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Jung, il conflitto viaggia per posta

di Augusto Romano - 19/11/2006

Dal 1906 al 1961, la prima edizione completa dell’epistolario: un uomo irritabile, sarcastico, all’occasione tagliente, mai diplomatico Peccato che la traduzione in genere sia piatta,sfocata


UNA vita senza contraddizioni interiori è solo la metà della vita, o una vita nell'aldilà che però è destinata solo agli angeli. Dio, però, ama gli uomini più degli angeli». E per chi non avesse capito: «Non si può sfuggire al conflitto senza al tempo stesso sfuggire anche alla vita». Da cui discende che «solo i folli aspirano alla saggezza». Dare notizia di un epistolario come quello di Jung, che supera le mille pagine, espone a un piccolo delirio di onnipotenza. E' come percorrere un territorio che si estende a perdita d'occhio, nel quale allignano le piante più svariate: un'intera serra, ma disordinata, curata da un eccentrico giardiniere che ha accostato colori e odori secondo criteri ignoti a lui stesso. Facile dire che questa è una metafora della vita, della sua imprevedibilità. Ma una raccolta di lettere non è la vita, è un compendio in parte casuale della vita; non necessariamente un concentrato, piuttosto una selezione insieme pregnante ed elusiva. Sta a noi scegliere fior da fiore, ricostruire secondo il nostro gusto quella vita, legittimare un arbitrio che per un istante ci fa sentire creatori: da cui appunto il delirio di onnipotenza. Io ho scelto di seguire il filo del conflitto, di cogliere in questo epistolario, che si estende dal 1906 al 1961, i segni di uno spirito che raramente si accontenta di osservare le cose del mondo con lo sguardo dello spettatore disinteressato, e invece sempre vi entra dentro, si interroga e interroga, senza mai eludere il contrasto con gli altri e con se stesso. Se poi si conoscono la curiosità insaziabile e l'incredibile laboriosità di Jung non desterà stupore la varietà degli interessi che queste lettere documentano, spaziando, tanto per esemplificare, dalla epistemologia alle vicende politiche del '900, dall'impiego degli allucinogeni al significato dell'esperienza religiosa, dalla storia della cultura ai problemi posti dall'inseminazione artificiale, dai rapporti tra la fisica contemporanea e la psicologia alla interpretazione dei fenomeni paranormali, dai giudizi spesso molto spregiudicati su personaggi quali Einstein, Heidegger, Joyce, Picasso ai rapporti tra Oriente e Occidente. A cui vanno ovviamente aggiunti sintesi, chiarimenti, amplificazioni relative ai temi di interesse più professionale: i rapporti con Freud, la cura dei pazienti, i concetti fondamentali della psicologia analitica e, su un piano più personale, abbozzi di diagnosi, interpretazioni di sogni, consigli e suggerimenti. Come si vede, questo è un epistolario impegnato e nient'affatto «mondano»: l'Autore prende invariabilmente sul serio gli argomenti che di volta in volta emergono e li problematizza, evitando così di banalizzarli, sostenuto dal sentimento di stare svolgendo un compito necessario, che è caratteristico di tutti gli uomini molto creativi. Un epistolario dunque centrato più sui contenuti che sulle persone, avaro di confessioni intime, diffidente nei confronti delle seduzioni estetiche, costantemente sostenuto da un afflato etico che però mai si traduce in atteggiamenti dommatici o in movenze paludate. Torniamo ora al tema del conflitto. Ne segnalerò uno, che mi sembra centrale. Jung si muove impavidamente tra due istanze contrapposte. La prima lo vuole scienziato empirico, attento ai fatti e alle verifiche, antimetafisico e, a modo suo, illuminista. La seconda rappresenta invece una spinta visionaria, il desiderio di trascendere il visibile per sporgersi sull'ignoto, un ignoto indimostrato (forse indimostrabile) ma in grado di afferrare l'anima, di suscitare emozioni e trasformazioni interiori. Le dispute, qui ampiamente documentate, con i molti teologi che gli scrivevano sono un esempio di questo contrasto. Jung, da buon kantiano, sosteneva che la parola Dio designa un'immagine e un'emozione ma niente di cui si possa dichiarare la realtà «oggettiva», esterna alla psiche. Naturalmente i teologi, arrabbiatissimi, lo accusavano di ateismo e di psicologismo: da inguaribili letteralisti non sapevano che farsene di un Dio insediato nell'immaginazione dell'uomo e non nell'alto dei cieli. Al che Jung replicava appassionatamente che per lui l'immagine di Dio era importantissima, in quanto simbolo della totalità, di quell'unione di conscio e inconscio che egli chiama Sé e nel quale è racchiuso il supremo significato dell'esistenza. La cosa era poi complicata dal fatto che Jung sosteneva tranquillamente che anche il male, il diavolo, sono compresi nell'esperienza della divinità, e che dunque la teoria agostiniana del male come privatio boni era una edulcorazione della verità, un espediente eufemistico: insomma, un'emerita sciocchezza. Un dialogo tra sordi, ovviamente, non privo a volte di spunti divertenti. Va anche detto che in queste diatribe Jung dà il meglio di sé come polemista e si produce a volte in degli «a fondo» da cui emerge la sua natura di uomo irritabile, combattivo, sarcastico, all'occasione tagliente, mai diplomatico o conciliante. Jung è uno che va sempre al sodo e mostra una vera idiosincrasia per i giochi di parole, cioè per l'uso delle parole al posto dell'esperienza. E' qui che risiede la sua moralità, che è anche indifferenza ai luoghi comuni e alle mode culturali, e rispetto per ciò che ha solide fondamenta nella tradizione. Chi oggi è ancora capace di parlare della cultura occidentale come di una realtà unitaria, di cui comunque essere orgogliosi, pur riconoscendone limiti e pecche? Sono discorsi di un'altra generazione, quella appunto di Jung (e di Thomas Mann), di cui si va perdendo la memoria. E anche degli epistolari la memoria si perderà. I nostri nipoti leggeranno raccolte di «messaggini» scaricabili da Internet. Veniamo adesso alle dolenti note. La traduzione è generalmente piatta, sciatta, sfocata. Sin qui, pazienza; non tutto si può avere a questo mondo. La cosa diventa inquietante quando ci si accorge che spesso, troppo spesso, essa appare incomprensibile, oppure fuorviante, o redatta in un italiano approssimativo e deragliante. Talora con effetti esilaranti. Sorge spontanea la domanda: perché mai un editore rende in gran parte vano l'impegno profuso nel pubblicare un'opera di questa importanza, tralasciando di curare in forma sia pur minima il cosiddetto editing? Le lettere di Jung sono interessantissime. Ma chi può le legga nell'edizione tedesca, inglese o francese.