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"Morti accidentali": quante storie ancora da raccontare?

di Dahr Jamail - 21/11/2006


La tragica storia di Tim Eysselinck, una delle tante "fatalità" non prese in considerazione nella cosiddetta "guerra al terrore" di Dick Cheney, e della sua famiglia, torna a far riflettere sui rischi a cui sono esposti gli operatori civili nelle zone di guerra. Possiamo tranquillamente presumere che ci siano migliaia di altre tristi vicende simili a quella di Tim, ancora da raccontare

In tutte le guerre in cui sono stati coinvolti gli Stati Uniti, inclusi i due conflitti mondiali, il Vietnam e la prima Guerra del Golfo, l’esercito Usa è sempre sembrato sicuro di sé e ha sempre provveduto alle proprie basilari funzioni di supporto, come la cucina, le pulizie e altri servizi. Le cose sono cambiate quando l’amministrazione Cheney è salita al governo nel 2000.

La guerra è stata privatizzata, ed esempi lampanti ne sono l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre leggete questo articolo circa 100.000 – 125.000 appaltarori civili americani stanno operando in Iraq e in Afghanistan. Il loro lavoro spazia dalla sicurezza al lavoro d’ufficio, dagli interrogatori dei prigionieri alla guida di convogli e al disinnesco di ordigni inesplosi.

Nel novembre del 2005, il Dipartimento del Lavoro Usa ha contato in Iraq 428 operatori civili morti e 3.963 feriti – nessuno dei quali compare nella lista ufficiale dei “decessi accidentali”. Impiegare civili, presumibilmente, nel lungo periodo consente di risparmiare e, ancora più importante, libera soldati addestrati per il campo di battaglia. I bassi costi si rendono possibili in quanto i civili sono stati reclutati per impieghi temporanei o d’emergenza. Tuttavia, di fronte all’attuale conflitto a lungo termine (permanente) – leggi Iraq e Afghanistan – tali condizioni non sussistono più.

Considerati gli astronomici profitti garantiti da questi appaltatori, sommati alla frode e allo sperpero dilaganti, è difficile credere che un qualsiasi ragionevole amministratore voglia aderire a simili iniziative. A meno che, naturalmente, quello stesso amministratore non ne ricavi un cospicuo profitto.

Le condizioni di cui sopra si diradano ulteriormente sulla via di casa, perché è stato proprio a casa che Tim Eysselinck è diventato una delle migliaia fatalità non prese in considerazione nella cosiddetta "guerra al terrore" di Dick Cheney. Eysselinck lavorava per la RONCO Consulting Corporation dal 2000, e il suo ultimo compito in Iraq, da agosto 2003 fino a febbraio 2004, è stato quello di responsabile della squadra sminamento – impiegata per disinnescare le bombe a grappolo, mine da terra e altri ordigni inesplosi.

La combinazione tra il duro lavoro, la minaccia percepita di un incidente aereo e l’esser stato testimone dell’uccisione di civili innocenti da parte di alcuni militari, gli si è rivelata letale. Da quando rientrò a casa, in Namibia, Eysselinck cadde vittima di un disturbo dal cosiddetto 'stress post-traumatico' (PSTD). Due settimane prima della sua morte, aveva detto a un’amica in Namibia: “Gli omicidi [in Iraq] erano così frequenti… l’unica cosa che potevano fare era eseguire gli ordini”. Disse inoltre: “Nonostante tutto, dovrei tornarci”.

Per nove anni, Eysselinck aveva servito come capitano nell’esercito americano. Era molto orgoglioso di far parte delle forze armate. Era stato nominato tenente di fanteria dal ROTC all’Università della Florida come completamento del suo BA. Si era laureato al corso della Infantry Officer Basic alla Airborne School, ed era un ranger qualificato.

Aveva servito come capo squadra, ufficiale in capo della compagnia e aiutante del battaglione in una divisione di fanteria di stanza alle Hawaii. Dopo quattro anni fu promosso capitano. Prima di lasciare rinunciò al servizio attivo. Nel 1994 tornò a servire con il Commando Operazioni Speciali per l’Europa e fu inviato in Bosnia, in Africa Occidentale e infine, nel 1998, in Namibia.

Durante la sua carriera militare il capitano Eysselinck è sempre stato oggetto di ottimi report di valutazione. Il tenente colonnello Nichols, direttore del SOCEUR (Special Operations Command Europe), scrisse del capitano Eysselinck: “Assolutamente eccellente. Al di sopra del 5% rispetto a tutti gli ufficiali che abbia mai conosciuto. Ottima scelta per il comando del battaglione. Ottime performance sotto stress mentale”. I commenti di valutazione sullo stanziamento di Eysselinck nel 1998 in Namibia come ufficiale militare di liaison comprendevano il seguente: “Il Capitano Eysselinck ha dimostrato ancora una volta perché è stato incluso nelle nostre (brevi) liste di ufficiali su cui si può contare per portare a termine importanti missioni a livello mondiale”. Lasciò l’esercito nel 2000 perché la moglie, Birgitt, lo aveva imposto come condizione per il matrimonio. Tuttavia, quando tornò a casa dopo il periodo in Iraq, Tim era un altro uomo.

La madre di Tim, Janet Burroway, è una scrittrice e accademica che vive in Florida. In un’intervista con il giornalista Rick Kelly, così ha descritto il figlio di ritorno dall’Iraq: “Quello che ha patito ha avuto un effetto devastante su di lui. Non vi erano segnali che premonissero una depressione. Ma la rabbia era palpabile. Per lui è stato devastante arrivare a percepire che la guerra era ingiusta. Parlava di corruzione, menzogne, avidità, e di una stupidità brutale. Non smettevo di pensare a quanto profondamente ne era stato ferito. Diceva di essere disgustato del regime di Bush, e che Brewer aveva mandato tutto all’aria con gli iracheni. Era sempre stato, quasi incosciamente, disposto a morire per il suo paese, e addirittura vedeva se stesso andare eroicamente verso la battaglia. Ma non è questo che gli è successo. A un certo punto disse a un amico in Namibia che si vergognava di essere americano. Una cosa che io dico quasi ogni giorno. Ma per Tim ha rappresentato una vera svolta”.

Sua moglie Birgitt ha raccontato allo stesso giornalista che, tornato in licenza a casa nel Natale del 2004, il marito le aveva parlato delle atrocità di cui era stato testimone in Iraq. Birgitt aveva la sensazione che ciò avesse contribuito al manifestarsi del disturbo da stress post-traumatico: “Mi disse anche che, mentre erano alla guida di un veicolo, un convoglio militare aveva iniziato a sparare contro abitazioni civili. ‘E poi cercano anche di negare le uccisioni civili’, notò.

Aggiunse che l’esercito non avrebbe assicurato un risarcimento – e lo disse con un sorrisetto come a intendere ‘ormai è un classico.’ C’erano esplosivi improvvisati piazzati lungo le strade che percorrevano, nei luoghi dove lavoravano. Uno dei suoi colleghi fu mutilato da un’esplosione. Adesso si finge che tutte queste cose non siano mai successe. Per lo meno, si dovrebbe rilasciare un documento che attesti che chi lascia una zona di guerra debba ricevere assistenza. Non si può farli tornare come se niente fosse a una famiglia o a una società che non sono in grado di accogliere. Di ritorno in Namibia, non eravamo preparati. Non sappiamo nemmeno cosa sia un disturbo da stress post traumatico. Se avessi avuto il minimo sentore, lo avrei fatto immediatamente curare”.

Come sua madre, anche sua moglie aveva notato che Tim era un uomo diverso da quando era tornato dall’Iraq. “C’erano stati diversi cambiamenti. Il più evidente era l’insonnia”, ha detto a Kelly. “Dava segni di questa particolare smania di iper-vigilanza: chiudeva a chiave tutte le porte, ogni volta assicurandosi che entrambi i cancelli di sicurezza fossero non fossero rimasti aperti. Tim guidava in modo spericolato, a volte tremava e sbatteva gli occhi ripetutamente. Era irritabile, ansioso e negli ultimi tempi manifestava strane esplosioni d’ira. Seguiva le cronache dei media in modo ossessivo e scriveva ai suoi uomini ogni due giorni – particolare che ho scoperto solo in seguito. Chiedeva in continuazione come stessero. Quando l’Hotel Libano saltò in aria, scrisse: 'State bene? Ho guardato il i telegiornali con ansia, spero abbiate cura di voi. Sono preoccupato, spero sia tutto ok dopo gli ultimi bombardamenti'. Naturalmente, sentiva il rimorso del soldato, o del sopravvissuto, come lo vogliate chiamare”.

In un profondo stato di shock, amareggiato per una guerra che un tempo aveva sostenuto, il quarantenne Tim Eysselinck si suicidò nella sua abitazione di Windhoek, in Namibia, subito dopo essere tornato dall’Iraq durante una licenza di tre mesi – ottenuta, in accordo con la RONCO, dopo essersi sentito “iper stressato” alla fine di un biennio tra Etiopia e Iraq. È stato riferito che, mentre era in Iraq, per Tim un fattore di grande stress sono state le continue pressioni da parte del quartier generale della RONCO di disarmare lui e la sua squadra, allo scopo di evitare potenziali responsabilità. La vicenda era degenerata anche dopo che erano stati uccisi alcuni appaltatori precedentemente disarmati. Erano caduti in imboscate e pesantemente picchiati. Tim minacciò di andarsene se lo avessero disarmato.

Cinque minuti prima di togliersi la vita, con in mano le carte da gioco raffiguranti i maggiori ricercati iracheni, Tim disse a sua moglie: “Mi state dando aiuto”. Così Birgitt durante l’intervista con Kelly: “Sapeva che c’era qualcosa che non andava. Tre settimane prima della tragedia, una notte mi disse: ‘C’è qualcosa di sbagliato in me, mi sento giù’. Cosa avrei dovuto fare? In un certo senso, mi rimprovero di non aver saputo nulla di depressione. Non ne so niente. Era un sintomo chiaro e lampante. Mi ribadì la stessa cosa una settimana dopo: non riusciva a dormire e si svegliava tre volte a notte”.

Il giorno della sua morte, verso mezzogiorno, in presenza della signora delle pulizie, Tim disse che era depresso. Successivamente, la donna raccontò che lo aveva visto marciare per casa come un soldato.

Con la morte di Tim cominciarono per Birgitt un incubo e un’odissea legale. La RONCO si rifiuta di riconoscere che la causa dei malesseri del marito fosse il suo lavoro, e si rifiuta di pagarle un indennizzo per la morte. Birgitt ha intrapreso un’azione legale per ricevere assistenza dall’Assicurazione Internazionale CNA, in base al “Defense Base Act” americano. La RONCO rispose prima definendo il caso del marito come una “fatalità di guerra”. Non solo la compagnia si comportò freddamente, ma addirittura arrivò a gettare fango su Tim, particolare che per Birgitt non fece altro che aggiungere angoscia ad angoscia.

È importante ricordare che tra gli impiegati a tempo pieno della RONCO, su 90 americani e 300 di paesi altri paesi, figurano molti ex membri del governo Usa, fra cui l’assistente di un ex deputato dell’USAID, direttori di campagne militari e ufficiali senior in pensione. Tra i clienti, l’USAID, il Dipartimento della Difesa Usa e la Blackwater. La compagnia in Iraq ha sottoscritto contratti per un valore superiore ai 10 milioni di dollari.

Birgitt mi ha recentemente confessato che tre giorni dopo la morte di Tim ricevette una chiamata da Stephen Edelmann, presidente della RONCO. “Espresse cordoglio e volle sapere cos’era successo. Concluse dicendo: ‘[La morte di Tim] non è colpa di nessuno… è come un gene difettoso’“. Sembra che Edelmann abbia aggiunto: ‘La RONCO è una società troppo piccola per dotarsi di un piano pensionistico’.

Birgitt ha aggiunto che la RONCO ha inviato fiori per il funerale. Alle parole della vedova non serve aggiungere altro: “Questa è stata tutta la loro assistenza verso un uomo che ha sgobbato per loro così duramente. Nella fattispecie, prima come ‘Deputy Task Leader’ in Namibia, successivamente come Capo di Partito in Etiopia. Tim ha posto la propria vita in prima linea per mettere a punto il 'progetto' di questi signori in Iraq”.

Circa tre mesi più tardi, la madre di Tim scrisse una lettera alla RONCO a cui allegò una perizia psichiatrica, con la richiesta di indennizzo da parte della società. La RONCO si rese conto di non poter evitare di pagare i 3.300 dollari che dovevano a Tim per ferie non usufruite. Alla richiesta della madre di Tim, risposero che il figlio era stato un valido membro del loro team, e indirizzò la famiglia a un legale con cui compilare un reclamo DBA (‘Defense Base ACT’).

È chiaro, inoltre, come la RONCO non disponga di infrastrutture di controllo per i propri dipendenti che tornano dall’Iraq. Come disse Birgitt, “il fatto è che avrebbero dovuto interrogare queste persone. Non possono inviare la gente in guerra e poi non curarsene a dovere. L’uomo che è stato mandato in Iraq, mio marito, era un uomo sano, felice. Non avevamo problemi, nessuna crisi matrimoniale, nessuna difficoltà economica. Davvero, nessun problema. È più che mai evidente che [il suicidio di Tim indotto da disturbo da stress post-traumatico è stato causato dalla guerra e da quello che è successo laggiù”.

Cinque mesi prima di morire, il 16 novembre 2003, Tim scrisse questa mail alla sua madre adottiva: “Ho parlato con Ben questa sera. Mi ha detto che sei preoccupata per me. Non devi esserlo, ho fatto un patto con Birgitt: se le cose dovessero mettersi male, verrò via. Non ci avrei mai pensato se fossi stato nell’esercito regolare, ma sono abbastanza sveglio da sapere che non dovrei essere qui. Ho fin troppo per cui vivere da accettare tutto tranne rischiare la vita. Ho un figlio e una figlia. Entrambi hanno bisogno di me più di questo luogo. Ancora una volta, diventerò coraggioso e fifone allo stesso tempo, se sentirò la mia sicurezza a rischio. Nel frattempo, ho addestrato più di 100 iracheni; potrebbe fare la differenza e salvare qualche vita. Non c’è dubbio che questa sia una conquista”.

I pensieri di Tim evidentemente cambiarono dopo che la RONCO divenne operativa, nel novembre 2003, cioè quando il Capitano Eusselick e la sua squadra di addestratori internazionali accompagnarono gli iracheni verso molteplici incarichi giorno dopo giorno – soprattutto attraversare i checkpoint intorno a Baghdad per ripulire le aree di battaglia dalle munizioni inesplose. Il 10 gennaio 2004 Tim scrisse nel suo diario: “È tutto fuori controllo ora. Spero di tornare a casa sano e salvo”. In altre pagine erano disegnati schizzi di bombe, fucili, aerei, maschere antigas e granate varie.

C’è qualcosa di cui ci siamo scordati? Qualcosa di prezioso che abbiamo smarrito errando sul suolo di terre straniere?
Arna Bontemps


Quando il caso venne alla luce, invece di assumersi le proprie responsabilità per avere contribuito all’irreparabile perdita di un amato marito, padre e figlio, e tentare di scusarsi per il grave danno inflitto alla sua famiglia, la RONCO architettò una volgare offensiva. Tra le altre cose, il defunto Tom Eysselinck fu accusato di essere rude, negligente e indifferente, alla stregua di un ranger militare che “sfoggiava le mostrine ma non aveva mai visto un combattimento”. Questa maleodorante “strategia di difesa” ha costretto Birgitt a contattare oltre 16 testimoni, compreso un ufficiale dalla Difesa della Namibia, in modo da respingere al mittente le infamanti accuse.

La RONCO ha poi assunto uno 82enne psichiatra che, durante l’interrogatorio, riconobbe di non aver preso visione degli attuali studi sul PTSD, fino a – dichiarando il falso – affermare che la comparsa dei sintomi della patologia in questione si manifesterebbero immediatamente dopo l’evento traumatico, e che il suicidio sarebbe il risultato della depressione e non del PTSD.

Dopo che i tentativi di screditare Eysselinck si rivelarono controproducenti, la RONCO cominciò a denigrarne il lavoro e a dibattere sulla vera natura della guerra in Iraq. Due impiegati della compagnia rilasciarono la sconcertante testimonianza secondo cui a Baghdad, tra l’agosto del 2003 e il febbraio del 2004, non c’era pericolo. Dissero inoltre che Tim non era stato soggetto a minacce. Rilasciarono false dichiarazioni e testimoniarono che nessuno di loro aveva visto Tim durante quel periodo. C’erano – e ci sono tuttora – prove evidenti di report che dimostrano il contrario. Tutto lascia evidentemente pensare che la RONCO sia più preoccupata di eludere potenziali responsabilità e sostenere il proprio margine di profitto piuttosto che salvaguardare la sicurezza e il benessere dei propri dipendenti.

A Tim lo 'stress post-traumatico' non era mai stato diagnosticato; pertanto, di fatto non esiste dimostrazione incontrovertibile che egli avesse sofferto della patologia prima di morire. Il fatto che non esistano prove inconfutabili che soffrisse di PTSD appare a tutti gli effetti una negligenza criminale della RONCO, che non ha assistito i propri uomini che hanno passato sette mesi in una zona di guerra.

Nel luglio 2005 il Generale Kevin Kiley ha dichiarato che secondo uno studio sui soldati di ritorno dall’Iraq il 30% avrebbe sviluppato problemi psichici da tre a quattro mesi dopo il rientro a casa. Inoltre, il 13% è andato incontro a significative impreviste anomalie già nei campi di battaglia. Per decenni è stato un indiscusso credo medico-scientifico che la comparsa dello 'stress post-traumatico' non si verificasse immediatamente dopo il fattore scatenante. Questo perché l’esercito americano solitamente si preoccupa delle truppe di ritorno dalle aree di guerra solo diversi mesi dopo l’effettiva data del rientro in patria.

La famiglia di Tim non avrebbe mai creduto di dover dimostrare in tribunale l’ovvietà che fosse pericoloso lavorare a Baghdad durante l’occupazione, oltre al fatto che il loro caro abbia dovuto affrontare minacce quotidiane, per non dire del fatto che il suo lavoro includesse l’occuparsi degli ordigni inesplosi. Tim era esposto a reali pericoli mentre maneggiava bombe e mine inesplose, molto al di sopra di quanto gli appaltatori in Iraq debbano affrontare.

Il giudice – nonostante abbia accertato come Eysselinck fosse “una persona contraddistinta da alti principi morali, molto amato dalla famiglia, dagli amici e dai colleghi”, “un patriota, un perfezionista cortese, un galantuomo”, “un marito e un padre devoto, rispettato dai colleghi e dai superiori” – si è dimostrato di diverso avviso rispetto alla famiglia e al resoconto del loro psichiatra.


Un essere umano è infinatemente prezioso e deve essere protetto in modo incondizionato.

Hans Kung


Ci possiamo chiedere quanti altri Tim Eysselinck ci sono in Iraq? Quanti altri sono tornati a casa non sapendo delle gravi malattie riscontrate e di come affrontarle? Quante altre famiglie sono a rischio e vengoono lasciate nella stessa situazione in cui si trova quella di Tim?

In Iraq gli operatori civili, nonostante il loro lavoro venga remunerato lautamente, sono continuamente esposti a gravi pericoli. E le loro famiglie sono abbandonate alla più totale incertezza. Con una stima di 100.000 – 125.000 appaltatori americani presenti in Iraq e Afghanistan, possiamo tranquillamente presumere che ci siano migliaia di storie simili a quella di Tim e ancora da raccontare. Ad ogni storia è legata la sofferenza di un individuo e di una famiglia.

E l’occupazione si trascina, la sua fine all'orizzonte è ancora lontana...

Dahr Jamail è un giornalista free lance che ha trascorso oltre otto mesi nell’Iraq occupato. Lo scorso gennaio a New York ha fornito le prove dei crimini di guerra Usa alla Commissione Internazionale d’Inchiesta sui Crimini contro l’Umanità commessi dall’Amministrazione Bush. Scrive regolarmente per ‘Inter Press Service’, ‘Truthout.org’, ‘Asia Times’, ‘TomDispatch’; il suo sito è www.dahrjamailiraq.com.
Dahr Jamail è tra gli autori dell’antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi.
Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (prefazione di Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada).

 


Fonte: Dahr Jamail's MidEast Dispatches
Traduzione a cura di Elena Mereghetti per Nuovi Mondi Media