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Bolkestein, la stretta finale

di Siro Asinelli - 17/11/2006


La sessione plenaria del Parlamento europeo si esprimerà oggi sulla famigerata Direttiva sui Servizi, il cui iter è ormai giunto alla fine dopo tre anni di emendamenti, modifiche, critiche e diffuse perplessità.
Uno scontro aspro che nel voto di Strasburgo segna la sconfitta dell’idea di poter affermare in Ue l’incontestabile diritto dei cittadini e dei lavoratori europei ad ambire alla costruzione di uno Stato sociale diffuso.
Archiviate la prima lettura dell’inverno scorso da parte dell’Europarlamento, la successiva approvazione del Consiglio dei ministri europei in estate e infine, poco più di due settimane fa, il parere positivo del Comitato di Strasburgo per il Mercato Interno e la Protezione dei Consumatori (IMCO), la direttiva approda all’esame finale degli eurodeputati. La sua approvazione sembra scontata, ed a suggellare l’importanza dell’evento, che segna il definitivo passaggio in Unione delle liberalizzazioni selvagge, sarà presente in aula il ministro per il Commercio e l’Industria finlandese, Mauri Pekkarinen, in qualità di rappresentante della presidenza e del Consiglio dei ministri europei di turno.
La normativa, conosciuta come Direttiva ‘Bolkestein’, dal nome del commissario al Mercato interno, appunto Frits Bolkestein, che la propose nel 2003 – guarda caso con l’approvazione ed il sostegno dell’allora presidente della Commissione Ue, Romano Prodi – esce dal difficile iter sostanzialmente inalterata, seppure con qualche piccolo ritocco. In generale, l’impressione che il Parlamento europeo avesse alzato bandiera bianca già alla prima approvazione parziale del febbraio scorso resta inalterata. In tal senso era stato molto chiaro il responsabile di Bruxelles, José Manuel Durao Barroso, che il 15 febbraio scorso aveva dichiarato, prima del voto plenario dell’Europarlamento: “È tempo ormai di lasciare le divisioni dietro di noi, costruire dei ponti e creare delle condizioni di accordo”. Per uscire dall’empasse, la parola d’ordine è divenuta “compromesso”, alla fine digerita anche dalle frange inizialmente più intransigenti di Strasburgo che hanno ottenuto qualche piccola modifica al testo, che peraltro conserva alcune pericolose ambiguità. È così che dalla direttiva viene eliminato il Principio del Paese d’Origine (PPO), secondo cui una società prestatrice di servizi risponde alla legislazione dello Stato in cui ha sede amministrativa e non dello Stato cui offre i propri servizi. Il PPO, in prima battuta considerato tra i principi portanti della direttiva, permetteva in sostanza ad una qualsiasi società di localizzare un Paese poco esigente sul p iano sociale e fiscale, ad esempio i futuri Stati membri Romania o Bulgaria, per installavi la propria sede sociale. Tale pratica agevola una competizione selvaggia tra lavoratori sottoposti a regolamentazioni differenti, spingendo i Paesi ove ancora sussiste una sorta di protezione sociale a servirsi di aziende estere. Il tutto incitando alla pratica della delocalizzazione delle imprese. Ma chi controllava il rispetto, quantomeno, della legislazione del Paese d’origine? Nella revisione apportata da Bruxelles a novembre 2005 il titolo dell’articolo 16 “Principio del Paese d’Origine” era stato modificato con “Clausola del mercato interno”, affidando allo Stato che accoglie il prestatore di servizio il compito di verificare il rispetto sul suo territorio della legislazione dello Stato di origine dell’azienda.
La modifica apportata ha suscitato ancora più dubbi, in quanto prevedeva che ogni Paese disponesse di ispettori capaci di muoversi agevolmente tra tutte le legislazioni del lavoro dei 25 Stati membri, oltre che ha padroneggiare diverse lingue.
Il controllo capillare sarebbe stato impossibile. Alla fine il compromesso è stato raggiunto grazie all’accordo in seduta plenaria a Strasburgo tra i principali gruppi: l’articolo 16 è stato ribattezzato “Libertà di prestazione dei servizi” e semplicemente è stato cancellato qualsiasi riferimento a leggi eventualmente applicabili ed allo Stato cui spetterebbero responsabilità di controllo.
Popolari, socialisti e liberali europei hanno raccolto il vergognoso plauso della Confederazione Europea dei Sindacati e tutti insieme si sono affrettati a decretare la morte del PPO. Eppure la trappola è dietro l’angolo, o meglio, tra le righe: nel testo definitivo che oggi sarà votato, infatti, pur sparendo il PPO, non è stata introdotta nessuna indicazione relativa al principio del Paese di destinazione, come a suo tempo richiesto in un emendamento respinto. Al contrario è stato modificato il precedente articolo 4, al comma 2, in cui si definisce il ‘prestatore di servizi’ “qualsiasi persona fisica, cittadina di uno Stato membro, ovvero persona morale, attestata conformemente alla legislazione del suddetto Stato membro, che offre o che fornisce un servizio”. Ciò significa che il prestatore di servizio è definito e regolato dalla legislazione del Paese d’origine. Per gettare ancora di più fumo negli occhi dei cittadini europei, pardon dei “consumatori” europei, si è inoltre spostato il paragrafo 2 dell’articolo 16, quello modificato il 23 novembre 2005, sull’articolo 35, dove si ribadisce che spetta allo Stato di destinazione del servizio controllare il rispetto da parte del prestatore del servizio “della di lui legge nazionale”.
Oltre al contestatissimo PPO, di fatto accettato senza emendamenti consistenti, restano ancora tante zone d’ombra. Lo Stato destinatario del servizio conserva infatti esplicitamente il diritto di imporre le sue leggi in materia di diritto del lavoro, sanità, sicurezza, ambiente e protezione dei consumatori; ma tutto il resto, che non è indicato, implicitamente sfugge al controllo statale finendo carne da liberalizzazione selvaggia: distribuzione dell’acqua e di energia, la maggior parte dei servizi sociali, la gestione degli alloggi, e via dicendo. È così che la direttiva, piuttosto che “armonizzare il mercato” crea concorrenza spietata finendo per favorire “dumping sociale”, ovvero l’offerta di servizi sottocosto.
Il testo su cui oggi si esprimeranno gli eurodeputati, a conti fatti, non sembra essere meno pericoloso della prima stesura presentata dall’allora commissario Bolkestein. Quel che è certo ed inoppugnabile è che i vari passaggi a Strasburgo e a Bruxelles sembrano essere serviti più ad indorare la pillola che a rivedere nella sostanza la direttiva. Il risultato è un testo i cui obiettivi sono gli stessi del 2003, ma invece di essere spudoratamente espliciti sono stati celati, resi impliciti. Di conseguenza è stato introdotto un ambiguo principio per cui tutto ciò che non è scritto è lecito.