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Alimentare la paura, ci si mette pure l’arte (recensione)

di Christian Raimo - 20/11/2006

 
Le narrazioni della paura. Le narrazioni della paura sostituiscono, surclassano, invadono, succhiano lo spazio delle narrazioni del male. Ne costituiscono la versione commerciale, si potrebbe dire. Cosa sono queste narrazioni della paura? Grossolanamente delle narrazioni che invece di scomporre, destrutturare, anatomizzare la sintesi che operano i luoghi comuni, ne sfruttano e ne amplificano comodamente la potenza emotiva. Viviamo rappresi tra queste sintesi, subiamo la scontatezza semantica di formule come “terrorismo islamico”, “scontro di civiltà”, “masse di immigrati”, “alienazione giovanile”. Per questo trovare visioni, autori che - nel loro modello poetico - tentino di rovesciare questo meccanismo di riduzione estetica è assai salutare.

Guillermo Arriaga e Alexandro Innaritu sono tra questi autori. Il loro terzo film, Babel, aldilà della sua confezione parahollywoodiana, è un’opera che propone un campione di anticorpo alle narrazioni della paura. Vediamo. La trama del film segue tre storie distanti che s’intrecciano con un escamotage minimo. Nella prima siamo su un altopiano del Marocco: un pastore dà ai suoi bambini un fucile per difendere il gregge dai lupi. I figli, lasciati da soli, lo usano invece per giocare al bersaglio con un pullman di turisti e feriscono una donna (Cate Blanchett). Si scatena una caccia al terrorista. Lei, in agonia, in attesa di soccorsi che non arrivano, è la moglie di una coppia in crisi dopo la morte del loro terzo figlio, soffocato nel sonno: insieme al marito (Brad Pitt) ha deciso di venire in vacanza in Marocco proprio per riprendersi dal lutto.

Nella seconda storia siamo tra il Messico e gli Stati Uniti: la coppia in crisi Pitt-Blanchett ha affidato i suoi due figli alla tata messicana durante la loro assenza, assenza che si protrae oltre il previsto per l’incidente, ma la tata non può assolutamente mancare al matrimonio del proprio figlio, e con l’aiuto del nipote (Gael Garcia Bernal) finisce per portarli con sé alla festa, ma sulla strada di ritorno i poliziotti della dogana fanno storie a lei e al nipote che reagisce istericamente, cosicché la donna senza averne colpa si ritrova da sola nel deserto con i due bambini. A quel punto, disperata, li abbandona da soli vicino a un cespuglio per andare a cercare aiuto e viene arrestata da un poliziotto che la crede una clandestina. Nella terza traccia, in Giappone, una ragazza sordomuta è ancora sotto shock per il suicidio della madre, avvenuto di fronte a lei mentre suo padre dormiva; e, in cerca di una condivisione, d’affetto, si sballa con gli amici e prova a sedurre nei modi più diretti e penosi chiunque le capiti a tiro.

Il film è tante altre cose, ma è anche il tentativo di parlare con gesto massimalistico degli spauracchi del mondo globalizzato e babelico: il terrorismo, l’immigrazione clandestina, l’alienazione. Che in realtà, ci mostra Innaritu, non sono mai quello che sembrano. I due bambini pastori sono tutt’altro che terroristi, sparano per sbaglio. La tata non è una clandestina, vive negli States da sedici anni. La ragazza giapponese non è una vittima di un disagio diffuso, ma patisce la latitanza del padre. Ogni storia è una storia a sé, e dietro ogni interpretazione preconfezionata se ne nasconde un’altra, spesso più banale, più dolorosa, più reale.

Le narrazioni della paura si sbriciolano se si ha il coraggio di guardare il male per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse. Quello che spesso ci viene raccontato non è il male ma una sua falsa controfigura. Accade così per le armi di distruzione di massa, accade così per tutte le inchieste sulle cento presunte cellule terroriste italiane, per i continui allarmi criminalità, per gli attentati sventati in Inghilterra, per l’imminente invasione di migranti sulle coste della Sicilia. A ogni narrazione della paura abbiamo imparato qual è il ruolo che dovremmo incarnare: rimettere la nostra capacità di comprensione e invocare la fata morgana della “sicurezza”. Ma allora come ci si può discostare da questo gioco delle parti?

C’è una frase che pronuncia Cate Blanchett, rivolgendosi al marito, in un momento in cui teme di morire: «Non lasciare più da soli i bambini. Promettimelo». Pare che sia questa la chiave di Babel per spiegare come si origina la tragedia. Il pastore marocchino che incautamente affida il fucile ai figli senza sorvegliarli, la coppia americana che ha lasciato i figli alla tata per ritrovare un’armonia finita, la tata che abbandona i bambini nel deserto, il padre della ragazza giapponese che non è stato capace di starle vicino. Spesso il male è molto banale, così come forse altrettanto banale può essere il modo di evitarlo, e di proteggerci.