strategia della differenza: esso conteneva in sé la possibilità di decostruire l'identità e nello stesso tempo di affermarla. Il post-strutturalismo, infatti, faceva seguito a due grandi movimenti intellettuali (il marxismo e lo strutturalismo) che avevano relegato la diversità delle "culture" allo status di un epifenomeno; e ciò perché entrambi questi movimenti negavano la specificità delle distinte culture alla luce di alcune condizioni assiomatiche più fondamentali ("l'inevitabilità storica della lotta per l'appropriazione dei mezzi di produzione" nel marxismo; o, diversamente, "la struttura binaria innata della mente umana" nello strutturalismo): tali condizioni, sul piano effettivo, finivano per ridurre l'alterità emica a un'uniformità [sameness] etica. Per i post-strutturalisti, invece, nella figura di pensiero dell'opposizione binaria, i due poli potevano, per certi versi, vicendevolmente contenersi e dissolversi l'uno nell'altro (come il serpente uroboro che si morde la coda, nell'ermetismo antico e nella simbologia alchimistica). In questo modo venivano a porsi dei dubbi su due grandi strategie di pensiero, fino ad allora date per scontate:

1) la riduzione dell'altro al medesimo [sameness] (come nel marxismo e nello strutturalismo), e

2) la ferrea concezione dell'alterità come differenza assoluta e irrisolvibile (come nel dilemma di Shen)

Nel mondo d'oggi sempre più globalizzato, entrambe queste strategie hanno un'essenziale portata politica: l'egemonia delle forme socio-culturali, economiche e politiche, imposte fortemente da parte della società nord-atlantica (e resa irresistibile grazie all'appoggio di un potere militare superiore –la NATO e, in particolare, gli Stati Uniti), comporta delle forti pressioni su ciascun individuo, comunità o governo situati al di fuori del centro di potere: questi sono costretti o ad allinearsi all'ordine

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uniforme [co-opted into sameness] (1), o ad essere esclusi in quanto rappresentanti di una differenza irrimarginabile (2). Per la "filosofia della differenza" post-strutturalista, la differenza diventa la base del riconoscimento dell'altro in quanto altro e medesimo– fondamento di un rispetto che si oppone sia alla "imposizione appropriativa" (1) che all'esclusione (2). Ma, allo stesso tempo, questi filosofi sono consapevoli della possibilità che quel Sé medesimo a sé, che si credeva di poter riconoscere nell'altro, altro non sia che una proiezione di sé, un'appropriazione, un soggiogamento – e, per questa ragione, essi guardano con sospetto agli schemi generali, alle rappresentazioni che sottintendono una sorta di principio unificatore dell'umanità, di tutte le culture e dei linguaggi del mondo, di tutte le culture del Vecchio Mondo, di tutte le tradizioni filosofiche presenti nel mondo, di tutte le culture africane, ecc… Al filosofo interculturale della differenza preme più di tutto affermare quello che gli antropologi avevano scoperto decine d'anni prima: e cioè che la cultura è una macchina per la produzione di differenza, che agisce in particolar modo in quei luoghi dove prima dominava un ordine uniforme, indifferenziato e inarticolato. Per il filosofo interculturale, dunque, il concetto antropologico di "cultura" diventa uno strumento per l'articolazione di collettive prese di posizione di differenza. Tali prese di posizione potrebbero valere come punti di partenza comunemente riconosciuti in vista di un'azione sociale e politica, di modo che ogni tentativo di assimilare queste posizioni in un'unità superiore verrebbe considerato come un attacco (modernista o egemonico) alla integrità di queste, e dunque come un atto da rifiutare.31

Questa è una posizione lodevole, in linea con il relativismo culturale che domina l'antropologia da metà del secolo scorso in poi. Eppure l'adozione del concetto antropologico di cultura da parte dei filosofi comporta un prezzo da pagare: il dilemma di Shen non potrà più essere risolto. Il relativismo culturale, introdotto con le migliori intenzioni nella filosofia interculturale, comporta un ostacolo insormontabile per il

31 Kimmerle 1990.

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compimento della più urgente responsabilità sociale della filosofia interculturale.

I filosofi hanno adottato il concetto tyloriano di "cultura" come un corpo estraneo, come una scatola nera, senza cercare di accordarlo agli altri concetti filosofici contemporanei (categoria, soggetto, mente, Stato, ecc…). Eppure, in filosofia, il concetto di "cultura" ha una storia interessante che non porta affatto direttamente a Tylor. L'origine del concetto si situa nella romanità: Cicerone parla di cultura animi, nel senso, introdotto dagli Stoici, dell'esercizio spirituale basato sulla riservatezza e sulla rispettosa cordialità sociale. Un concetto assoluto di "cultura", che si riferisce all'azione umana all'interno di una società, è stato usato per la prima volta da Pufendorf, il teorico della legge naturale del XVII secolo. Un secolo più tardi, Herder aggiunse a questa nozione l'elemento della storicità, e cominciò a parlare di "culture" di specifiche popolazioni: in questo modo venivano poste le basi per una filosofia della cultura. Questa filosofia fu realizzata, con notevole ritardo, da filosofi come Dilthey, Rickert, Cassirer e Simmel, agli inizi del XX secolo; ma essa si concentrava quasi imprescindibilmente sulla cultura europea.32. Perfino la prospettiva globale di Spengler, che a prima vista potrebbe manifestare un minimo di buona disposizione al confronto con le altre civiltà33, in realtà era ispirata dalla domanda sul futuro della civiltà

32 Perpeet 1974, il testo è accompagnato da esaustive note bibliografiche. La storia del concetto di "cultura" dalla romanità al XVIII secolo è ben trattata in Niedermann 1941.

33 Definisco civiltà un sistema socio-politico che – in virtù di istituzioni come la produzione alimentare, la formazione statale, la scrittura e la religione organica – manifesta un grado di continuità consistente all'interno di una vasta area geografica, nella quale sono presenti una pluralità di orientamenti cu