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Un papa che ha lasciato la Chiesa a un punto morto

di Alain de Benoist - 18/11/2006

 

Nel 1992 ho pubblicato, sulla rivista «Krisis», due articoli dedicati alla «strategia di Giovanni

Paolo II», e più in particolare al suo progetto di «nuova evangelizzazione» dell’Europa. A

distanza di tredici anni, all’indomani della morte del sovrano pontefice, non vedo granché da

modificare in quello che avevo scritto. Si può, in compenso, cercare di tracciare un bilancio.

Diciamolo subito: l’ambizioso progetto di questo primo papa dei tempi postmoderni, salutato

come l’«atleta di Dio» nei primi anni del suo pontificato ma diventato venticinque anni più

tardi un vegliardo curvo dalle mani tremanti che sembrava portare al limite delle forze il

messaggio della fede, non si è concretizzato. Malgrado le folle immense raccolte in occasione

dei suoi viaggi, durante le Giornate mondiali della gioventù di Parigi e di Roma, o ancora in

occasione del Giubileo del 2000, la “rievangelizzazione” delle masse sulla base dell’«identità

cristiana dell’Europa» rimane, in sostanza, un pio desiderio. In Francia come nella maggior

parte dei paesi dell’Europa occidentale, i dati principali che caratterizzavano la situazione un

quarto di secolo fa non hanno fatto altro che confermarsi: crollo della pratica, confusione

delle credenze, bricolage di una “spiritualità a scelta individuale” su un mercato religioso

anch’esso globalizzato.

Nel 1965, l’86% dei bambini francesi frequentavano ancora il catechismo. Oggi sono ridotti

al 5-6%. Nel 1994, un sondaggio realizzato dalla Sofres ha rivelato che il 48% dei cattolici

francesi non crede (o non crede più) alla presenza reale nell’Eucaristia. Nelle grandi città

della Francia, due bambini su tre nascono al di fuori del matrimonio. Quanto alla crisi delle

vocazioni, ad alimentarla sono il calo generalizzato delle convinzioni, il crollo dello spirito di

sacrificio, la crisi dell’identità (a cosa può servire farsi prete?) ed infine la degradazione dello

status sociale dei sacerdoti, che ai giorni nostri hanno perso pressoché tutto il prestigio di un

tempo. In altre epoche un prete si imponeva del tutto naturalmente, mentre oggi deve farsi

accettare e ci riesce soltanto con grande sforzo. Soltanto la scuola privata continua a

passarsela bene – non tanto per l’attaccamento dei suoi fautori ad un’educazione veramente

cattolica, quanto piuttosto in virtù del favore che l’idea liberale di concorrenza fra le strutture

scolastiche incontra, in un clima di deterioramento accelerato dell’insegnamento pubblico.

Si può vedere, osservando queste poche cifre (e senza sopravvalutare la portata dei sondaggi,

che hanno un valore esclusivamente indicativo limitato a un determinato momento), la

rapidità dell’evoluzione intervenuta. Non solo le affiliazioni confessionali non si trasmettono

più automaticamente di generazione in generazione, ma tutte le trasformazioni della società

globale alle quali si è assistito in questi ultimi decenni hanno agito nel senso di un crollo o di

una crisi della fede. La pressione sociale giocava un tempo a favore di una conformità

(foss’anche di facciata) dei costumi alle regole dispensate dalla Chiesa. Oggi, non solo essa ha

smesso di giocare in questo senso, ma ha un effetto inverso.

L’idea stessa di dogma non è più capita

Giovanni Paolo II è rimasto per tutta la vita un personaggio mediatico che godeva certamente

della simpatia dell’opinione pubblica, ma di cui si faticava a capire le posizioni in materia di

morale sessuale e coniugale. Lo scarto tra la sua buona immagine e la sua debole autorità, il

suo impatto massmediale e la sua reale influenza non si è mai ridotto. Il papa era ammirato

più che obbedito, visto da tutti ma di rado ascoltato. Questo scarto è tipico dell’epoca attuale:

l’individuo, anche se credente, fa sempre più fatica ad accettare prescrizioni morali fondate

su una tradizione e che implichino una disciplina o una rinuncia. La stessa idea di dogma non

viene più capita: in un mondo in perpetuo movimento, diventa incomprensibile che la Chiesa

possa non cambiare su alcuni punti che ritiene essenziali. È rivelatore il fatto che nel discorso

del papa, che riguardava ogni sorta di argomento, gli osservatori abbiano in genere

privilegiato (in un’ottica peggiorativa) ciò che egli diceva sulla morale privata. Questa

rappresentava solamente una parte del suo discorso, ma era la parte che si rivolgeva più

direttamente ai fedeli, e che in quanto tale poneva dei problemi. Si potrebbe, da questo punto

di vista, paragonare la popolarità senza riserve di cui gode il Dalai Lama, che non chiede né

impone alcunché, e la popolarità mitigata di Giovanni Paolo II, del quale si deplorava il

proposito di regolare i comportamenti in materia di aborto e di contraccezione. Lo spettro

dell’ordine morale è sempre presente, tanto più in quanto si è assistito, nel frattempo, al

disgregarsi della “morale laica”, un tempo propagandata dagli insegnanti della Terza

repubblica francese. Il papa, in altri termini, è stato visto come un professore di morale, non

come un pedagogo della trascendenza o dell’Incarnazione. La sua denuncia dell’edonismo

della società odierna, la sua condanna della «cultura di morte», le sue ripetute messe in

guardia contro il «virus» dell’indifferentismo, del relativismo e del materialismo pratico sono

cadute nella maggior parte dei casi nel vuoto, benché si affiancassero ad altre critiche,

politiche o intellettuali.

Inoltre, Giovanni Paolo II voleva far respirare l’Europa con i suoi «due polmoni», e anche

in questo campo l’insuccesso è stato fragoroso. La riunificazione spirituale della cristianità,

con tutta evidenza, non è per domani. E la frattura che ha condotto allo scisma del 1054 è

meno che mai cicatrizzata, dato che in Grecia e in taluni paesi dell’Est ci si ricorda che le

chiese ortodosse hanno svolto nella storia nazionale un ruolo determinante, dal quale esse

traggono ancora oggi, nella sostanza, la loro legittimità.

Nel 1999, il papa aveva potuto recarsi senza incidenti di rilievo in Romania, paese di

un’ortodossia più morbida, e in Georgia, dove il presidente Shevarnadze aveva forzato la

mano al patriarcato locale. La visita effettuata nel giugno del 2201 in Ucraina si è viceversa

rivelata una delle più penose del suo pontificato. Malgrado le direttive di moderazione rivolte

ai vescovi della Chiesa greco-cattolica locale (in una lettera datata 1 dicembre 2000, il papa

aveva raccomandato loro di evitare «gli sterili conflitti con gli ortodossi», in particolare a

proposito dei luoghi di culto confiscati agli uniati da Stalin), Giovanni Paolo II, per tutta la

durata del suo soggiorno, si è scontrato con l’aperta ostilità della principale Chiesa di

Ucraina, la Chiesa ortodossa ucraina dipendente dal patriarcato di Mosca, i cui fedeli non

hanno esitato a definirlo «precursore dell’Anticristo». In precedenza, la Chiesa ortodossa

greca aveva accettato di controvoglia la sua venuta ad Atene. Ovunque, il contenzioso tra il

Vaticano e l’ortodossia rimane legato al ricordo dei tentativi di conquistare posizioni in terre

ortodosse operati da Roma, per almeno quattro secoli. Ovunque, l’«uniatismo» viene ancora

interpretato in termini di depredazione spirituale.

A torto presentato come il “trionfatore” sul sistema sovietico (mentre la Chiesa cattolica ha

sempre svolto un ruolo trascurabile in terra russa), Giovanni Paolo II ha sempre sognato di

recarsi in Russia e di essere ufficialmente accolto al Cremino. Ma questo progetto si è

scontrato con la ferma opposizione del patriarca Alessio II di Mosca, capofila della potente

Chiesa ortodossa di Russia (80 milioni di fedeli), che nel 2001 reputava quella visita

inopportuna «sino a quando non saranno risolti i problemi egli ortodossi nell’Ucraina

occidentale, e finché il Vaticano continuerà la sua espansione in Ucraina, in Bielorussia e in

Kazakhistan».

Anche l’ecumenismo, che avrebbe dovuto essere uno dei punti caratterizzanti del Giubileo

del 2000, ha segnato il passo. Eppure il 1999 aveva visto il rilancio del dialogo con i

luterani, in particolare con la firma, il 31 ottobre ad Augsburg, di una dichiarazione comune

sulla dottrina della giustificazione (attraverso la grazia o attraverso le opere) che era parsa in

grado di seppellire un conflitto teologico vecchio di cinque secoli. Parallelamente, però, i

segni di raffreddamento si sono moltiplicati. Nel maggio 2000, l’incontro fra i responsabili

delle Chiese cristiane di Francia a Lione, che avrebbe dovuto chiudersi con una dichiarazione

comune, è andato a vuoto. Qualche tempo dopo, la pubblicazione da parte della

Congregazione per la dottrina della fede della dichiarazione Dominus Jesus «sull’unicità e

l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», giudicata eccessivamente intransigente

dai riformati (essa riaffermava con forza che soltanto la Chiesa cattolica detiene la «pienezza

della verità»), ha scatenato quello che è stato definito uno «scisma ecumenico». Nello stesso

momento, gli ortodossi si dichiaravano scandalizzati dalla pubblicazione – a seguito di

un’indiscrezione – di una nota rivolta agli episcopati cattolici dal cardinale Josef Ratzinger,

nella quale il futuro Benedetto XVI non esitava a scrivere che la Chiesa cattolica e la Chiesa

ortodossa non possono essere considerate «Chiese sorelle».

Roma frena il dialogo interreligioso

Anche le relazioni con le religioni non cristiane sono a un punto morto. All’inizio del 2001,

in occasione di una notificazione che aveva di mira le «gravi ambiguità» contenute nel libro

Vers une théologie chrétienne di pluralisme réligieux del gesuita Jacques Dupuy, già

professore all’Università gregoriana, la Congregazione per la dottrina della fede ha dato un

ulteriore colpo di freno al “dialogo” interreligioso, ricordando che, dal punto di vista

cattolico, «la rivelazione storica di Gesù Cristo offre tutto ciò che è necessario per la salvezza

dell’uomo e non ha bisogno di essere completata da altre religioni». In quel testo si leggeva:

«È conforme alla dottrina cattolica affermare che i grani di verità e di bontà che si trovano

nelle altre religioni partecipano in una certa maniera alle verità contenute da e in Gesù Cristo.

Di contro, ritenere che tali elementi di verità o di bontà, o taluni fra di essi, non derivino in

ultima istanza dalla mediazione-fonte di Gesù Cristo, è un’opinione erronea […] È contrario

alla fede cattolica considerare le diverse religioni del mondo come delle vie complementari

alla Chiesa per quanto concerne la salvezza […] Considerare come vie di salvezza queste

religioni, prese come tali, non ha alcun fondamento nella teologia cattolica». Alcune

iniziative spettacolari ma contestati prese da Giovanni Paolo II, come il celebre «incontro

delle religioni» organizzato ad Assisi il 27 ottobre 1986, devono essere valutate alla luce di

questo documento.

Il Vaticano si è finalmente deciso a stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele, ma

è difficile capire quali frutti abbia tratto da quella decisione. Certo, in occasione della

diciassettesima riunione del Comitato internazionale di collegamento fra cattolici ed ebrei,

che si era tenuta dall’1 al 3 marzo del 2001 a New York, il cardinale Walter Kasper,

presidente della Commissione vaticana incaricata delle relazioni con il giudaismo era venuto

a ripetere che, dal punto di vista della Chiesa attuale, il giudaismo non è «estrinseco» alla

fede cattolica. «L’antica teologia della sostituzione», aveva dichiarato, «non è più in vigore

dopo il concilio Vaticano II. Per noi, cristiani di oggi, l’alleanza con il popolo ebraico è

un’eredità viva […] Non può esservi una semplice coesistenza fra le due alleanze. Gli ebrei e

i cristiani, attraverso le loro rispettive identità, sono intimamente legati gli uni agli altri. La

Chiesa crede che il giudaismo, cioè la risposta fedele del popolo ebraico all’alleanza

irrevocabile di Dio, sia salvifico per loro, perché Dio è fedele alle sue promesse».

Affermazioni di questo tenore, che confermavano orientamenti precedenti, non sono state

tuttavia in grado di far evolvere realmente le relazioni fra ebrei e cristiani. I rappresentanti

dell’ebraismo mondiale hanno preso l’abitudine di prenderne attentamente nota senza

abbandonare un certo scetticismo, se non una certa diffidenza. L’ascesa dell’ortodossia in

seno all’ebraismo e la persistenza dei problemi del Medio Oriente fanno sì che il dialogo

ebraico-cristiano resti oggi più che mai a senso unico, quando non è semplicemente in panne.

Nessun “pentimento” verso i pagani perseguitati

L’evoluzione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei, dopo quasi venti

secoli di antigiudaismo cristiano, annunciava un tema importante, ma che ha assunto tutta la

sua ampiezza solo alla fine degli anni Novanti, quello del «pentimento» – tema piuttosto

equivoco, che non manca di evocare il concetto ebraico di techouvah. Affermando la propria

volontà di «pentimento», la Chiesa ha apparentemente fatto autocritica. Ha manifestato il

desiderio di guardare in faccia le pagine nere della sua storia e affermato con forza la volontà

di farla finita con le manifestazioni di intolleranza di cui ha potuto rendersi responsabile in

passato. Questo atteggiamento ha trovato il suo punto culminante nel momento del Giubileo

del 2000, quando si è visto il papa chiedere più o meno formalmente perdono per tutti gli

errori commessi dai cristiani nel corso della storia: le crociate, l’Inquisizione, i massacri che

hanno accompagnato la scoperta e la conquista dell’America latina, lo schiavismo,

l’appoggio dato a talune dittature, ecc. Gli ebrei, i protestanti, gli eretici erano i primi

destinatari di quel messaggio, di cui i media hanno a volte esagerato l’ampiezza.

Curiosamente, o forse significativamente, la Chiesa non ha invece manifestato alcun desiderio

o sentimento di «pentimento» verso i pagani, che pure ha perseguitato per secoli.

Questa politica di «pentimento» è spesso stata messa sotto accusa dai cristiani tradizionalisti, i

quali ritengono che la loro eredità formi un tutt’unico, che non vi è niente di cui la Chiesa

debba pentirsi e che fanno una certa fatica ad accettare che essa chieda ai suoi fedeli di

battersi oggi il petto per colpe in cui essi non hanno alcuna responsabilità. Il fatto che la

Chiesa abbia potuto “peccare” in passato urta la loro sensibilità. Il «pentimento», in altri

termini, viene sentito come un’umiliazione inutile e un’ ammissione di debolezza. Ma si tratta

proprio di questo? Il problema consiste nel capire se l’autocritica rafforzerà più di quanto

non indebolisce. Dopotutto, la Chiesa non ha mai smesso di predicare l’esame di coscienza e

di dire ai peccatori che si sentiranno meglio all’uscita dalla confessione! L’umiltà esibita può

del resto essere una forma di orgoglio, come sanno tutti gli psicologi. Una Chiesa “pentita”,

che abbia rotto con la sua superbia trionfalistica, appare meno vulnerabile alla critica.

Quando le si rimproverano gli errori di un tempo, può ormai rispondere non solo che essi

appartengono al passato, ma anche che è la prima a denunciarli. Questo atteggiamento può

essere paragonato a quello degli ex comunisti che credono tanto più facile continuare a

richiamarsi al pensiero di Marx in quanto oggi hanno solennemente condannato il Gulag. La

Chiesa, infine, può far notare che le altre religioni non si sono mai affannate a riconoscere i

propri torti.

I gruppi tradizionalisti si illudono

Nel capitolo delle relazioni del Vaticano con gli ambienti tradizionalisti, che continuano a

reclamare il ritorno della messa di san Pio V e l’abrogazione delle riforme intraprese da una

Roma «di tendenza neomodernista e neoprotestante», per usare le parole di Monsignor

Marcel Lefebvre, bisogna soprattutto menzionare la movimentata normalizzazione dei

rapporti con la Fraternità Saint-Pierre, che si è tradotta nella nomina di un nuovo superiore, e

l’avvio di un assai incerto negoziato con la Fraternité Saint-Pie X (oggi indebolita da un

succedersi di crisi interne e i cui membri restano divisi sull’opportunità di un accordo con

Roma), iniziato ai primi del 2001, con l’avallo di Giovanni Paolo II, dal cardinale Dario

Castrillon Hoyos, presidente della Commissione «Ecclesia Dei» e prefetto della

Congregazione del clero.

I tradizionalisti spiegano il declino della Chiesa con il nuovo orientamento che essa ha preso

dopo il concilio Vaticano II. Se la Chiesa non fa più proseliti, dicono in sostanza, è perché è

cambiata, si è allineata ai valori del modernismo un tempo condannati dal Syllabus.

Certamente non tutto è errato nelle critiche dei tradizionalisti, ma è la prospettiva generale al

cui interno essi si collocano che è fuori dalla realtà. Queste critiche sono astoriche. Chi le

formula pensa di poter fare a meno di un’analisi generale del momento storico, la quale

dimostrerebbe che l’attuale situazione della Chiesa si spiega molto più partendo da cause

esterne che guardando a un riorientamento interno. Lo status generale della fede nell’epoca

odierna dipende in effetti abbastanza poco dagli orientamenti delle Chiese. Una Chiesa

cattolica che non fosse affatto “cambiata” si troverebbe oggi, molto probabilmente, in una

situazione ancora più difficile. E la relativa vitalità dei gruppi tradizionalisti non è per niente

una smentita a questa constatazione: più una tendenza generale si afferma, più produce a

titolo di reazione delle convulsioni in senso inverso in ambienti ristretti. Il risorgere

dell’“integralismo” o del “tradizionalismo” (o anche del “fondamentalismo”) non è il segnale

precorritore di un ritorno al vecchio ordine delle cose, bensì l’indizio più sicuro che la

religione si dirige ormai nella direzione opposta.

Va notato, di passaggio, il carattere un po’ paradossale della critica tradizionalista alla

“protestantizzazione” della Chiesa di Roma. Tenuto conto della loro posizione, i

tradizionalisti sono costretti ad adottare l’idea secondo cui sono la «vera fede» e la «fedeltà

alla tradizione» a dire dove si trova la vera Chiesa. Orbene: questo era esattamente il

ragionamento di Lutero. Da un punto di vista strettamente cattolico, è precisamente

l’opposto: là dove è la Chiesa di sempre, là è il papa, là è anche la vera fede.

Quanto alla proporzione di cattolici nel mondo, essa resta all’incirca stabile: l’aumento di 16

milioni di fedeli registrato fra il 1998 e il 1999 corrisponde alla crescita demografica

mondiale (circa l’1,6%). Secondo l’edizione dell’Annuario pontificale che era stata

consegnata a Giovanni Paolo II nell’aprile 2001, si contano in totale un po’ più di un

miliardo di cattolici nel mondo, circa la metà dei quali abitano il continente americano.

L’Europa rappresenta oggi appena un po’ più del 25% di questo totale.

L’esame della situazione paese per paese mostra che le Chiese in genere conservano prestigio

o autorità soltanto in associazione con fattori non tanto religiosi quanto di ordine politico e

culturale. Tale è il caso della Grecia, dove la Chiesa ortodossa ha preservato la continuità

della lingua e della cultura durante i quattro secoli di occupazione ottomana, prima di

prendere la testa della lotta per l’indipendenza nel XIX secolo. Il ruolo del clero – più

esattamente, del basso clero – è stato inoltre importante in Irlanda, nel Québec e nelle

Fiandre, dove ha apportato una legittimazione spirituale alla rivendicazione identitaria. Si

può ancora richiamare il ruolo delle Chiese nella resistenza al comunismo, soprattutto in

Polonia. Tuttavia, una volta che sono stati raggiunti gli obiettivi politici, si constata che la

presa della Chiesa si indebolisce.

Lo status della religione nel mondo occidentale

Che cosa ci si può aspettare dal futuro? Misurata sulla scala dei secoli e dei millenni, la storia

ovviamente resta aperta, e non se ne può dire niente. Ci può senz’altro essere un domani un

ritorno di fiamma, una ripresa delle vocazioni, così come può esserci viceversa

un’accentuazione più marcata del declino che oggi stiamo constatando. Bisogna poi

sottolineare che la situazione del cattolicesimo nei paesi europei non riassume quella della

Chiesa universale, che conserva ad esempio una grande vitalità in America Latina e in taluni

paesi dell’Africa nera. Ma tutto questo ha a che vedere con la congiuntura, cioè con

l’aneddoto. L’importante è altrove, in questo caso nell’analisi delle notevoli trasformazioni

che caratterizzano il momento storico che stiamo vivendo, trasformazioni che hanno

modificato radicalmente lo status del fatto religioso nel mondo occidentale. Tutto induce a

credere che la Chiesa cattolica conserverà un posto non trascurabile nel panorama religioso

del XXI secolo, ma ciò avverrà in condizioni nuove e con modalità inedite. Occorre pertanto

ricollocare le osservazioni sin qui svolte in una prospettiva più vasta, riguardante lo status

attuale della fede, del quale la situazione della Chiesa non è che una conseguenza.

 

NOTE

Alain de Benoist, La stratégie de Jean-Paul II. La “nouvelle évangélisation” de l’Europe, in

«Krisis», 10-11, aprile 1992, pagg. 20-43, e 12, ottobre 1992, pagg. 111-142. I due saggi sono stati

tradotti in italiano e raccolti nel volume La “nuova evangelizzazione” dell’Europa, Arianna,

Casalecchio di Reno 2002.

Cfr. «La Croix», 21 gennaio 2001.

È noto peraltro che anche il Consiglio ecumenico delle Chiese, che raccoglie 342 Chiese protestanti,

metodiste, anglicane e ortodosse, è in piena crisi, poiché i rappresentanti delle Chiese ortodosse si

preoccupano di trovarvisi sempre più in minoranza.

Cerf, Paris 1997.

La si vede, al contrario, denunciare in modo alquanto grottesco il materialismo contemporaneo come una

resurrezione del «paganesimo»! Cfr. specialmente il libro di Monsignor Hippolyte Simon, vescovo di

Clermont-Ferrand, Vers une France païenne?, Cana, Paris 1999.

La Commissione «Ecclesia Dei» è stata istituita con un motu proprio del 2 luglio 1998 «per facilitare la

piena comunione dei preti, seminaristi, comunità o semplici religiosi e religiose finora legati in qualche

modo alla Fraternità fondata da Monsignor Marcel Lefebvre, e che desiderano rimanere uniti al Successore

di Pietro nella Chiesa cattolica».