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L’identità non deve essere un ghetto

di Alain de Benoist - 19/11/2006

 

Il diritto alla differenza non può essere negato

I. È sempre difficile parlare dell’identità, poiché si tratta di un concetto intrinsecamente

problematico. Più che una risposta o un’affermazione, l’identità contiene innanzitutto un

quesito: essa si enuncia in maniera interrogativa. La problematica dell’identità compare infatti

nella sua pienezza solo quando diventa concepibile una domanda come: «chi sono?»,

domanda che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non è sempre stata presente. Non

è quindi esagerato affermare, con Zygmunt Bauman, che la problematica dell’identità nasce

prima di tutto come interrogazione, cioè come enunciazione di un problema: «In nessun

momento l’identità è “diventata” un problema – poteva esistere solo in quanto problema, fu

un “problema” fin dalla sua nascita –; essa è nata problema». Ogni riflessione sull’identità

implica pertanto un’inchiesta sulle condizioni dell’emergere di questa interrogazione, sul

processo che ha consentito alla questione dell’identità di porsi e di essere posta.

Situata all’intersezione fra la psicologia, la sociologia e l’antropologia sociale, la questione

dell’identità è in effetti una questione tipicamente moderna. Nelle società tradizionale, non si

pone e semplicemente non può porsi. L’identità individuale, in particolare, in società di quel

tipo non è un oggetto di pensiero concettualizzato in quanto tale, dal momento che

l’individuo ha difficoltà a pensarsi al di fuori del gruppo e non può essere considerato una

fonte sufficiente di determinazione dell’Io. Scrive Charles Taylor: «Lo stesso termine

“identità” è anacronistico per le culture premoderne, il che non vuol dire che il bisogno di un

orientamento morale o spirituale fosse meno assoluto in precedenza, ma soltanto che il

problema non poteva porsi in termini riflessivi, relativi alla persona, così come si pone per

noi».

Nelle società premoderne, quella che noi chiamiamo identità (ma che nessuno in quel caso

chiama in questo modo) è essenzialmente un’identità di filiazione, sia nello spazio privato

che nello spazio pubblico. L’identità si deduce dal posto attribuito esteriormente a ciascuno

dalla nascita, dal lignaggio o dall’appartenenza. In Grecia, ad esempio, ciascun individuo

possiede una doppia identità, una personale che si esprime in un nome spesso seguito da un

patronimico, l’altra comunitaria, comparsa con la città, che rinvia all’appartenenza familiare,

sociale o politica, per il tramite di un gentilizio, di un demotico, di un filetico o di un etnico.

Ma questi due tipi di identità non sono posti su un piede di eguaglianza. «Nell’Antichità, la

prima identità, concepita per distinguere l’individuo, è a lungo stata relegata molto indietro

rispetto all’identità comunitaria e ha lasciato solo poche tracce storiche: l’identità individuale

è diventata davvero personale solo tardivamente». La singolarità individuale non viene

negata, ma solamente stabilita a partire dall’appartenenza comunitaria. L’identità soggettiva

si organizza allora attorno a un sentimento dell’essere che si esprime nel linguaggio del mito

di origine. Per i Greci andare a teatro significa in un certo senso assistere a una ripresentazione

di ciò che li rende propriamente specifici. La realizzazione di sé consiste perciò

nel ricercare l’eccellenza nella conformità all’ordine delle cose. Quanto all’identità degli altri,

essa discende semplicemente dalla descrizione delle abitudini e dei costumi che il viaggiatore

incontra lontano da casa. Ogni popolo sa che esistono popoli diversi.

Le cose stanno così ancora nel Medioevo. La questione dell’identità si pone soltanto in modo

molto vago in una società di ordini e di stati, perché quegli orizzonti sono fissi. Dati come

fatti oggettivi, essi determinano nell’essenziale la struttura sociale. Il riconoscimento legale

dell’individuo, cioè l’affermazione del suo status in quanto membro del corpo sociale che

gode di un certo numero di libertà o di capacità garantite avviene sulla base di questi stati

fissi. Nella società medievale, inoltre, il valore che prevale è la lealtà. Il problema quindi non

è capire chi si è, ma verso chi si deve essere leali, cioè a chi si devono esprimere dedizione e

sottomissione. L’identità personale discende direttamente da tale dedizione. La società è a

quel tempo frammentata, costituita di segmenti che si incastrano l’uno nell’altro ma restano

nel contempo fondamentalmente distinti gli uni dagli altri. Questa separazione limita l’ostilità

tra le caste e gli stati, ostilità che si scatenerà quando lo Stato nazionale comincerà a

costituirsi, tentando di omogeneizzare tutta quella diversità.

Si capisce quindi immediatamente che la crescita degli interrogativi sull’identità avviene, da

un lato, per reazione alla dissoluzione dei legami sociali e allo sradicamento dei punti di

riferimento indotti dalla modernità, e dall’altro in diretta relazione con lo sviluppo del

concetto di persona in Occidente. Nel XVIII secolo come ai nostri giorni, dire di qualcuno

che è una «persona» vuol dire infatti che possiede una libertà individuale, e dunque che può

a buon diritto essere preso in considerazione indipendentemente dalle sue appartenenze.

Esiste, in conseguenza di ciò, un rapporto fra il problema dell’identità personale e lo

sviluppo dell’individualismo, dovendo quest’ultimo essere inteso in due sensi diversi: il

valore che si attribuisce all’individuo in rapporto al gruppo e l’intensità dei rapporti da sé a

sé. Il concetto di identità rivela, nello stesso momento, di essere un concetto in larga misura

occidentale.

II. A partire dal XVII e soprattutto dal XVIII secolo, il concetto di libertà si confonde con

l’idea di indipendenza del soggetto, ormai libero di assegnarsi da solo i propri obiettivi. Si

ritiene che ogni individuo determini liberamente ciò che per lui è bene grazie al solo effetto

della volontà e della ragione. Questo emergere dell’individuo avviene nel quadro di un

duplice orizzonte: la svalutazione delle appartenenze situate a monte del soggetto e l’ascesa

dell’ideologia del Medesimo.

La modernità nascente ha incessantemente combattuto le comunità organiche, regolarmente

squalificate come strutture che, essendo assoggettate al peso delle tradizioni e del passato,

impedirebbero l’emancipazione umana. In questa ottica, l’ideale di “autonomia”,

frettolosamente convertito in ideale di indipendenza, implica la ripulsa di ogni radice, ma

anche di ogni legame sociale ereditato. «A partire dall’Illuminismo», scrive Zygmunt

Bauman, «si è considerato come una verità di buonsenso il fatto che l’emancipazione

dell’uomo, la liberazione del vero potenziale umano, esigano la rottura dei legami delle

comunità e che gli individui siano affrancati dalle circostanze della loro nascita». La

modernità si costruisce allora sulla svalutazione radicale del passato in nome di una visione

ottimistica di un futuro che si ritiene rappresenti una rottura radicale con ciò che l’ha

preceduto (ideologia del progresso). Il modello dominante è quello di un uomo che deve

emanciparsi dalle sue appartenenze, non soltanto perché esse ne limitano pericolosamente la

“libertà”, ma anche e soprattutto perché vengono considerate estranee alla costituzione del

suo Io.

Questo stesso individuo, tuttavia, estratto in tal modo dal contesto di appartenenza, viene

anche giudicato fondamentalmente simile a tutti gli altri, il che costituisce una delle

condizioni del suo pieno inserimento in un mercato in via di formazione. Dal momento che

si ritiene che il progresso provochi la scomparsa delle comunità, l’emancipazione umana non

passa per il riconoscimento delle singole identità ma attraverso l’assimilazione di tutti a un

modello dominante. Lo Stato nazionale, infine, si arroga sempre più il monopolio della

produzione del legame sociale. Come scrive Patrick Savidan, nella visione moderna del

mondo «l’altro è prima di tutto considerato identico. Ciò significa che l’altro è, esattamente

come me, una persona, un soggetto, e che noi dobbiamo dunque, a tale titolo, essere dotati

dei medesimi diritti. Siamo, in altre parole, uguali; vale a dire che l’essere umano, in quanto

umano, mi appare come un mio simile. In questa prospettiva, si verificano una sorta di

riduzione della differenza e una promozione della rassomiglianza».

La dinamica liberale moderna strappa dunque l’uomo ai suoi legami naturali o comunitari,

astraendosi dal suo inserimento in un’umanità particolare. Essa veicola una nuova

antropologia, nella quale spetta all’uomo, per acquisire la propria libertà, sottrarsi ai costumi

ancestrali e ai legami organici, e questo distacco dalla “natura” viene visto come caratteristico

di ciò che è specificamente umano. L’ideale non è più, come nel pensiero classico,

conformarsi all’ordine naturale; risiede viceversa nella capacità di affrancarsene. La

prospettiva liberale moderna si fonda perciò su una concezione atomistica della società, intesa

come una sommatoria di individui fondamentalmente liberi e razionali, che si presume

agiscano come esseri liberi da condizionamenti, esenti da qualsiasi determinazione a priori e

capaci di scegliere liberamente gli obiettivi e i valori che guidano le loro azioni. «Quali che

siano le loro divergenze», scrive Justine Lacroix, «tutte le teorie liberali condividono un

postulato universalista, nel senso che tendono a fare astrazione da ogni elemento empirico

per innalzarsi alle condizioni trascendentali di possibilità di una società giusta, valide per

qualunque comunità ragionevole».

In questo nuovo panorama idelogico, l’identità corrisponde all’individualità liberale e

borghese. Nel frattempo, la modernità disgiunge identità singola e identità collettiva, per

collocare quest’ultima in uno spazio indistinto. «È stato il riconoscimento di un’indistinzione

di diritti a rendere possibile nella storia il riconoscimento di questa differenza fondamentale

tra l’identità singola, peraltro fondata sulla filiazione e sull’origine, e l’identità collettiva

indistinta, peraltro fondata sull’appartenenza e sulle forme di rappresentazione della

socievolezza», constata Bernard Lamizet, aggiungendo: «In questo senso, l’universalità del

diritto rappresenta una messa in discussione radicale della problematica dell’identità». La

filiazione viene allora fatta ripiegare sulla sfera privata: «A partire dal momento in cui il

modello istituzionale si fonda sul riconoscimento dell’indistinzione, la filiazione cessa di

avere un senso nella strutturazione delle identità politiche che strutturano lo spazio

pubblico».

Attaccando da subito le tradizioni e le credenze, che nel migliore dei casi secolarizza, la

modernità strappa la questione identitaria ad ogni “naturalità”, per collocarla da allora in poi

nell’ambito sociale e istituzionale di prassi politiche ed economiche che ormai strutturano in

modo diverso lo spazio pubblico. Essa separa fondamentalmente l’ordine biologico

dell’esistenza dall’ordine istituzionale. Lo spazio pubblico moderno si costituisce come uno

spazio di indistinzione, cioè come uno spazio nel quale le distinzioni naturali dovute

all’appartenenza e alla filiazione vengono considerate insignificanti. Nello spazio pubblico,

non esistiamo come persone, ma come cittadini dalle capacità politiche intercambiabili.

Questo spazio pubblico è guidato dalla legge. Conformarsi alla legge significa assumere la

parte socialmente indistinta della nostra identità. (Va comunque notato che questa in

distinzione è ancora relativa, giacché si limita alle frontiere all’interno delle quali si esercita la

cittadinanza. Distinguendo una politia da un’altra, la vita politica opera anche una distinzione

tra gli spazi di appartenenza e di socievolezza).

Dal momento che lo spazio pubblico è uno spazio governato dall’indistinzione, l’identità non

può rivestirvi che un carattere simbolico. Constata ancora Bernard Lamizet: «Se ci si colloca

nel campo della storia, della politica e dei fatti sociali, l’identità non può essere che simbolica,

dato che le individualità vi si confondono nell’indistinzione […] Mentre nello spazio privato

mettiamo in rappresentazione soltanto le forme e le prassi costitutive della nostra filiazione,

nello spazio pubblico facciamo apparire le forme e le rappresentazioni della nostra

appartenenza e della nostra socievolezza che, di conseguenza, acquisiscono una consistenza

simbolica e un significato […] Dato che si colloca in una dimensione simbolica, l’identità,

nello spazio pubblico, si fonda come mediazione: non fonda la singolarità del soggetto ma la

sua consistenza dialettica di soggetto di appartenenza e di socievolezza».

La modernità non si caratterizza dunque soltanto per il fatto di mettere in secondo piano le

relazioni organiche e i valori gerarchici, con il corollario della sostituzione dell’onore con la

dignità. Né si limita a screditare l’appartenenza alle comunità tradizionali, che considera

vestigia arcaiche o rigurgiti irrazionali, o a relegare le differenze nella sfera privata, dove non

possono manifestarsi pienamente dal momento che il luogo del riconoscimento è la sfera

pubblica. Essa si costruisce anche sulla base dell’esclusione del terzo e della riduzione della

diversità. Soppressione delle caste e degli stati con la Rivoluzione, omogeneizzazione delle

regole di linguaggio e di diritto, sradicamento progressivo dei modi di vita specifici legati al

contesto, al mestiere, all’ambiente sociale o alla fede, in distinzione crescente dei ruoli sociali

femminili e maschili: l’intera storia della modernità può essere letta come la storia di un

continuo dispiegarsi dell’ideologia del Medesimo. In tutti i campi, compreso (in epoca

recente) lo spazio della filiazione, si assiste ad un’ascesa dell’indistinzione, processo che

raggiungerà l’apogeo con la globalizzazione. Dappertutto, la modernità ha fatto scomparire i

modi di vivere differenziati. Gli antichi legami organici si sono dissolti. La differenza tra i

generi è stata attenuata. Anche i ruoli in seno alla famiglia sono stati sconvolti. Rimangono

unicamente alcune disuguaglianze qualitative – di potere d’acquisto – relative alla possibilità

di accedere al modo di vita dominante. Il risultato è quello che ha descritto Marcel Gauchet:

«l’appartenenza collettiva […] tende a divenire impensabile per gli individui, nella loro

volontà di essere individui, sebbene essi ne dipendano più che mai». Chi sono io? Chi siamo

noi? Ecco delle domande fondamentali, che la modernità ha costantemente oscurato o di cui

ha reso più difficile la risposta.

Naturalmente, però, questo progredire dell’indistinzione ha anche comportato alcune

reazioni. Dato che la differenziazione dei soggetti e degli oggetti struttura inevitabilmente lo

spazio della percezione, la società indistinta suscita disagio, poiché viene sentita come

qualcosa di caotico e privo di senso. Per questo motivo, così come la globalizzazione

omogeneizza le culture ma nel contempo provoca inedite frammentazioni, l’ascesa

dell’ideologia del Medesimo ha portato alla luce un interrogativo sull’identità che poi ha di

continuo stimolato. Nel corso degli ultimi due secoli, questo interrogativo si è presentato in

forme differenti. Il romanticismo, ad esempio, è stato prima di tutto una rivoluzione

“espressivista” che ha dato vita a una ricerca di “autenticità”. Occorre inoltre richiamare il

modo in cui le appartenenze sociali e nazionali moderne hanno potuto rispondere a questo

quesito.

La valorizzazione del lavoro, sostenuta in origine dalla borghesia in reazione ad una nobiltà

che veniva criticata perché considerata acquisita ai valori della gratuità e dunque

“improduttiva”, fornisce un primo sostituto di identità. La realizzazione individuale nel

quadro di una divisione industrialmente organizzata del lavoro sarà in effetti oggetto di un

desiderio di riconoscimento, fondato in particolare sul possesso di un impiego e sulla fierezza

del «lavoro ben fatto». La nuova divisione sociale trasformerà però anche la classe sociale in

un surrogato di identità collettiva. Nel XIX secolo, la lotta di classe svolge un ruolo di

creazione delle identità che è stato sottovalutato. L’appartenenza di classe serve da status

(essendo lo status l’identità del soggetto quale risultato di un’istituzione) e le classi si dotano

di una cultura specifica. La lotta di classe consente a nuove identità di cristallizzarsi, nella

misura in cui la classe non si definisce solamente attraverso un’attività socio-economica ma

anche tramite un riferimento antropologico alle basi naturali della società. «L’esistenza delle

classi», afferma Bernard Lamizet, «porta a constatare il carattere conflittuale e dialettico della

differenza tra le appartenenze all’interno dello spazio pubblico».

Innestata o no nella lotta di classe, la vita politica permette inoltre agli individui di acquisire,

questa volta in quanto cittadini, un’identità di ricambio. Anche le identità politiche,

perlomeno in un primo tempo, faranno nascere culture specifiche, tenute in vita all’interno di

alcune famiglie sociologiche. L’istituzione del suffragio universale risponderà a sua volta a

una richiesta identitaria: «Poter votare non è altro che poter dare una consistenza all’identità

politica di cui si è portatori». Quanto alle lotte e ai conflitti politici, essi hanno una

dimensione chiaramente identitaria, «poiché mettono l’identità degli attori sociali alla prova

dello spazio pubblico».

Le identità di classe, così come le identità politiche e ideologiche, sono tuttavia soltanto

identità settoriali, in concorrenza fra loro. Accanto e al di sopra di esse si costituiranno

identità collettive più inglobanti: le identità nazionali. Constatando che l’evoluzione del

capitalismo ha comportato una massificazione che ha a sua volta provocato una «crisi

dell’identità collettiva», Jean-Pierre Chevènement riteneva trent’anni fa che «l’essere sociale

ha bisogno di incarnarsi così come la persona ha bisogno di un corpo». Nel XIX secolo,

questo bisogno di “incarnazione” farà nascere il movimento delle nazionalità e tutte le forme

moderne di nazionalismo, fondate sull’idea che «l’unità politica e l’unità nazionale devono

essere congruenti» (Ernest Gellner).

Il nazionalismo si mostra, perciò, come uno dei frutti tipici della modernità, ma non è un

fenomeno esclusivamente politico: si nutre di un immaginario in cui si mescolano la storia, la

cultura, la religione, le leggende popolari e così via. Tutti questi fattori vengono rivisitati,

idealizzati, trasfigurati per sfociare in una narrazione coerente e legittimante. Come scrive

Chantal Delsol, «ogni popolo si identifica nella storia in valori o modelli caratteristici. Se quei

valori o quei modelli crollano, l’identità stessa si vede minacciata». Valori e modelli

svolgeranno pertanto un ruolo di dispensatori d’identità, parallelamente ai “grandi racconti”

che abbiamo visto diffondersi nell’epoca di quelle che Michel Foucault ha denominato le

«società disciplinari»: racconto dello Stato nazionale, racconto dell’emancipazione del

popolo lavoratore, racconto della religione del progresso e via dicendo.

La distinzione classica tra «nazioni civiche» e «nazioni etniche» – o, per riprendere i termini

utilizzati da Friedrich Meinecke, tra nazioni «politiche» e nazioni «culturali» – appare a

questo proposito relativamente fittizia, non solo perché la maggior parte delle società

nazionali mescolano i due principi in proporzioni variabili, ma anche perché lo Stato

concerne in prima battuta la società e tutte le società umane sono società di cultura. Quali che

abbiano potuto essere per altri versi le sue caratteristiche specifiche, nessuna nazionalità ha

mai fatto a meno di ricorrere a miti nazionali. Ai tempi della monarchia, i francesi si sono

successivamente voluti (o creduti) eredi dei Troiani, dei Franchi e dei Galli. Dopo la

Rivoluzione, quando la nazione si è definita in termini puramente politici, ignorando ogni

aspetto prepolitico, precedente il contratto civico, le credenze fondatrici dell’identità

nazionale hanno conservato tutta la loro potenza. Nell’era della secolarizzazione, esse hanno

costituito una compensazione per l’indebolimento delle credenze puramente religiose, dando

talvolta vita a vere e proprie religioni secolari. Il “nazionalismo” contemporaneo può anche

fondarsi sull’ideale politico dello Stato e della cittadinanza, ma sarebbe un errore credere che

dei valori politici astratti siano sufficienti a formare un’identità comune e, soprattutto, che

siano sufficienti per esigere dai membri di una società i sacrifici ai quali essi devono talvolta

acconsentire. Esigenze di questo genere possono essere espresse soltanto se i legami di

cittadinanza sono sentiti come un vero “bene immediatamente comune”, sulla base di

un’identificazione con una comunità storica a sua volta fondata su certi valori. I miti, le

leggende, le epopee, i racconti fondatori svolgono sempre il medesimo ruolo: costituiscono

altrettante mediazioni simboliche che fondano la socievolezza sulla trasmissione di un

“sapere” comune o di una credenza condivisa.

Questo “sapere comune” comprende, beninteso, una larga parte di fantasia. Nella maggior

parte dei casi, innesta su realtà storiche incontestabili interpretazioni cariche di giudizi di

valore, proiezioni idealizzanti assolutamente arbitrarie. L’ossessione più forte è l’ossessione

dell’origine, che è anche un’ossessione di purezza: in origine tutto era chiaro e semplice, non

ancora appesantito dalla pesante complessità della storia effettivamente verificatasi.

Ossessione dell’età dell’oro. La stessa ermeneutica trasfigura in modo analogo gli eventi o gli

eroi considerati fondatori. Arminio e Vercingetorige, Carlo Martello, Clodoveo o Giovanna

d’Arco, per citarne solo alcuni, evidentemente non hanno mai svolto nella realtà il ruolo

centrale o avuto la decisiva importanza che l’immaginario moderno ha loro attribuito.

Neppure le battaglie di Poitiers, di Bouvins o di Valmy sono mai state grandi battaglie che

hanno cambiato il corso della storia; il che non ha impedito che le si sia considerate

“fondatrici”.

In questa situazione, i critici dell’identità nazionale hanno ovviamente gioco facile quando

pretendono di “ristabilire la verità storica”. Il loro errore consiste nel non accorgersi che,

anche se l’identità nazionale è assai spesso scaturita dall’immaginazione, questa

immaginazione è indispensabile alla vita del gruppo. E nel credere che il sentimento

d’identità si spegnerà mostrando la parte fantastica che include. Il “fantasma” in questione

andrebbe semmai comparato al mito. Il mito agisce non benché sia un mito, ma proprio

perché è tale. La credenza può ben essere falsa per quanto concerne il suo oggetto,

nondimeno diventa “vera” attraverso quello che suscita nell’individuo o nel gruppo, o

tramite ciò che gli procura. In questo errore incorre Marcel Detienne quando si fa beffe della

pretesa di autoctonia in un libro che, pur EGRATIGNANT Fernand Braudel, si sforza di

presentare gli antichi Greci come se fossero discepoli ante litteram di Barrés. Detienne non fa

fatica a mostrare come i Greci, con miti complessi e storie scabrose, si inventassero una

ancestralità immaginaria; ma sbaglia quando crede di aver dimostrato qualcosa. Perché se è

vero che nessuno può essere considerato autoctono, a condizione che si risalga abbastanza

lontano nel tempo, sta comunque di fatto che la convinzione di essere o non essere autoctono

può strutturare le coscienze e regolare i comportamenti. Come fa notare Leszek Kolakowski,

«se i Greci, gli Italiani, gli Indiani, i Copti o i Cinesi di oggi hanno la sensazione di

appartenere alla stessa comunità etnica dei loro antenati più lontani, non li si può convincere

che le cose stanno diversamente».

III. Hegel è stato il primo, nel 1807, a sottolineare l’importanza del concetto di

riconoscimento: la piena coscienza di sé richiama, e passa attraverso, il riconoscimento

dell’altro. Il concetto di riconoscimento è in effetti essenziale dal punto di vista dell’identità, a

livello sia personale sia collettivo. «Che si tratti della costituzione della propria identità in

occasione dell’esperienza del riconoscimento di sé nello specchio oppure del riconoscimento

dell’altro nell’esperienza della comunicazione», precisa Bernard Lamizet, «è il processo di

riconoscimento ciò che fonda la dimensione simbolica dell’identità». Questa esigenza è

sempre esistita, ma è stata ancor più acuita dall’avvento della modernità, giacché l’identità

che non si basa più su una posizione gerarchica dipende ancor più dal riconoscimento degli

altri. L’identità non si confonde con il riconoscimento, dato che vi sono identità non

riconosciute, ma l’una è strettamente legata all’altro. Come scrive assai giustamente Patrick

Savidan, seguendo su questo punto il pensiero di Hegel, non bisogna credere «che vi è prima

un’identità e che poi si pone il problema del riconoscimento o meno di questa identità, ma

che il riconoscimento interviene nella definizione stessa di questa identità, nel senso in cui

essa “realizza” questa identità». Il riconoscimento completa così l’identità. Ne è il naturale

correlato: non esiste piena identità se non quando essa viene riconosciuta. Per questo Charles

Taylor definisce il riconoscimento come la «condizione dell’identità riuscita».

Riconoscere l’altro implica non solo riconoscerlo in quanto altro, ma anche ammettere che,

se siamo simili, è prima di tutto perché siamo diversi. Non si tratta quindi di concepire il

riconoscimento alla maniera di un Lévinas – per il quale riconoscere l’altro significa

sottrargli la sua differenza e assimilarlo a quel Medesimo di cui entrambi siamo parte –, bensì

nel senso dell’alterità riconosciuta. L’eguaglianza dei diritti, in questa prospettiva, non è

riduzione dell’altro al medesimo. Essa include, al contrario, il diritto alla differenza.

Restituisce all’uguale la sua differenza, il che vuol dire che non concepisce l’eguaglianza nel

senso della assoluta coincidenza. Concepisce l’universale non come ciò che resta una volta

che si sono soppresse le differenze (perché in questo caso non resta niente), ma come ciò che

si nutre delle differenze e delle particolarità. Peraltro, dato che la natura umana si lascia

sempre cogliere in modi molteplici di manifestazione, l’identità umana non è mai unitaria,

ma sempre differenziata. La traduzione giuridica e politica di questo dato elementare porta a

sostituire un regime rispettoso delle differenze a un regime di somiglianza. Già Émile

Durkheim aveva richiamato una solidarietà che esisterebbe in virtù delle nostre differenze

piuttosto che grazie alle nostre somiglianze. Quell’affermazione può essere trasposta, in

termini più contemporanei, nell’idea che il riconoscimento delle nostre differenze sia per

l’appunto quello che può meglio unirci.

Il problema del riconoscimento delle identità è proprio uno di quelli che oggi risorgono con

maggior forza a causa della crisi dello Stato nazionale occidentale. Nella postmodernità, il

grande progetto moderno di uno spazio unificato, controllato e costruito dall’altro si trova ad

essere messo radicalmente in discussione. Zygmunt Bauman constata che «Le grandi identità

che gli Stati nazionali avevano minuziosamente costruito crollano. […] La costruzione

dell’identità, ed ancor più il mantenimento dell’identità, è diventata in queste circostanze una

questione di bricolage, senza officine e capifabbrica manifesti. Si potrebbe dire che la

produzione di identità, sulla scia del resto dell’industria, è stata deregolamentata e

privatizzata». In un contesto generale di cancellazione dei punti di riferimento, lo Stato

nazionale non riesce più ad integrare i gruppi né a (ri)produrre il legame sociale. Non

fornisce più ai membri della società un sentimento di unità, una ragione per vivere e per

morire, vale a dire una ragione per sacrificare il proprio interesse personale e talvolta la

propria vita a qualche realtà o concetto che vada oltre la loro specifica individualità. Sembra

una struttura astratta, burocratica, lontana dalla vita reale. Questa evoluzione libera

affermazioni particolaristiche di ogni sorta. I bisogni identitari «hanno oggi tendenza a farsi

sempre più vivi (e più disgiuntivi che in passato) a seguito del fallimento sempre più evidente

degli Stati nazionali nel loro ruolo di produttori e fornitori di identità». Le identità nazionali

si disgregano, ma ciò avviene a profitto di altre forme di identità. Più la “comunità

nazionale” si indebolisce, più le società vanno alla ricerca di comunità identificanti di

ricambio.

Ma soprattutto il problema dell’identità si pone ormai in termini politici. Dal momento che

l’esigenza di riconoscimento punta a farsi riconoscere da tutti per quello che è, il luogo

deputato di questa esigenza non può che essere la sfera pubblica. L’identità diventa così

l’insieme delle pratiche e degli atti attraverso i quali il nostro posto può essere politicamente

riconosciuto nello spazio pubblico. Proprio per questo motivo la difesa delle identità

(culturali, linguistiche, religiose, sessuali, ecc.) – quello che Irving Fleitscher ha chiamato «il

diritto di restare se stessi» – svolge un ruolo essenziale negli attuali conflitti politici e sociali.

La rivendicazione del riconoscimento mira a far uscire da una situazione in cui la differenza,

essendo relegata nella sfera privata, si ritrovava per ciò stesso ad essere inevitabilmente

dominata dai poteri pubblici. Essa traduce il desiderio di far collocare nello spazio della

comunicazione e della socievolezza un’identità che sino ad allora si era vista negare le

capacità e i poteri di un’entità politica. «L’identità ha una pertinenza e, di conseguenza, una

validità istituzionale solo a partire dal momento in cui è oggetto di un riconoscimento, di un

accreditamento nello spazio pubblico; ha un valore istituzionale solo in quanto ha l’autorità

di un significante», scrive Bernard Lamizet. È dunque proprio la definizione dello spazio

pubblico come spazio dell’indistinzione ad essere messa in discussione dalle rivendicazioni

identitarie. A uno spazio pubblico “neutro”, che non riconosce alcuna appartenenza

specifica, la rivendicazione identitaria propone di sostituire un nuovo spazio pubblico che sia

viceversa strutturato da tali appartenenze. Un’esigenza di questo tipo, nel contempo, svela

che l’egualitarismo ostile alle differenze è portatore di una visione uniformante del mondo,

che a sua volta non è altro che un principio culturale travestito da principio universale.

La rivendicazione identitaria, in altri termini, non si accontenta più di un universalismo

morale e politico che troppo spesso è stato la maschera di prassi inconfessate di dominio. Una

vera politica di riconoscimento delle differenze deve essere incorporata nell’organizzazione

della società, perché il riconoscimento è alla base del legame sociale. La giustizia sociale non

passa solamente per la redistribuzione, ma anche per il riconoscimento. Essa richiede una

politica del riconoscimento da parte dei pubblici poteri.

Una politica di questo genere può tuttavia essere concepita soltanto nella prospettiva di un

riconoscimento reciproco. Colui di cui si riconosce la differenza deve riconoscere chi lo ha

riconosciuto. Ogni riconoscimento implica la reciprocità: è un punto evidentemente

essenziale. Peraltro, una politica del riconoscimento non va intesa come l’alibi del

relativismo. Rispettare il diritto alla differenza non significa rifiutare qualunque possibilità di

giudizio morale su tale differenza – stabilire che tutti i valori sono uguali significa dire che

niente vale –, ma solo proibirsi di universalizzare arbitrariamente questo giudizio ed imporsi

la prudenza necessaria per emanare norme in proposito dal punto di vista del diritto.

Alain de Benoist

NOTE

Zygmunt Bauman, La vie en miettes. Expérience postmoderne et moralité, Le Rouergue/Chambon,

Rodez 2003, pag. 34.

Charles Taylor, Les sources du moi. La formation de l’identité moderne, Seuil, Paris 1998, pag. 65;

ed. it. Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1999.

Christel Müller e Francio Prost (a cura di), Identités et cultures dans le monde méditerranéen antique,

Publications de la Sorbonne, Paris 2002, pag. 9. Questa concezione si è conservata sino ai nostri giorni

nella maggior parte delle società tradizionali. In Nuova Caledonia, per non citare che un esempio, i nomi

che gli individui portano sono anche titoli relativi ai clan di proprietà terriera.

Zygmunt Bauman, in Modernité et holocauste, La Fabrique, Paris 2002, pagg. 72-77, ed. it. Modernità

e olocausto, Il Mulino, Bologna 1999, ha efficacemente dimostrato che gli ebrei furono tra le prime

vittime di questa tendenza all’omogeneizzazione, nella misura in cui la modernità non poteva più

ammettere un particolarismo di cui, invece, era paradossalmente soddisfatta una società medievale che non

era altro che un’addizione di particolarismi. La modernità, in altri termini, ha abolito un insieme di

distanze che, essendo poste come insuperabili, erano anche indirettamente protettive. Per dirlo ancora in un

altro modo, nel Medioevo l’alterità non vietava l’integrazione.

Cfr. Hubertus G. Hubbeling, Some Remarks on the Concept of Person in Western Philosophy, in

Hans G. Kippenberg, Yme B. Kuiper e Andy F. Sanders (a cura di), Concepts of Person in Religion and

Thought, Walter de Gruyter, Berlin 1990, pagg. 9-24.

Zygmunt Bauman, La vie en miettes, cit., pag. 372.

Patrick Savidan, La reconnaissance des identités culturelles comme enjeu démocratique, in Ronan Le

Coadic (a cura di), Identités et démocratie. Diversité culturelle et mondialisation: repenser la

démocratie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2003, pag. 234. Axel Honneth osserva a sua volta

(La reconnaissance: une piste pour la théorie sociale contemporaine, ibidem, pagg. 216-217) che

«l’intreccio fra il riconoscimento legale e l’ordine gerarchico di valore – che corrisponde più o meno al

fondamento morale di tutte le società tradizionali – si è sfaldato con l’avvento del capitalismo borghese e

con la trasformazione normativa delle relazioni legali sotto la pressione di mercati in estensione e del

simultaneo impatto di modalità post-tradizionali di pensiero».

Cfr. Robert Legros, L’idée d’humanité. Introduction à la phénomenologie, Grasset, Paris 1990.

Justine Lacroix, Communautarisme versus libéralisme. Quel modèle d’intégration politique?,

Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 2003, pag. 79.

Bernard Lamizet, Politique et identité, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 2002, pagg. 302-304.

Ibidem, pag. 109.

Ibidem, pagg. 11-12.

Marcel Gauchet, La démocratie contre elle-même, Gallimard-Tel, Paris 2002, pag. XXI; trad. it. La

democrazia contro se stessa, Città Aperta, Troina 2005.

«Il principio individualistico del compimento è in effetti l’unica risorsa normativa che la società borghese

e capitalista possiede allo scopo di giustificare moralmente la ripartizione estremamente disuguale delle

prospettive di vita e dei beni. Poiché il fatto di appartenere a un certo stato non regola più la misura della

stima sociale di cui si gode e la portata dei privilegi legali ed economici di cui si beneficia, la

valorizzazione etico-religiosa concomitante del lavoro e della creazione di un mercato capitalistico

suggeriscono la dipendenza di tale stima dalla realizzazione individuale» (Axel Honneth, op. cit., pag. 220.

Bernard Lamizet, op. cit., pag. 13.

Ibidem, pag. 205.

Ibidem, pag. 192.

Jean-Pierre Chevènement, Le vieux, la crise, le neuf, Flammarion, Paris 1974, pag. 210. Il futuro

ministro della Difesa francese aggiungeva a quell’epoca che «lo Stato nazionale in Francia si è costituito

nel corso dei secoli tramite un susseguirsi di genocidi culturali di cui soltanto oggi comprendiamo le

dimensioni» e che «le rivendicazioni nazionalitarie, lungi dal dover essere considerate “passatiste”, sono

eminentemente popolari» (ivi), posizione piuttosto diversa da quelle che avrebbe assunto in seguito…

Cfr. Ernest Gellner, Nations and Nationalism, Cornell University Press, Ithaca 1983; trad. It. Nazioni e

nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1997.

Chantal Delsol, La République. Une question française, Presses Universitaires de France, Paris 2002,

pag. 98.

Cfr. Alain Dieckhoff, La nation dans tous ses États. Les identités nationales en mouvement,

Flammarion, Paris 2000, pagg. 41-43.

Su questo argomento, cfr. Anthony D. Smith, Chosen Peoples. Sacred Sources of National Identity,

Oxford University Press, Oxford 2003.

Cfr. Wayne Norman, Les paradoxes du nationalisme civique, in Guy Laforest e Philippe de Lara (a

cura di), Charles Taylor et l’interprétation de l’identité moderne, Cerf, Paris 1998, pagg. 155-170. Cfr.

Anche Claude Nicolet, La fabrique d’une nation. La France entre Rome et les Germains, Perrin, Paris

2003.

Cfr. in particolare Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread

of Nationalism, Verso, London 1983, tr. it. Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 2000 e

Wolfgang Bialas (a cura di), Die nationale Identität der Deutschen. Philosophische Imaginationen

und historischen Mentalitäten, Peter Lang, Bern-Frankfurt am Main 2002.

Marcel Detienne, Comment être autoctone. Du pur Athénien au Français raciné, Seuil, Paris 2003.

Leszek Kolakowski, On Collective Identity, in «Partisan Review», inverno 2002-2003, pag. 10.

Bernard Lamizet, op. cit., pag. 20.

Patrick Savidan, op. cit., pag. 233.

Zygmunt Bauman, La vie en miettes, cit., pagg. 216-217.

Ibidem, pag. 259.

Irving Fetscher, Arbeit und Spiel. Essays zur Kulturkritik und Sozialphilosophie, Reclam, Stuttgart

1983, pagg. 145-165.

Bernard Lamizet, op. cit., pag. 58.

Su questo punto, cfr. Axel Honneth, Recognition or Redistribution? Changing Perspectives on the

Moral Order of Society, in Scott Lash e Mike Featherstone, Recognition and Difference, Sage, London

2002, pagg. 43-55.

Cfr. Amy Gutman (a cura di), Multiulturalism and the «Politics of Recognition», Princeton University

Press, Princeton 1992; Charles Taylor, The Politics of Recognition, in Amy Gutman (a cura di),

Multiculturalism. Examining the Politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton 1994;

Axel Honneth, The Struggle for Recognition. The Moral Grammar of Social Conflicts, Polity Press,

Cambridge 1995.