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L’Ordine dei giornalisti a cosa serve? Intervista a Massimo Fini

di Massimo Fini e Alessandro Montanari - 17/11/2006

 


Massimo Fini, oggi parliamo di libertà d’informazione. Cominciamo dal caso di Renato Farina. Da giornalista, le sembra giusto che, seppur a fronte di colpe che lui stesso ha ammesso, gli venga impedito di scrivere?

«Devo premettere che l’esistenza di un Ordine dei Giornalisti desta in me molte perplessità. Posto, però, che questo Ordine esiste, non credo che un giornalista possa fare contemporaneamente l’agente segreto. Evidentemente sono due attività incompatibili».

Ma la punizione non le sembra eccessiva visto e considerato che la libertà d’espressione è un diritto inalienabile sancito dalla Costituzione?

«Infatti bisognerebbe eliminare l’Ordine. Credo tuttavia che Farina possa scrivere lo stesso. Se esce dall’Ordine non penso che qualcuno potrebbe imporgli di non scrivere. Al contrario, però, se resta nell’Ordine, deve seguirne le regole».

A proposito dell’Ordine dei Giornalisti, che funzione ritiene che abbia oggi?

«Francamente non riesco a capirlo e devo aggiungere che in trent’anni di mestiere non mi sembra di aver mai ricevuto alcun tipo di beneficio dal fatto di appartenere all’Ordine dei Giornalisti. Tuttavia, mentre non ho grandi certezze sull’utilità o meno di un Ordine in quanto tale, sono abbastanza certo che un giornalista che appartiene ai servizi segreti non possa fare correttamente il proprio mestiere. Anzi, se “montanellianamente” prendiamo come punto di riferimento il lettore, questo si configura come un inganno ai suoi danni».

Tuttavia siamo all’assurdo per cui oggi i mezzi di informazione possono amplificare i messaggi di Bin Laden o dare spazio ad imam che sostengono il terrorismo ma non possono proporci le opinioni di Farina...

«E questo cosa c’entra?»

“Montanellianamente” parlando si potrebbe sostenere che il lettore viene privato di un punto di vista che, per quanto riguarda i contenuti, appare assai più che legittimo. Non le sembra un’incongruità logica, se non addirittura giuridica?

«Logica no di sicuro. Quando parla, Bin Laden parla da Bin Laden e quando un giornalista parla o scrive dovrebbe parlare o scrivere per se stesso o per la sua testata. È una questione di trasparenza».

Quindi lei non firmerà l’appello per Farina?

«Da quando faccio questo mestiere ho firmato un solo appello, nel ’72, per la liberazione di Valpreda. Poi non ho più sottoscritto alcun documento e non ho intenzione di cambiare atteggiamento».

È opinione abbastanza diffusa che se Farina fosse stato di sinistra le cose sarebbero potute andare diversamente. È d’accordo?

«No, nel modo più assoluto. Quel che ha fatto Farina nell’Ordine dei Giornalisti è di una straordinaria gravità. Qualunque giornalista l’avesse fatto, di destra o di sinistra, sarebbe stato sottoposto alla stessa sanzione».

La categoria dei giornalisti però si presta spesso a farsi identificare politicamente con la sinistra. Per esempio con la calendarizzazione degli scioperi. A quanto pare la federazione medita di indirne uno il due dicembre prossimo, nel giorno cioè in cui la Cdl manifesterà a Roma contro la Finanziaria.

«Davvero non riesco a capire questa sorta di terrore verso una sinistra che quasi non esiste più. Voglio dire, non mi pare che oggi la sinistra abbia tutto questo peso, a parte il fatto che adesso è al governo cosiccome prima c’era stata la destra. Discorsi come questi mi ricordano quella distinzione manichea tra fascismo e comunismo che ancora oggi è molto in voga benché fascismo e comunismo non esistano più. Questo continuo rimpallo di accuse e sospetti tra destra e sinistra mi sembra un po’ forzato».

È forzato anche sostenere che nell’ambito intellettuale essere di sinistra conviene? Insomma, è un luogo comune oppure è vero che se sei uno scrittore di sinistra ti pubblicano, che se sei un attore di sinistra reciti e che se sei un regista di sinistra fai i tuoi film e magari ti prendi pure le sovvenzioni dello Stato?

«È stato vero per il lungo periodo in cui il Partito Comunista ha avuto un’egemonia quasi totale sulla cultura italiana ad esclusione della televisione, che invece era nelle mani della Dc. È anche vero, però, che il Pci ha investito nella cultura sapendo, gramscianamente, che si trattava di un tramite importante per conquistare l’egemonia politica. Adesso non è più così. Bisogna anche dire, però, che la destra non ha saputo imparare la lezione dell’avversario. Se rimane una prevalenza di intellettuali di sinistra, perciò, è anche perché la destra, una volta preso il potere, si è completamente disinteressata del potere. E lo stesso vale per il Movimento Sociale che, ghettizzato per 40 anni nell’arco istituzionale e quindi nella posizione più sfavorevole per fare politica ma più favorevole per fare cultura, è riuscito a esprimere solo Marcello Veneziani. Mi pare un po’ poco».

Negli ultimi cinque anni però il livello si è abbassato notevolmente. Abbiamo visto opere, alcune davvero di bassa lega,
che probabilmente sono state pubblicate o realizzate solo ed esclusivamente perché erano mirate contro Berlusconi...

«Ma in questi anni è uscito un po’ di tutto! Sono usciti anche libri molto critici nei confronti della storia della sinistra, come quello di Pansa, che peraltro è stato scritto con una trentina d’anni di ritardo. E poi Berlusconi ha occupato un tale spazio nella storia politica, economica e sportiva del Paese, che non mi sorprende affatto che in così tanti si siano occupati di lui».

Quindi secondo lei essere di sinistra non è un lasciapassare pressoché indispensabile nelle professioni artistiche o intellettuali?

«Non è più vero. Lo è stato, ma non è più così. La destra possiede giornali e tv. Se non è capace di fare cultura su questi giornali e su queste tv è solo colpa sua. Il discorso da fare sulle tv, però, è più ampio e complesso».

Perché più complesso?

«Perché, reggendosi su una tv pubblica occupata dai partiti e su un polo privato di proprietà di un unico soggetto da diversi anni ormai impegnato in politica, il nostro sistema televisivo è del tutto anomalo. Essendo un oligopolio non può garantire libertà di informazione agli utenti ma al contempo non garantisce nemmeno ai giornalisti un mercato libero. Se la Rai, controllata dai partiti, manda via un giornalista come Santoro, questi non può andare da nessun altra parte e così diventa un “martire”. Se invece ci fossero sette emittenti in capo a sette proprietari diversi non ci sarebbe nessun problema. Allora nessuno più si arrischierebbe a licenziare un bravo giornalista perché, altrimenti, quello andrebbe alla concorrenza».

A proposito di tv, in passato lei ha denunciato di essere stato oscurato dalla Rai di centrodestra. Adesso come va?

«Non voglio fare la vittima della censura Rai. È noto che ci fu quell’episodio, un episodio grave perché colpiva la persona, ma detto questo aggiungo che non ho fatto televisione per sessant’anni e che posso continuare a non farla per il resto dei miei giorni».

Quindi non si sono aperti nuovi spazi?

«L’informazione televisiva è divisa in due bande, quella ulivista e quella berlusconiana. Chi non fa parte di queste due bande fa molta fatica a trovare un posto dove esercitare il suo mestiere».
È per questo motivo che il giornalismo italiano è così poco considerato a livello internazionale?
«In Italia si è fatto e si continua a fare del buon giornalismo ma indubbiamente in nessun altro Paese del mondo i partiti hanno una tale presa sull’informazione. E lo dice uno che non ha mai avuto il mito del giornalismo anglosassone».