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Finanziaria: quel maledetto imbroglio

di Luigi Tedeschi - 16/11/2006

 

L 'uragano-Finanziaria ha colpito l'Italia intera e le sue conseguenze, in termini di danni economici e sociali, potranno essere valutabili nell'arco di due anni. L'entità della manovra è nominalmente di 33 miliardi (contro i 30 promessi), ma la misura del prelievo non è tuttora quantificabile e le sue varianti in aumento potranno generare ulteriori inasprimenti in termini di pressione fiscale aggiuntiva, tariffe, e prezzi al consumo, a carico di tutta la generalità dei contribuenti italiani.
Il governo Prodi ha improntato la sua politica economica al rigore finanziario, con il preciso scopo di ricondurre il rapporto deficit/Pil entro il 3% fissato dal trattato di Maastricht. Pertanto, come già annunciato, la finanziaria 2006 avrebbe dovuto incidere maggiormente sulla riduzione delle spese piuttosto che sul fronte delle entrate. Nella realtà la manovra finanziaria grava per 2/3 sulle entrate anziché sulle spese. Tuttora il governo millanta il presunto carattere strutturale della manovra, mentre nulla è stato fatto per incidere sulle cause strutturali della spesa pubblica improduttiva, il cui onere grava sui cittadini. Al di là della demagogia "statalista" della sinistra radicale, il welfare subisce ulteriori decurtazioni (specie nella sanità) e di quella della destra liberista, la cui opposizione si incentra sullo slogan "meno Stato più mercato", esistono settori istituzionali dello Stato, quali la sicurezza e la giustizia, il cui fabbisogno di investimenti è stato clamorosamente disatteso, mentre le cause strutturali del deficit pubblico non sono state affrontate. La politica italiana, sia con i governi di centro-destra, che con quelli di centro-sinistra, è caratterizzata da una perenne continuità circa le direttive fondamentali di politica economica. Lo stesso governo Berlusconi, che aveva tra i punti cardine del proprio programma la riduzione del deficit statale, ha incrementato la spesa pubblica di circa 2 punti del Pil. In realtà, manca in entrambi gli schieramenti una visione generale dello Stato, rappresentativa degli interessi collettivi del Paese, che prescinda dalle logiche settoriali, le quali invece nella società italiana assumono un ruolo decisivo nelle competizioni elettorali, sia nelle coalizioni di destra e che in quelle di sinistra. I governi infatti non sono chiamati a rispondere del proprio operato dinanzi al corpo elettorale, bensì conformano la loro azione politica agli interessi delle lobbies che li hanno sostenuti, sia elettoralmente che finanziariamente (i contributi delle imprese ai partiti sono esposti nei bilanci). Quindi, se il centro-destra è portatore degli interessi degli ordini professionali e delle categorie degli autonomi, il centro-sinistra è l'espressione delle lobbies sindacali e del movimento delle cooperative. non ci si deve dunque stupire dell'incremento del deficit pubblico dovuto non alla spesa sociale, ma ai costi della politica (vedi finanziamento ai partiti, privilegi parlamentari, creazione di nuove province, quando bisognerebbe abolire quelle esistenti), che nessuno sa o vuole quantificare. I tagli operati dal governo attengono alla sanità (i cui costi amministrativi e non strutturali potrebbero essere ridimensionati) e trasferimenti agli enti locali. Queste misure sono del tutto evanescenti, dato che i pretesi "risparmi" si rivelano invece delle mere traslazioni di costi statali a carico dei cittadini, realizzati mediante l'aumento delle imposte addizionali di comuni e regioni e l'introduzione dei ticket sanitari sulle ricette e sulle prestazioni rese dal pronto soccorso. Ulteriori tagli di spesa verranno realizzati mediante la soppressione di numerose prefetture e questure in importanti capoluoghi di provincia (ad esempio Massa Carrara e Lodi), con la conseguenza di una diminuita presenza dello Stato sul territorio, a danno quindi dell'ordine pubblico, la sicurezza, la protezione civile.
Sono state inoltre modificate le aliquote Irpef, con aggravio della pressione fiscale per i redditi oltre i 75.000 euro, che sconteranno l'aliquota del 43%. Sono previsti altresì sgravi d'imposta per i redditi inferiori a 40.000 euro. I maggiori risparmi sono concentrati nelle fasce di reddito intorno agli 8/10.000 euro (contribuenti minimi per lo più già non gravati da imposta), mentre il maggior aggravio raggiunge i 1.780 euro per i redditi oltre i 100.000. Occorre rilevare che i contribuenti oltre la soglia dei 75.000 euro rappresentano una quota assai esigua della popolazione (1,58%), mentre la stragrande maggioranza si attesta al di sotto dei 40.000. Pertanto, gli effetti redistributivi della finanziaria vengono vanificati, in quanto il surplus di prelievo ricavato dai redditi più elevati, viene ad essere spalmato su una platea di contribuenti talmente vasta, da rendere gli sgravi d'imposta irrisori. Si calcola una media di 140 euro pro-capite, peraltro largamente assorbita dal prelievo aggiuntivo della finanza locale, dai ticket sanitari. Ci sembra allora fuori luogo affermare che questa finanziaria abbia effetti redistributivi nei confronti dei ceti più deboli, dal momento che al prelievo sui "ricchi" non corrisponde alcun vantaggio a favore dei "poveri". Inoltre, una politica redistributiva può avere effetti positivi, sia sul piano economico che su quello sociale, nelle fasi di crescita, in cui può essere più equamente distribuito un surplus di ricchezza prodotto, mentre la attuale ripresa si presenta limitata ed incerta. A tal proposito, c'è da rilevare, inoltre, il progressivo aumento del tasso di sconto imposto dalla UE, che rende sempre più oneroso il costo del denaro per le imprese e per i cittadini, che comporterà minore competitività per le une e decurtazioni del potere d'acquisto dei salari per gli altri. Il tendenziale aumento del tasso di sconto, incrementerà di certo la quota interessi del debito pubblico, contribuendo in tal modo ad accrescere il deficit statale. La crescita prevista verrebbe allora assorbita dal maggiore indebitamento pubblico e la manovra finanziaria si rivelerebbe l'ennesima fatica di Sisifo, inutile a fronteggiare la marea montante del debito e a farne le spese sarebbe sempre e solo il popolo italiano, che subirebbe l'ennesima ingiustificata decurtazione di ricchezza. Deluse sono andate le aspettative riguardo alle promesse governative circa il taglio del cuneo fiscale, cioè di quella componente fiscale e contributiva a carico sia dell'impresa che del lavoratore che, oltre a diminuire il salario netto, costituisce una voce rilevante del costo complessivo del lavoro. Il governo ha invece proceduto a sgravi dell'Irap (a vantaggio delle sole imprese), che consistono in 5.000 euro annue di deduzione per ogni lavoratore a tempo indeterminato e il riconoscimento di un importo deducibile pari ai contributi per ogni unità lavorativa. Tali benefici saranno operativi a partire dal marzo 2007. La portata di questo beneficio è nei fatti per le imprese assai ridotta, dal momento che esso non è cumulabile con altre deduzioni già usufruite dalle stesse imprese. Da tali sgravi è escluso comunque il lavoratore. Anzi, il costo del lavoro sarà ulteriormente incrementato dall'aumento dell'aliquota contributiva per i lavoratori dipendenti dal 32,7% al 33%, con lo 0,30% a carico del datore di lavoro. La stessa impresa vede tuttavia vanificato il beneficio degli sconti Irap, poiché, in concomitanza dell'entrata in vigore anticipata della riforma istitutiva della previdenza integrativa (dal 01/07/2007), verrà creato un nuovo fondo gestito dall'Inps che sarà finanziato con il 50% del Tfr non destinato alle forme di previdenza complementare. Tale provvedimento, oltre a rappresentare un prelievo forzoso simile ad un esproprio a danno del lavoratore, dato che il Tfr è una forma di retribuzione differita, inciderà negativamente sulle imprese, ad esborsi rilevanti che pregiudicheranno la loro liquidità e creerà nuove fonti di indebitamento. Il trasferimento del 50% del Tfr inoptato all'Inps è frutto di un curioso artificio di ingegneria contabile escogitato dal governo Prodi, che ha configurato questo prelievo come un'entrata in funzione del risanamento del deficit pubblico, ma esso costituisce invece l'accensione di una nuova fonte di debito dello Stato nei confronti dei lavoratori.
Sono aumentate le aliquote contributive a carico di artigiani e commercianti, oltre a quelle relative ai parasubordinati. Per questi ultimi, riguardo alla loro perequazione ai dipendenti per il trattamento previdenziale, nulla è stato fatto. Anzi, è facilmente prevedibile che la politica di rigore graverà proprio sui lavoratori precari massicciamente presenti nello Stato (il precariato è maggiormente presente nel settore pubblico piuttosto che in quello privato), i cui rinnovi contrattuali potrebbero subire tagli energici. Molti contratti collettivi del settore pubblico attendono da anni di essere rinnovati, ma l'esito di tante vertenze è del tutto incerto.
Non sono stati comunque penalizzati tanto i ricchi, quanto l'intero popolo italiano, poiché nessuno oggi può valutare l'incidenza reale di questa manovra di 33 miliardi che senz'altro potrà pregiudicare il corso di una ripresa già di per se limitata ed incerta. Non si è infatti valutata l'incidenza della finanziaria e le sue ricadute per quanto concerne i rincari di prezzi e tariffe, fattori determinanti per lo sviluppo e l'occupazione.
L'accentuazione della pressione fiscale sui "ricchi" è assai limitata, quando si valuta l'incremento del prelievo che tutti subiranno a causa della finanza locale, dell'aumento prevedibile dell'ICI e altre forme di tassazione più o meno occulte, destinate a gravare su tutta la collettività, indipendentemente dalla propria capacità contributiva. Demagogica appare la reintroduzione dell'imposta di successione, già abolita proprio perché fonte esigua di prelievo e causa di ingiustizia sociale. Questa imposta, in realtà, non colpisce i grandi patrimoni, in quanto questi ultimi, risultano debitamente occultati nelle varie "casseforti di famiglia" sotto forma di enti o società opportunamente collocate nei paradisi fiscali off shore. Vengono invece colpiti senza via di scampo cespiti immobiliari ereditati da singoli cittadini, che sono il frutto di risparmi familiari di una vita. Si è ripetuto che la sinistra rivela nella sua politica economica la antica, genetica avversione ideologica verso il ceto medio. Ci su chiede allora, nell'era della globalizzazione, quali siano i parametri che rendono identificabile il ceto medio. Da indagini statistiche accreditate risulta che la fascia mediana di redditi delle famiglie italiane si collochi intorno ai 25.000 euro. Dalle indagini statistiche emerge quindi che la maggioranza delle famiglie italiane rappresentano un ceto sociale a basso reddito e con scarsa capacità di risparmio e di consumo. E' questa la prova tangibile di un ceto medio italiano ormai proletarizzato e, se volessimo qualificare come ceto medio i contribuenti con oltre 75.000 euro di reddito, quest'ultimo appare in Italia assai esiguo e in via di estinzione. Paradossalmente, molti italiani si accorgono di appartenere al ceto medio solo in occasione della dichiarazione dei redditi.
La politica economica governativa si rivela non strutturale, ma mera politica di bilancio, conforme ai dettami della UE, penalizzatrice dello sviluppo, in funzione della preservazione della stabilità monetaria. E' la stessa della politica economica della UE allora ad essere messa sotto accusa: si tende a deprimere lo sviluppo per impedire la crescita dell'inflazione. In breve, gli obiettivi di politica economica europea sono solo finanziari, incentrati cioè alla stabilità monetaria, a vantaggio dei profitti finanziari, sul cui altare vengono sacrificati la crescita economica e la giustizia sociale.
A proposito del vanto governativo di aver "fatto piangere i ricchi", costatiamo che da lungo tempo gran parte del popolo italiano piange per arrivare a fine mese e un giorno di pianto dei ricchi non lo consolerà di certo.